di Carmela Giacobini

Premessa

«Aelia Laelia Crispis nec vir nec mulier nec androgyna»: così si presenta a noi la misteriosa figura di Aelia Laelia Crispis, la quale ha da sempre esercitato un grande fascino su eruditi, letterati e studiosi. Sin dalla sua apparizione, numerosi furono i tentativi di trovare la soluzione all’enigma di questa iscrizione.

Gli studiosi concordano oggi che l’iscrizione di Aelia Laelia Crispis sia il risultato di uno sforzo intellettuale del senatore Achille Volta, il quale fece sì che il reperto fosse ritrovato durante gli scavi della costruzione di Casaralta, una prestigiosa villa bolognese appartenente allo stesso Volta e fatta erigere vicino ad una chiesa dell’ordine dei cavalieri Gaudenti. Lo stesso Volta trascrisse l’enigma su due miscellanee oggi custodite nella Biblioteca Universitaria di Bologna in cui sono inseriti diversi testi poetici, come, ad esempio, quelli a lui dedicati da Bernardino Telesio (Luca I. Fragale, Filosofi calabresi nella Bologna rinascimentale: due inediti epigrammi di Bernardino Telesio in un codice bolognese, «Il Carrobbio. Rivista di studi bolognesi», 37, 2011, pp. 69-78; e Id., Bernardino Telesio in due inediti epigrammi giovanili, in Microstoria e Araldica di Calabria Citeriore e di Cosenza. Da fonti documentarie inedite, Milano, The Writer, 2016, pp. 11-32).

Molti trascrissero il famoso enigma attribuendo ad esso significati diversi e diverse identità. Fu così che Aelia divenne allo stesso tempo una donna, un uomo, un simbolo, un enigma portatore di una, o meglio molte, verità.

Per merito di Achille Volta la lapide fu affissa presso Casaralta. Oggi, a causa del bombardamento che distrusse parte della villa nel 1943, l’epigrafe è esposta presso il lapidario del Castellaccio del Museo Civico Medievale di Bologna.

L’enigma riflesso di chi legge

L’Aelia Laelia Crispis è una lapide su cui è incisa una iscrizione latina che ebbe molta fortuna sia in Italia che nel resto d’Europa a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Si tramanda che sia stata ritrovata intorno al 1550 nel plesso urbanistico sopra citato, nella villa di proprietà del Volta, posta a circa un quarto di miglio fuori dalla Porta della Mascarella in Bologna. Il senatore Achille Volta era pronipote omonimo di un legato di Clemente VII, ordinato durante il pontificato di quest’ultimo Gran Maestro dell’ordine religioso dei cavalieri Gaudenti.

Molti provarono a risolvere l’enigma cercando la verità che nascondeva e, a tal fine, furono utilizzate diverse chiavi di lettura (in materia di cosmologia, filosofia e alchimia), arrivando finanche a proporre che l’Aelia Laelia Cripis alludesse al lapis philosophorum e che, quindi, «sarebbe stata la più antica testimonianza della pratica alchemica presso gli antichi» (F. Bacchelli, Un enigma bolognese. Le molte vite di Aelia Laelia Crispis, Bologna, Costa Editore, 2000, p. 9). Tuttavia lo stessoBacchelli specifica che l’epitaffio non sarebbe altro che una trovata scherzosa inventata nel XVI secolo.

Carl Gustav Jung, nel suo Mysterium conuictionis (C.G. Jung, The Collected Works of C.G. Jung, vol. 14: Mysterium Coniuctionis, a cura di Gerard Adler, Princeton, Princeton University Press, 1970), afferma che l’epigrafe non è altro che la rappresentazione dell’illogico e dell’irrazionale presente in ogni enigma, e dunque lo strumento ideale per la proiezione, come in uno specchio, di contenuti inconsci e seminconsci, in cui ogni soggetto può ritrovarvi le proprie credenze religiose, scientifiche e culturali.

Sempre secondo Bacchelli, l’iscrizione avrebbe avuto la sua origine reale in uno dei circoli – come l’Accademia Romana o l’Accademia dei Vignaiuoli – in cui restava vivo l’interesse per l’epigrafia latina e la scienza antiquaria. Grazie a questi interessi, nel ’500 si diffuse la moda dei falsi epigrafici, ossia di false iscrizioni latine ideate dagli umanisti, i quali le facevano opportunamente ritrovare nei pressi delle loro residenze allo scopo di dare lustro alla loro casa. In questo caso, il vero autore dell’epigrafe non sarebbe da ricercarsi nell’antica Roma, ma nel signore di Casaralta, ossia Achille Volta.

Il Volta nacque a Bologna verso la fine del 1400 da Alessandro, nominato membro del Senato dei Quaranta da Giulio II. Bacchelli afferma che fin da giovane Achille Volta si trovò a Roma al seguito di Gian Matteo Giberti, datario di Clemente VII e futuro vescovo di Verona. Proprio in questo periodo, Volta conobbe molti dei più noti personaggi dell’ambiente umanistico, come Bembo o Giovio. Nel 1524 fu nominato Sacri Palatii Comes, notarius et familiaris. Egli non godeva di ottima fama a causa del suo carattere impulsivo e violento, come dimostrano le due pugnalate, non mortali, che sferrò a Pietro Aretino nel 1525. Nel 1527 Clemente VII lo nominò Gran Maestro dell’ormai decaduto Ordine dei Cavalieri Gaudenti e gli concesse in commenda i beni dell’Ordine e il priorato di Casaralta. Il suo carattere litigioso fece sì che fosse accusato, insieme al fratello, dell’omicidio di Aldraghetto Lambertini, delitto per cui finì in carcere. Il Volta morì prematuramente nel 1556, in una delle liti in cui fu coinvolto per mano di una pugnalata di Orazio Bargellini.

Bacchelli ci informa che nella Biblioteca Universitaria di Bologna sono contenute due miscellanee, scritte una in latino e l’altra in volgare, in cui il Volta raccolse documenti di argomenti diversi scritti di sua mano e non. Lo zibaldone latino contiene, per la maggior parte, testi poetici di autori vissuti nella prima metà del XVI secolo; redazioni di componimenti importanti, come di alcune parti del De Partu Virgini di Sannazzaro o di una poesia latina dell’Ariosto; e due carmi inediti del giovanissimo Bernardino Telesio dedicati al Volta, Bernardius Thylesius ornatissimo iuveni Achilli Bononiensi. In una delle carte bianche del codice – precisamente nel f. 78r – il Volta ha trascritto una redazione dell’Aelia Laelia Crispis uguale a quella che fece incidere nel 1550 a Casaralta, senza cioè i tre versi finali che non sono altro che la traduzione latina di un epigramma dell’Anthologia Palatina i quali compaiono nella versione dell’epigrafe redatta dagli Academici Mediolanenses, successivamente trasmessa allo Studium patavino. Essa verrà stampata a Venezia nell’opuscolo di Marius Michelangelus nel 1548.

Tralasciando le piccole differenze che possono riscontrarsi nel modo in cui l’epigrafe viene riportata su un testo, esistono due versioni di riferimento: una bolognese ed una milanese. Entrambe sono state tenute in grande considerazione dagli studiosi. Esse differiscono principalmente per due caratteristiche: la dedica iniziale – che nella versione bolognese porta la sigla D.M. Diis Manibus, un’invocazione agli spiriti dei defunti; mentre nella versione milanese è A.M.PP.D. Academici Mediolanienses Philosophi Patavinis Donant – cui si aggiungono, come si è detto, i tre versi finali, che altro non sono che una traduzione latina di un epigramma dell’Anthologia Palatina riferito a Niobe (F. Bacchelli, Un enigma bolognese, cit., p. 23).

Riportiamo qui entrambe le versioni:
1. quella bolognese, ovvero la versione che appare sul marmo ora presente nel Museo Civico di Bologna e nel frammento 78r della miscellanea di Achille Volta:

D.M.
AELIA LAELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MVLIER NEC ANDROGYNA
NEC PVELLA NEC IVVENIS NEC ANVS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PVDICA
SED OMNIA
SVBLATA
NEQVE FAME NEQVE FERRO NEQVE VENENO
SED OMNIBVS
NEC COELO NEC AQVIS NEC TERRIS
SED VBIQVE IACET
LVCIVS AGATHO PRISCIVS
NEC MARITVS NEC AMATOR NEC NECESSARIVS
NEQVE MOERENS NEQVE GAVDENS NEQVE FLENS
HANC
NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPVLCHRVM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT CVI POSVERIT.

2. Per ciò che concerne la versione milanese, si riportano qui di seguito due esempi, i quali presentano entrambi le caratteristiche peculiari che li rendono diversi da quella bolognese e che, pertanto le accomunano sotto il medesimo filone di riferimento. Le due varianti hanno una struttura diversa, a partire dalla presenza/assenza del nome di Lucius Agatho Priscius.

a) Variante inviata dagli Academici Mediolanenses a Padova e apparsa nel testo pubblicato da Marius Michaelangelus a Venezia nel 1548 (M. Mari, Expositio Marii L. Michaelis Angeli super illud antiquissimum aenigma Elia Laelia Crispis quod missum ab illis ingenuis academicis mediolaniensibus fuit ad celeberrimum Gimnesium patavinum pro verae intelligentiae lumine iamdudum expectato, Venetiis, 1548):

AM.PP.D.
ELIA LELIA CRISPIS NEQVE VIR NEQVE FOEMINA NEQVE ANDROGENA NEQVE
IVVENIS NEQVE ANUS NEQVE CASTA NEQVE MERETRIX
SED OMNIA.
NEQVE COELO NEQVE TERRIS NEQVE AQUIS
SED UBIQVE
IACET
SVBLATA NEQVE FERRO NEQVE FAME NEQVE VENENO
SED OMNIBVS
LELIA CRISPIS ALIAS IN CAVO ACVTO NEQVE VIR NEQVE
AMATOR
NEQVE FLENS NEQVE RIDENS SCIT NESCIT QVI
POSVERIT
HOC EST SEPVLCRVM INTUS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPVLCRVM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST ET SEPVLCRVM SIBI

b) Versione indicata come “milanese” da Vincenzo Totano Della Rocca nel suo testo Sulla famosa epigrafe Eliana Bolognese a Napoli nel 1856 (V. Totano Della Rocca, Sulla famosa epigrafe Eliana bolognese, Napoli, Tipografia di Ferdinando Raimondi, 1856):

A.M.PP.D.
ELIA LELIA CRISPIS
NEC VIR NEC MVLIER NEC ANDROGYNA
NEC PVELLA NEC IVVENIS NEC ANVS
NEC CASTA NEC MERETRIX NEC PVDICA
SED OMNIA
SVBLATA NEC FAME NEC VENENO
SED OMNIBVS
NEC COELO NEC AQVIS NEC TERRIS
SED VBIQVE IACET
LELIA CRISPIS ALIAS IN CAVO ACVTO
LVCIVS AGATHO PRISCIVS
NEC MARITVS NEC AMATOR NEC NECESSARIVS
NEQVE MOERENS NEQVE GAVDENS NEQVE FLENS
HANC NEC MOLEM NEC PYRAMIDEM NEC SEPULCRUM
SED OMNIA
SCIT ET NESCIT QUID CVI POSVERIT
HOC EST SEPVLCRVM INTVS CADAVER NON HABENS
HOC EST CADAVER SEPVLCRVM EXTRA NON HABENS
SED CADAVER IDEM EST ET SEPVLCRVM SIBI

Alcune interpretazioni

Sulla scorta di quanto accennato in precedenza, si può comprendere facilmente quanti studiosi, nel corso dei secoli, abbiano cercato di dare una soluzione all’enigma. La fama dell’epigrafe non ha evitato che essa comparisse in un’operetta in prosa volgare di cui veniamo a conoscenza proprio grazie ad Achille Volta, il quale la include nella sua miscellanea in volgare (codice 1250). L’operetta è incompleta, è anonima, infatti l’autore si firma come “Arcisciocco poca faccenda”, e si presenta come un dialogo tra due protagonisti di nome Antonio e Dioneo, i quali sono due cortigiani romani che discutono di iscrizioni strane e ridicole che hanno visto in varie città d’Italia. Bacchelli asserisce che questo dialogo sia il rimaneggiamento, una riscrittura composta dopo il 1550 del Dialogo delle goffe iscrizioni (F. Bacchelli, Un enigma bolognese. Le molte vite di Aelia Laeli Crispis, cit., p. 14) conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze e risalente al 1538 ca. Nel Dialogo, inoltre, è presente la redazione di una lapide milanese molto simile a quella di Casaralta, la quale mostra palesemente come epigrafi di questo tipo nascessero al fine di allietare i membri delle accademie attraverso giochi di ingegno. La lapide milanese si presenta così (ivi, p. 18):

CATARINA GHIREINGHELLA NEC MVLIER NEC
VIR NEC ANDROGENA NEC PVELLA NEC ANVS NEC
MERETRIX NEC CASTA NEC PVDICA, SED OMNIA
SVBLATA NEC PESTE NEC VENENO VEC FERRO.
SED OMNIBVS. NEC AQVIS NEC TERRIS NEC
COELO IACET, SED VBIQVE.
FRANCISCUS GHIRINGHELLUS NEC MARITVS NEC
AMATOR NEC NECESSARIVS NEC MERENS NEC
FLENS NEC GAVDENS SCIT ET NESCIT CVI
POSVERIT

Le differenze che intercorrono tra le due scritture sepolcrali, in effetti, sono sia di tipo formale, in quanto quella milanese dà l’impressione di essere antecedente a quella bolognese; sia relative allo scopo stesso dell’epigrafe, poiché la prima nasce con fine satirico di colpire alcuni esponenti della famiglia Ghiringhelli (la versione milanese è, infatti, dedicata ad una donna di nome Caterina Ghiringhelli, proveniente da una famiglia di ricchi mercanti milanesi), mentre la seconda è scritta sottoforma di indovinello dalle molte soluzioni.

Ad avvalorare la tesi che l’epigrafe sia nata con un fine ludico, Bacchelli riporta un altro epitaffio molto simile ad Aelia Laelia Crispis e coevo alla stesura del Dialogo delle goffe iscrizioni. Si tratta della stesura di una iscrizione tombale presente nel cod. Vaticano Latino 6037 in cui è inclusa una copia tarda della raccolta epigrafica di fra’ Giocondo che recita:

«Aelia Letia Circinella nec vir nec mulier nec an<d>rogena nec iuvenis nec vetus nec decrepita nec diva nec turpis nec deformis nec pulchra nec nupta nec virgo nec vidua nec casta nec pudica nec meretrix, sed omnia haec. <Nec> terris nec igne nec aere nec aquis, sed ubique iacet nec ferro nec veneno nec cruenta nec dulci morte pere<m>pta. Sergius Cordulus Severus nec vir nec amator nec necessarius neque fiens ne~ue ridens neque lugens nec gaudens neque merens fecit. Nescit cui posuerit» (ivi, p. 18).

Come sottolinea Deroma, in «questa redazione l’accumulazione delle qualità attribuite ed apposte ad Aelia, lungi dall’essere efficace figura retorica, banalizza il testo, rinunciando anzitutto alla disposizione temaria degli elementi che accomuna le altre attestazioni del falso epigrafico» (A. Deroma, Anton Parragues de Castillejo e la circolazione di un enigma umanistico nella Sardegna del ’500, «Sandalion», 23-25, 2000-2002, pp. 123-145, qui p. 132 nota 32). Nel corso dei secoli la lapide divenne nota in tutta Europa e le furono attribuiti significati diversi, molto spesso accompagnati da spiegazioni complesse e articolate. Molti hanno creduto che quest’ultima celasse significati nascosti, altri, invece, pensarono che fosse l’epitaffio di una persona vissuta realmente. Anche la datazione fu tema di dibattito (ivi, p. 125). In ogni caso, che l’Aelia Laelia Crispis compaia nelle opere più diverse, lo dimostrano testi come, ad esempio, le Chronicles from Cartaphilus: the wandering Jew (s.l., Nabu Press, 2010, pp. 406-407) di D. Hoffman o il quarto volume di Voyage d’Italie di M. Misson (Amsterdam, chez Clousier David, 1743).

Bacchelli riporta come prima testimonianza certa della versione bolognese dell’enigma la lettera datata 15 gennaio 1567 che il fiammingo Johannes Turrius inviò a Richard White di Basingstoke affinché ne trovasse la soluzione. Questa lettera venne pubblicata l’anno seguente nel testo Aelia Laelia Crispis. Epitaphium antiquum quod in agro Bononiensi adhuc videtur a diversis hactenus interpretatum varie novissime autem a Ricardo Vito Basinstochio amicorum precibus explicatum che White scrisse in risposta alla richiesta di Turrius. Deroma sostiene che la prima testimonianza dell’epigrafe sarebbe in realtà precedente a quella di White, da ricercare tra le diverse redazioni dell’enigma citate sotto il nome di codice Waelscapple. «Il testo non è riportato per esteso ma, giacché si allontana minimamente da quello bolognese, ne vengono soltanto elencate le differenze: manca la adprecatio D.M., ha le grafie androgena per androgyna, Agato Priscus in luogo di Lucius Agatho Priscius, merens e non moerens. Soprattutto, il codice indicherebbe la collocazione dell’epigrafe extra portam vulgo Mascarellam e più precisamente in hortibus vel aedibus Volta: non c’è dubbio quindi che si riferisca alla prima pietra bolognese» (A. Deroma, Anton Parragues de Castillejo e la circolazione di un enigma umanistico nella Sardegna del ’500, cit., p. 129). Nel nono volume del Corpus Inscriptionum Latinarum, alla voce Maximilianus Waelscapple sive Waelscapplen il codice è indicato come silloge «antiquarum inscriptionum urbis collectanea MDLIIII» (ivi, pp. 129-130). Il manoscritto non contiene soltanto iscrizioni della città di Utrecht di cui Maximilian Waelscapple era canonicus, ma anche «titulos […] undecumque sumptos ex Italia, Gallia, Hispania quoque nullo ordine diversisque temporibus conscriptos» (ivi, p. 130). L’epigrafe bolognese si trova al foglio 135 ed è scritta da una prima mano attingendo da fonti edite e pertanto si ha la sua prima attestazione certa scritta nel 1554. Bisogna precisare, però, che, sebbene Bacchelli e Deroma abbiamo pareri discordanti su quale sia l’effettiva prima pubblicazione riguardante la Pietra incisa a Bologna, entrambi affermano che l’enigma circolava senz’altro prima del 1550 e che solo in seguito diventò un unicum con la pietra stessa e quindi con la lapide di Casaralta.

Il primo testo stampato che si riferisce alla famosa epigrafe risale al 1548, periodo in cui la lastra non sarebbe ancora stata forgiata, e fu pubblicato a Venezia da Michelangelo Mari. Il testo in questione è un breve opuscolo dal titolo Expositio Marii L. Michaelis Angeli super illud antiquissimum aenigma Elia Laelia Crispis quod missum ab illis ingenuis academicis mediolaniensibus fuit ad celeberrimum Gimnesium patavinum pro verae intelligentiae lumine iamdudum expectato che il Mari scrive per rispondere alla richiesta di alcuni professori delle Scuole Palatine desiderosi di trovare una soluzione all’enigma e che egli dedica al Cardinal Madruzzo, governatore dello Stato di Milano. La versione dell’enigma che Mari ci propone è, come già messo in evidenza, quella milanese e quindi reca alla fine i tre versi aggiuntivi che non compaiono nella versione bolognese. La soluzione che Mari dà dell’enigma è l’acqua piovana, posta sia come elemento naturale, sia come parte di un mistero più grande, ossia della grazia divina, tema centrale nel periodo in cui l’opuscolo è stato scritto (A. Deroma, Anton Parragues de Castillejo e la circolazione di un enigma umanistico nella Sardegna del ’500, cit., p. 123-124).

Dopo Michelangelo Mari è Richard White di Basingstoke a scrivere un testo interamente dedicato ad Aelia Laelia Crispis. Come per il Mari, anche nel caso di White la spinta a scrivere il testo è data da una terza personalità avente come fine ultimo quello di risolvere l’enigma. Come già accennato in precedenza fu Johannes Turrius a inviare una lettera all’amico White nel 1567, nella quale egli formulava come soluzione all’enigma la materia prima, e tuttavia chiedeva all’amico di risolvere anch’egli l’enigma. In cambio, nel 1568, Turrius ricevette in risposta un testo dove comparivano ben tre spiegazioni tratte sia dalla versione bolognese che da quella milanese. Bisogna precisare che White si trovava in quel periodo a Padova per sfuggire alle persecuzioni religiose dovute all’ascesa al trono di Elisabetta I e poté, quindi, partecipare alla vita culturale della città. Dopo aver esposto il punto di vista di Michelangelo Mari e aver riportato la lettera di Johannes Turrius, White fornisce tre spiegazioni dell’epigrafe: Niobe, l’anima razionale e l’idea platonica. Le prime due sono tratte dalla versione milanese dell’iscrizione mentre la terza segue quella bolognese (R. White, Aelia Laelia Crispis. Epitaphium antiquum quod in agro Bononiensi adhuc videtur; a diversis hactenus interpretatum varie: novissime autem a Ricardo Vito Basinstochio, amicorum precibus explicatum, Patavii, apud Laurentium Pasquatum, 1568).

Inoltre, l’epigrafe appare nella versione bolognese in una lettera datata 3 dicembre 1559 e scritta dall’arcivescovo cagliaritano Anton Parragues de Castillejo, appena giunto in Sardegna, dedicata a Juan Paez de Castro, storiografo ufficiale della corte di Carlo V e Filippo II. La versione che troviamo scritta nell’epistolario di Parragues si distingue da quella bolognese per la presenza di un tetrastico introduttivo che recita così: «Quum superes Phoebum et noscas responsa Sybillae Natura et teneat omnia aperta tibi Quae tibi prae manibus praebentur aenigmata solvas Ut mentem possim sic quietare meam» (A. Deroma, Anton Parragues de Castillejo e la circolazione di un enigma umanistico nella Sardegna del ’500, cit., p. 125).

Gli studi compiuti da Deroma portano all’esclusione del vescovo circa la paternità dei versi, ma confermano la dipendenza dell’enigma da quello bolognese in quanto è lo stesso arcivescovo ad affermare di aver ricevuto trascrizione dell’epigrafe. Quest’ultimo ritiene che il tetrastico sia stato vergato da Gavino Sambigucci (ivi, p. 141), protomedico della Sardegna proprio nel periodo in cui vi soggiornò Parragues; e tenne la lezione inaugurale per la riapertura dell’Accademia Bocchiana di Bologna nel 1556. Altre differenze sono di tipo formale, in effetti l’iscrizione viene riportata nel seguente modo: «Aelia Lelia Crispis nec vir nec mulier nec androgena non puella non iuvenis non anus non casta non meretrix non pudica sed omnia sublata neque fame neque ferro neque vene no sed omnibus neque in caelo neque in aere neque in terra sed ubique Iacet. Lucius Acato Crispus nec amator nec amicus nec necessarius scit nescit cui posuerit» (ivi, p. 124).

Tra le differenze è subito evidente la mancanza dell’invocazione agli Dei Mani e il modo in cui alcune parole sono scritte, ad esempio Lelia al posto di Laelia, o androgena al posto di androgyna; anche le negazioni sono poste in maniera differente in quanto «seguono lo schema (indichiamo un solo elemento per volta delle serie ternarie) nec / non / non / neque / neque / nec con evidente ricerca di simmetria compositiva non presente invece nelle redazioni bolognesi: nec / nec / nec / neque / nec / nec / neque / nec» (ivi, pp. 138-139). L’epitaffio bolognese, inoltre, presenta la determinazione dei tre elementi naturali, ossia coelo, aquis, terris; nella versione di Parragues abbiamo la sostituzione di aquis con aere, che muta il senso della frase. Un’altra differenza è aver scritto Luscio Agatho Crispus invece di Lucio Agatho Priscius e di averne definito le caratteristiche come amator, amicus, necessarius al posto di maritus, amator, necessarius. «La differenza più rilevante consiste comunque nell’assenza del segmento neque moerens neque gaudens neque flens hanc nec molem nec piramide nec sepulchrum sed omnia» (ivi, p. 139).

Le interpretazioni date all’enigma sono dunque molte. Alcune si caratterizzano per la loro particolarità e altre per la rilevanza che ebbero in ambito accademico. A tal proposito bisogna citare N. Barnaud, autore di una importante spiegazione alchemica dell’epitaffio scritta nel 1597 (Barnaudi Nicolai commentariolum in aenigmaticum quoddam epitaphium Bononie studiorum ante multa secula marmoreo lapidi insculptum, Lugduni Bataborum ex Officina Plantiniana, 1597, pp. 66-83). Egli afferma che Aelia Laelia Cripsis alluda in realtà all’opera di trasformazione alchemica. Il filone alchemico è stato seguito anche da un altro studio di Michael Maier, medico dell’imperatore Rodolfo II e autore di un’opera dal titolo Symbola aureae mensae duodecim nationum. Maier utilizza la versione milanese e, dopo aver esposto le spiegazioni di White, Barnaud e Turrius, spiega che Aleia e Laelia sono due persone unite in un singolo soggetto chiamato Crispis (M. Maier, Symbola aureae mensae duodecim nationum, Francfurt, typis Antonii Hummii, 1617).

Fortunio Liceti spiegò la lapide in chiave aristotelica presentandola come fonte per chiarire i principali concetti del meccanismo della generazione e corruzione del mondo sublunare. Il testo si intitola Allegoria peripatetica de Generatione amicitia, et privazione in aristotelicum aenigma Elia Lelia Crispis (Patavii, apud G. Crivellarium, 1630). Nella prima parte egli descrive la lapide e passa in rassegna le opinioni di Barnaud, Turrius, White, Zaccaria Pontini; mentre nel secondo spiega l’epigrafe riportandone la versione milanese.

Un’analisi differente presenta l’opera di Emanuele Tesauro dal titolo Il cannocchiale aristotelico, ossia delle argutezze heroiche […] e di tutta l’arte simbolica e lapidaria (Torino, Sinibaldo, 1655). Nel testo viene studiata la lapide in modo accurato, ma Tesauro non propone alcuna soluzione dell’enigma, anzi asserisce che «propositioni mirabili si traggono da un soggetto di niun valore» (ivi, p. 305).

Una invocazione agli dei Mani è invece la spiegazione datane da Alessandro Negri in Maniliani Bononiensis monumenti historica-mystica lectio (Bononiae, typis haeredum de Duciis, 1661, p. 19), dove lo studioso confronta la lapide con altre come, ad esempio, quella di Quinto Manilio.

Tra gli studiosi che hanno creduto che la lapide si riferisse ad una persona realmente esistita v’è Carlo Cesare Malvasia, studioso conoscitore di scienza antiquaria e di diritto romano. Nella sua opera, Aelia Laelia Crispis non nata resurgens, edita a Bologna nel 1683, Malvasia conduce un’accurata analisi dell’iscrizione tombale per poi spiegare che essa è dedicata ad una giovane donna di nome Aelia Laelia Crispis morta per aborto. Un ulteriore sforzo analitico è dato dalla volontà di ricercare le origini sia di Aelia Laelia che di Agatho Lucio Priscius (C. Malvasia, Aelia Laelia Crispis non nata resurgens, Bononiae, typis Dominici Barberii, 1683, pp. 58-62).

Degno di nota per la particolarità della spiegazione è il libro Monumenti Aelia Laelia Crispis historica explicatio fragmentum anticuum repertum di Francesco Mastri stampato a Venezia nel 1702. Aelia Laelia è qui descritta come «hermaphrodita, plus tamen feminem, quam masculinum proferens sexum» (F. Mastri, Monumenti Aelia Laelia Crispis historica explicatio fragmentum anticuum repertum, Venetiis, typis Hieronymi Albriccii, 1702, p. 1) innamorato di Lucio Agato Priscus e morto dopo aver sofferto per una storia d’amore tormentata da molti tradimenti.

Se per Malvasia la lapide parla di una donna e per Mastri ha come soggetto un ermafrodito, nel 1813 è Bartolomeo Felici, nel Nuovo pensiere sopra la tanto rinomata Aelia Laelia Crispis, a trarre dopo una lunga analisi dell’iscrizione che l’enigma sia stato scritta con lo scopo di testimoniare che «hic iacet agatho lucius priscius » (B. Felici, Nuovo pensiere sopra la tanto rinomata Aelia Laelia Crispis, Dedicato all’illustrissimo e reverendissimo monsignore D. Benedetto Conventi, vicario generale, canonico preposito primicero di S. Petronio, e membro del collegio elettor de Dotti, Bologna, Tipografia Ramponi, 1813, p. 13) e che, quindi, tutte le contraddizioni presenti nel testo servano unicamente a nascondere la semplice verità.

Tra chi ritenne falsa l’iscrizione v’è Crisostomo Trombelli che nell’Arte di conoscere l’età de’ codici latini e italiani, pubblicata a Roma nel 1838, adduce che «sembra impossibile che una lapide antica di marmo, ch’era talmente conservata che tutta se n’è potuta copiare l’iscrizione lunghissima, fosse in tal guisa consunta e logora, che per tal cagione sia stata gettata via come inutile» (C. Trombelli, Arte di conoscere l’età de’ codici latini e italiani, Roma, presso Giovanni Ferretti, 1838, p. 54). Per questa ragione egli ritiene che la l’iscrizione sia in realtà un falso scritto da uno o più uomini d’ingegno tra il XV e il XVI secolo.

Una scia interpretativa totalmente diversa è quella che caratterizza l’opera di Pietro Luigi Cocchi dal titolo Sullo enimma di Aelia Laelia Crispis che leggesi in marmo a Casaralta suburbio di Bologna all’amico sign. Dott. Luigi Coli, scritta nel 1838. Nell’opera viene tracciata la storia dei Frati Gaudenti e dei loro possedimenti. Cocchi giunse all’ipotesi che l’epigrafe, sebbene di non antica fattura, celi un messaggio: «le parole di Aelia Laelia Crispis sono da me ritenute iniziali, ed abbreviature di altre parole, che racchiudono in sé tutto di che si componeva la più volte delta Società dei Godenti» (P.L. Cocchi, Sullo enimma di Aelia Laelia Crispis che leggesi in marmo a Casaralta suburbio di Bologna all’amico Sign. Dott. Giuseppe Coli, Bologna, Tipi della Volpe al Sassi, 1838, p. 34). Lo studioso analizza le iniziali che compongono l’epigrafe, siano esse D.M. oppure A.M.PP.D, ed ottiene

«_ D. _ _    _ _ M. _ _   _ _   _ _
AELIA     LAELIA      CRISPIS
aedes loci altaria laeta militia Christi pacis
ovvero
        _ _ A.     _ _ M. _ _   PP. _ _ D. _ _
AELIA     LAELIA        CRISPIS
aedes loci altaria laeta militia patrum Christi Domini pacis».

Lo studioso precisa inoltre «solo che il verbo est si aggiunga dopo pacis si avrà così un tutto di che si compone la Società dei Godenti» (ivi, p. 35). Cocchi continua l’analisi dell’epigramma spiegando che «si possono meglio spiegare le suddette tre parole anagrammatiche parola per parola, dicendo Lucius Agatho Priscus I, le quali tre parole appunto corrispondono a Loderingo, inteso anticamente sotto la suddetta parola Luicus come sincope od abbreviatura di Ludovicus o Luderigus, e cosi Agthao, che suona Agdalò, ovvero Andalò privo dell’accento, che non si pone nelle lapidi, e Priscius, come Priscus I. cioè Primo Istitutore de’ Godenti in Bologna» (ivi, p. 39). Dunque l’iscrizione sarebbe riferita alla storia dell’Ordine dei Cavalieri Gaudenti, e in particolare alla caduta in miseria dell’Ordine stesso, in quanto, specifica Cocchi, l’iscrizione include in sé l’anagramma del nome del cardinale Giovanni Borgia (ivi, pp. 35-36), il quale si impadronì ingiustamente dei possedimenti dei Cavalieri. Cocchi mantiene costante il suo parere anche nella pubblicazione Nuove osservazioni e note del dottor Pietro Luigi Cocchi di Bologna sulle dipinture e sculture e sullo enimma Aelia Laelia Crispis di Casaralta compilate il 20 luglio 1838 (Bologna, Tipi della Volpe al Sassi, 1838, p. 29), dove compone addirittura l’enigma sulla scorta delle sue osservazioni:

«AELIA LAELIA CRISPIS.
LA SOCIETÀ MILITARE GODENTE
Composta
d’uomini donne ermafroditi
fanciulle giovani vecchie
caste meretrici pudiche,
venne meno
per avidità tradimento ed invidia di un solo,
ma non temé questa perdita
perché sa la religione sua nel cielo trovare
il suo principio e riposo
ed estendersi per mare e per terra
LODERENGO ANDALÒ  PRIMO INSTITUTORE
coi dogmi che dettava
non marito non amante non congiunto,
e perciò senza dolore senza gaudio e senza pianto,
questa società che instituiva
come mole o piramide o sepolcro seppe a cui poneva,
ignaro del danno
che la società suddetta avrebbe poi sofferto».

Altro interessante lavoro è quello proposto da Vincenzo Totano Della Rocca ne Sulla famosa epigrafe Eliana bolognese edita nel 1856, in cui, dopo aver descritto l’ubicazione della lapide e averne riportato sia la versione bolognese che quella milanese, inizia la sua analisi affermando che solo quella bolognese sia effettivamente antica e dunque da preferire alla copia milanese. In seguito lo studioso passa in rassegna le teorie di quanti lo hanno preceduto, a cominciare da quelle di Michelangelo Mari, di Richard White, di Johannes Turrius e di Nicolas Barnaud che egli ritiene poco credibili (V. Totano Della Rocca, Sulla famosa epigrafe Eliana bolognese, Napoli, Tipografia di Ferdinando Raimondi, 1856, pp. 9-14). Viene reputata una infelice intuizione anche la teoria di Gian Gaspare Gervasio, che identifica il soggetto del’epigrafe in Amore, inteso come divinità, che «non solamente può dirsi uomo o donna […] ma […] tiranneggia ugualmente così gli uomini, come le donne» (ivi, p. 17). L’autore si sofferma, in seguito, sull’interpretazione dell’epitaffio fatta da Zaccaria Pontini, il quale riteneva che l’epigrafe avesse in realtà tre soggetti ossia Aelia (mulier) Laelia (androgyna) e Crispis (vir) (ivi, pp. 19-21). Anche questa interpretazione, così come quelle di Malvasia o del P. Maestro Radenti de Predicatori, sono considerate poco valide, in quanto, asserisce lo studioso, non è credibile che la lapide potesse parlare di aborto o essere la manifesta testimonianza della dedica fatta da Lucio Agatho Priscius contemporaneamente alla sua defunta moglie, al suo amante ermafrodita e al suo confidente (ivi, pp. 21-24). L’autore afferma, infine, che l’epitaffio è reale e che è dedicato ad una donna realmente esistita di nome Aelia Laelia Crispis e che tutte le contraddizioni presenti nella dedica sono dettate dal fatto che il corpo è stato ridotto in cenere dal rito funebre anticamente usato (la pira). Ecco perché, quindi, nulla può più dirsi di lei sia dal punto di vista fisico che caratteriale. Lucio Agatho Priscius era il marito di Aelia e «la morte rompe e distrugge qualunque vincolo di sangue, qualunque più dolce ligame, che ci univa con persone, che più non sono» (ivi, p. 33), sicché egli non può più dirsi né marito, né amante, né parente della defunta.

Quelli che abbiamo elencati sono solo pochi esempi dell’interesse che l’iscrizione ha suscitato. Bacchelli riporta ben 70 testi riguardanti Aelia Laelia Crispis, per la maggior parte volti a dare una soluzione dell’enigma, ma ne esistono in realtà molti di più. La capacità dell’epigrafe di attrarre un così gran numero di studiosi risiede in fondo proprio nella sua struttura, in quanto essa è stata elaborata come un vero rompicapo. Lo stesso Jung, dopo aver tradotto la lapide in inglese (C.G. Jung, The Collected Works of C.G. Jung, vol. 14: Mysterium Coniuctionis, a cura di G. Adler, Princeton, Princeton University Press, 1970, p. 56) e aver citato le interpretazioni di Mari, Barnaud e Maier, afferma che essa è un nonsense che assume un significato quando viene letto perché è sotto forma di paradosso, essa rivela al lettore una verità insita nel lettore stesso, ossia originata dalle abitudini, dalle credenze, dalla vita di chi legge (ivi, pp. 57-58).

Bibliografia

F. Bacchelli, Un enigma bolognese. Le molte vite di Aelia Laeli Crispis, Bologna, Costa Editore, 2000.

N. Barnaud, Barnaudi Nicolai commentariolum in aenigmaticum quoddam epitaphium Bononie studiorum ante multa secula marmoreo lapidi insculptum, Lugduni Batavorum, ex Officina Plantiniana, 1597.

P.L. Cocchi, Nuove osservazioni e note del dottor Pietro Luigi Cocchi di Bologna sulle dipinture e sculture e sullo enimma Aelia Laelia Crispis di Casaralta, Bologna, Tipi della Volpe al Sassi, 1838.

P.L. Cocchi, Sullo enimma di Aelia Laelia Crispis che leggesi in marmo a Casaralta suburbio di Bologna all’amico Sign. Dott. Giuseppe Coli, Bologna, Tipi della Volpe al Sassi, 1838.

A. Deroma, Anton Parragues de Castillejo e la circolazione di un enigma umanistico nella Sardegna del ’500, «Sandalion», 23-25, 2000-2002, pp. 123-145.

Expositio Marii L. Michaelis Angeli super illud antiquissimum aenigma Elia Laelia Crispis quod missum ab illis ingenuis academicis mediolaniensibus fuit ad celeberrimum Gimnesium patavinum pro verae intelligentiae lumine iamdudum expectato, Venetiis, 1548.

B. Felici, Nuovo pensiere sopra la tanto rinomata Aelia Laelia Crispis, Dedicato all’illustrissimo e reverendissimo monsignore D. Benedetto Conventi, vicario generale, canonico preposito primicero di S. Petronio, e membro del collegio elettor de Dotti, Bologna, Tipografia Ramponi, 1813.

Luca I. Fragale, Filosofi calabresi nella Bologna rinascimentale: due inediti epigrammi di Bernardino Telesio in un codice bolognese, «Il Carrobbio. Rivista di studi bolognesi», 37, 2011, pp. 69-78.

Luca I. Fragale, Bernardino Telesio in due inediti programmi giovanili, in Microstoria e Araldica di Calabria Citeriore e di Cosenza. Da fonti documentarie inedite, Milano, The Writer, 2016, pp. 11-32.

D. Hoffman, Chronicles from Cartaphilus: the wandering Jew, s.l. (U.S.), Nabu Press, 2010.

C.G. Jung, The Collected Works of C. G. Jung, vol. 14: Mysterium Coniuctionis, a cura di G. Adler, Princeton, Princeton University Press, 1970.

F. Liceti, Allegoria peripatetica de Generatione amicitia, et privazione in aristotelicum aenigma Elia Lelia Crispis, Patavii, apud G. Crivellarium, 1630.

M. Maier, Symbola aureae mensae duodecim nationum, Francfort, typis Antonii Hummii, 1617.

C. Malvasia, Aelia Laelia Crispis non nata resurgens, Bononiae, typis Dominici Barberii, 1683.

F. Mastri, Monumenti Aelia Laelia Crispis historica explicatio fragmentum anticuum repertum, Venetiis, typis Hieronymi Albriccii, 1702.

M. Misson, Voyage d’Italie, vol. 4, Amsterdam, chez Clousier David, 1743.

A. Negri, Maniliani Bononiensis monumenti historica-mystica lecti, Bononiae, typis haeredum de Duciis, 1661.

E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, ossia delle argutezze heroiche […] e di tutta l’arte simbolica e lapidaria, Torino, Sinibaldo, 1655.

V. Totano Della Rocca, Sulla famosa epigrafe Eliana bolognese, Napoli, Tipografia di Ferdinando Raimondi, 1856.

G.C. Trombelli, Arte di conoscere l’età de’ codici latini e italiani, Roma, Giovanni Ferretti, 1838.

R. White, Aelia Laelia Crispis. Epitaphium antiquum quod in agro Bononiensi adhuc videtur; a diversis hactenus interpretatum varie: novissime autem a Ricardo Vito Basinstochio, amicorum precibus explicatum, Patavii, apud Laurentium Pasquatum, 1568.