di Sandra Plastina

1490

Vittoria nasce a Marino da Fabrizio e Agnese da Montefeltro. Passati dalla parte degli Aragonesi, i Colonna, in quegli anni, si alleano con la potente famiglia degli Avalos, partigiani degli Spagnoli. A soli sette anni Vittoria è fidanzata con Ferdinando (Ferrante) Francesco d’Avalos, marchese di Pescara, e ad Ischia presso gli Avalos, la famiglia Colonna soggiornerà a lungo. Nel 1501 Agnesina di Montefeltro, insieme ai suoi figli, è costretta, infatti, a rifugiarsi nel castello ischitano ospite di Costanza d’Avalos principessa di Altavilla, dopo che i loro beni sono stati confiscati e il castello di Marino saccheggiato e incendiato per volere di papa Alessandro VI Borgia.

Il mecenatismo degli Avalos aveva fatto del castello di Ischia un riferimento culturale per poeti e letterati, legati a vario titolo alle famiglie Avalos-Colonna, che svolsero un ruolo di promozione e di sostegno della letteratura volgare a Napoli nella prima metà del Cinquecento (come è stato ricostruito da C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, «Giornale Storico della letteratura italiana», 140, 1963, pp. 161-211). Importante fu senz’altro l’influenza esercitata sulla giovanissima Vittoria, nei primi anni del suo soggiorno sull’isola, da parte di alcuni autori vicini allo spiritualismo di derivazione platonico-ficiniana e alla teologia platonica. Sono anni segnati dalla presenza di Jacopo Sannazzaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Girolamo Britonio, il Capanio, Antonio Minturno e ancora tra gli altri Giano Anisio, Marcantonio Flaminio, Onorato Fascitelli, i fratelli Folengo, Scipione Capece, Bernardo Tasso (C. Ranieri, Vittoria Colonna e il cenacolo ischitano, in La donna nel Rinascimento meridionale, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2010, pp. 49-65).

1509

 Il 27 dicembre 1509, Vittoria, allora diciannovenne, sposa il marchese di Pescara con grandi, sontuosi festeggiamenti presso la zia di questo, Costanza d’Avalos. Ma ben presto Ferrante seguirà la sua vocazione guerriera e nel 1511 si unisce con Fabrizio Colonna alla lega antifrancese promossa da Giulio II, a cui partecipa anche il re di Napoli. Fabrizio Colonna e Ferrante combattono alla rotta di Ravenna del 1512, cadendo entrambi prigionieri.

1512

Durante il periodo di prigionia del marito, Vittoria compone un’epistola in terzine in cui narra le «dubie voglie e gli aspri martir» per la lontananza di Ferrante: i versi della Pistola de la illustrissima signora marchesa di Pescara ne la rotta di Ravenna, che riecheggiano di funesti presagi («Altri chiedeva guerra, io sempre pace / Dicendo: assai mi fia se il mio marchese / Meco quieto nel suo stato giace / Non nuoce a voi tentar le dubbie imprese; / Ma noi, dogliose, afflitte, che aspettando / Semo da dubbio e da timor offese!» testimoniano la precoce vocazione letteraria della marchesa di Pescara e attestano anche l’esistenza di un pubblico riunito intorno alla poetessa. Se si esclude l’epistola, non ci sono giunti altri componimenti di Vittoria Colonna scritti prima del 1525 anno della morte del marito, ma è molto probabile che ella si dedicasse alla poesia a partire dal 1512, come riferito da Filonico Alicarnasseo, ovvero Costantino Castriota Scanderbeg, seguace del marchese di Pescara, autore di biografie di personaggi illustri e poeta anch’esso, ne la Vita di Vittoria Colonna, in V. Colonna, Carteggio, a cura di E. Ferrero e G. Müller, 2a ed. con Supplemento a cura di D. Tondi, Torino, Loescher, 1892, pp. 486-518).  

1516

In quest’anno inizia una serie di lutti familiari che graveranno la già accesa sensibilità di Vittoria: muore il fratello minore Federico. Farà seguito, nel 1520, la morte del padre e, nel 1522, quella della madre, la cinquantenne Agnese.

1519

Anche dall’Opera volgare intitolata Gelosia del Sole (Napoli, 1519) di Girolamo Britonio di Sicignano, con lettera dedicatoria a Vittoria Colonna, apprendiamo dell’attività letteraria, svolta in quegli anni dalla marchesa di Pescara, a cui fanno esplicito riferimento i versi: «vorrei Vittoria haver tant’altro stile / che col vostro valor giostrasse a paro» (c. 175, vv. 1-2).

1520

Vittoria è a Roma, per rendere omaggio a papa Leone X che aveva designato cardinale suo cugino Pompeo Colonna. A Roma conosce Baldassarre Castiglione, Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto, allora segretari di Leone X. Intanto ad Ischia Colonna provvede all’educazione del giovane Alfonso del Vasto, cugino di Ferrante, che ella aveva deciso di allevare come fosse suo figlio, non potendo realizzare il suo desiderio di diventar madre.

1521

Riprendono le ostilità tra Carlo V e Francesco I. Per il Pescara è il momento dell’apice della sua gloria. Richiesto personalmente da Carlo V, parte per la Lombardia con Alfonso del Vasto per unirsi agli Imperiali e partecipa a vari fatti d’armi fino a guidare l’esercito contro i Francesi nella vittoriosa battaglia di Pavia, nel 1525. Vittoria Colonna è nel frattempo nell’isola di Ischia: il 26 marzo del 1525, da Madrid, le scrive Carlo V per elogiare il comportamento del marito e la fedeltà di entrambi all’imperatore. La Colonna risponde, il 1o maggio da Ischia, affermando di aver riportato una vittoria su se stessa, per non aver cercato di impedire al marito di partire per la guerra.

1524

Di un precoce interessamento di Colonna per il Libro del Cortegiano leggiamo in una lettera scritta il 20 settembre del 1524, in cui insieme alle lodi per l’opera chiede a Castiglione, in partenza da Roma per la Spagna, di poter trattenere ancora presso di sé il manoscritto prestatole: «Et perché son già al mezo della seconda volta ch’io la lego, prego la S.V. me la voglia lassar finire, ch’io le prometto remandarcelo, come intenderò per sua lettera stia per partire da Roma. Né bisognerà mandare altri per esso, ch’io lo inviarò cautamente et sicuro» (V. Colonna, Carteggio, cit., p. 24). Un anno dopo Castiglione si lamenterà di aver appreso della circolazione dell’opera a Napoli per opera di Colonna, che a suo dire, ne avrebbe permesso la trascrizione di parti; anche per questo ne affretterà la pubblicazione.

1525

Ferrante Avalos, che, dopo la liberazione dalla prigionia, aveva ripreso a combattere a fianco delle truppe imperiali di Carlo V, richiamato dallo stesso imperatore, viene ferito nello scontro con l’esercito francese a Pavia. Trasportato a Milano il marchese di Pescara muore nel novembre del 1525. La morte del marito segna profondamente Vittoria che, solo dietro insistenza del fratello Ascanio e per l’intervento di papa Clemente VII, ritorna sulla sua prima decisione di entrare in convento, prostrata per la perdita di Ferrante. Alla Colonna si riconosce il governo di Benevento, lasciatole dal Pescara, cui era stato affidato da Clemente VII, quando questi era partito per la guerra.

1527

Dalla metà degli anni venti in poi, la vita e l’opera di Vittoria Colonna sono caratterizzate da profonde antinomie: la ricerca della solitudine e dell’allontanamento dal mondo, e, parimenti, la frequentazione degli umanisti napoletani, il desiderio di annientamento di sé, fino al desiderio di morte, a cui fa seguito il pentimento. Durante il sacco di Roma, Vittoria si prodiga per recare assistenza alla popolazione in difficoltà, meritandosi il riconoscimento del Papa per l’attività di soccorso svolta nelle difficili circostanze in cui versò la città pontificia per molti mesi. In quel periodo Ischia torna ad essere un rifugio di pace, non solo per Colonna; Paolo Giovio, che raggiunse l’isola nel luglio del ’27 e in cui rimase fino al 1528, fa riferimento al suo soggiorno presso gli Avalos-Colonna nel Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus (P. Giovio, Opera, a cura di E. Travi, M.G. Penco, Roma, Istituto Poligrafico, 1984, pp. 147-321, lib. I, p. 167):
«Allorchè una grave pestilenza, proprio nel momento dell’incredibile e assai luttuosa distruzione quasi dell’intera religione e della città di Roma, oltre alle tante stragi aumentate, aveva invaso a mole di Adriano, alla quale Clemente aveva già rivolto la propria attenzione; il senato era allora custodito da barbari, e poiché molti fulmini s’erano scagliati su di me, dopo aver interrotto ogni consuetudine con il pontefice relativa al mio antico e perpetuo incarico, bandito dalla rocca, giunsi ad Ischia presso Vittoria Colonna, donna tanto illustre per bellezza e pudicizia, quanto assai meritevole della lode di ogni uomo».

Di lodi, Vittoria ne ricevette moltissime; fecero il suo elogio illustri poeti e letterati: Ariosto, Bernardo Tasso, Bembo, Guicciardini e, per certi aspetti, anche l’Aretino. La poetessa Veronica Gambara la celebrò in un suo sonetto: «Odella nostra etade, unica gloria / Donna saggia, leggiadra, anzi divina» (dal sonetto II delle Rime di Veronica Gambara, in Rime di tre gentildonne del sec. XVI, Milano, Sonzogno, 1882).

1530

Nel 1530, lasciata Ischia, Colonna è nuovamente a Napoli dove incontra Juan de Valdés, il pensatore castigliano profondamente influenzato dal pensiero di Erasmo e dal movimento mistico degli Alumbrados che predicavano l’idea di un legame intimo con Dio. Segretario di Carlo V, cameriere segreto di papa Clemente VII, alla morte del pontefice Valdés si trasferì a Napoli dove era stato nominato archivista del Regno di Napoli e la sua casa di via Chiaia divenne un circolo letterario e religioso dove si discuteva della riforma spirituale della Chiesa e della «giustificazione per sola fede». Tra i frequentatori più assidui del circolo ricordiamo Pietro Carnesecchi, Bernardino Ochino, Giulia Gonzaga, Nicola Maria Caracciolo che diventerà vescovo di Catania, Giovanni Morone, Piero Vermigli, Isabella Breseña. Non va trascurato che nel corso degli anni Trenta altri intellettuali calabresi gravitano nella città di Napoli: tra tutti, ricordiamo i fratelli Coriolano e Bernardino Martirano, Antonio e Bernardino Telesio.

Vittoria frequentò sin dai suoi esordi il circolo napoletano di Juan de Valdés, legandosi a tutti i principali membri del gruppo degli ‘spirituali’. Nel 1536 partì per Ferrara: il suo intento forse era quello di raggiungere Venezia e da lì imbarcarsi per la Terrasanta. A Ferrara frequentò Renata di Francia e Bernardino Ochino, già conosciuto a Roma nel 1534, e che quindi seguì nella sua attività di predicazione rimanendone molto affascinata. L’Ochino, che abbandonerà i Minoriti Osservanti Francescani per entrare nel più rigoroso Ordine dei Cappuccini da poco fondato proprio grazie al sostegno di Vittoria Colonna e Caterina Cybo da Camerino, sarebbe diventato per lei un maestro di vita spirituale tanto da ingenerarle il desiderio di seguirlo a Ferrara, Bologna, Pisa, Lucca.

1540

Nei primi anni quaranta Vittoria è a Viterbo, dove frequenta il circolo del cardinal Reginald Pole, al quale fu molto legata e con cui intrattenne una importante corrispondenza (cfr. G. Signorelli, Il soggiorno di Vittoria Colonna in Viterbo, «Bollettino storico – archeologico viterbese», 1/4, 1908. Per altre notizie si veda il volume di Sergio M. Pagano, Concetta Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Città del Vaticano, Collectanea Archivi Vaticani, 1989).

Nel 1541 Vittoria è ospite del monastero di S. Caterina ove la marchesa si trattenne fino al novembre del 1543. Proveniva da Orvieto e aveva lasciato Roma in seguito alle disgrazie occorse alla sua famiglia, in seguito alla pesante imposta sul sale promulgata da papa Paolo III Farnese, che Ascanio, fratello di Vittoria, si era rifiutato di pagare. La guerra del sale segnò la rovina della casa Colonna. Ascanio, caduta la rocca di Paliano, fu costretto ad andare in esilio a Napoli e tutti i beni della famiglia nei possedimenti vaticani furono confiscati.

In una sua lettera ad Alfonso Lagni è la marchesa stessa a spiegare le ragioni della sua venuta a Viterbo; descrivendo la vita che conduce in città (la lettera è del 25 agosto 1542, si veda G. Signorelli, Il soggiorno di Vittoria Colonna in Viterbo, pp. 128-129 e nota 53). Vittoria parla con serenità rassegnata, contenta di aver preso le distanze dalle vicende del mondo e rimettendosi alla volontà di Dio si dedica alla preghiera.

In questi anni la frequentazione del cardinale Pole, in esilio in Italia per non aver ubbidito all’atto di Supremazia di Enrico VIII, le fu di grande conforto: Pole la dissuase da pratiche di penitenza e mortificazione del corpo troppo rigide, restituendole la salute del corpo e dell’anima; Vittoria si legò al circolo che si riuniva attorno al cardinale, animato da profonda spiritualità. A differenza di quello di Valdès a Napoli, legato ad un tipo di devozione più individuale, a Viterbo la vita spirituale, per desiderio di Pole, era regolata da un programma comunitario ben definito, basato su letture e meditazioni di sacre scritture. Venivano anche letti e studiati i libri di Lutero dal momento che l’opera del monaco tedesco era ritenuta utile per ogni buon cristiano che volesse conoscere l’interpretazione di molti passi della Sacra Scrittura. Molte meditazioni furono dedicate al Beneficio di Cristo, l’operetta considerata la carta costituzionale del circolo di Pole.

1542

Nel 1542 fu istituito il Tribunale dell’Inquisizione: ebbero inizio, nel luglio 1542, le prime indagini sul cardinal Pole e il circolo viterbese. Inoltre, ad avvalorare i sospetti, vi fu un episodio che doveva procurare molto dispiacere alla marchesa di Pescara: Bernardino Ochino, predicatore dell’ordine dei Cappuccini, che Vittoria aveva conosciuto a Napoli nel circolo del Valdès e nel quale aveva riposto tante speranze per il rinnovamento della Chiesa, sospettato dal Sant’Uffizio (ancora una volta, la teoria della giustificazione per fede doveva dimostrarsi il punctum dolens della questione!) e chiamato a Roma per giustificarsi, fuggì, informando con una lettera Vittoria, e lei soltanto, circa le ragioni della sua fuga.

Manca a tutt’oggi una documentazione su un vero e proprio procedimento inquisitoriale a carico del Pole e di Vittoria Colonna, anche dopo le ricerche di Giuseppe De Luca presso l’Archivio del S. Uffizio nel 1954. I documenti ritrovati inducono a pensare che gli inquisitori si occupassero della Colonna non tanto per le posizioni ereticali della gentildonna stessa, quanto per le sue amicizie che denotavano complicità nell’eresia. Non si capisce quindi come il De Maio (R. De Maio, Donna e Rinascimento, Napoli, ESI, 1995) possa parlare di un processo a carico di Vittoria Colonna, quando non ne esiste traccia negli archivi del Santo Uffizio. Non si può nemmeno parlare di un vero e proprio processo contro il cardinale Pole, anche se Paolo IV fece numerosi tentativi per istruirne uno contro di lui.

1544

Nel 1544 Vittoria ritornò a Roma, stabilendosi presso il convento delle benedettine di Sant’Anna. L’anno prima il cardinale Pole aveva lasciato Viterbo e aveva accettato con soddisfazione l’incarico di Legato Pontificio al concilio di Trento perché sperava di «difendere la dottrina della giustificazione dall’accusa di eresia» (S. Pagano, C. Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, p. 78 e nota 35).

Negli ultimi anni di vita riprese con più intensità il rapporto con Michelangelo con il quale si intratteneva in lunghe conversazioni, come è testimoniato nei Dialoghi del pittore Francisco de Hollanda, vissuto a Roma dal ’39 al ’48 con l’incarico di far relazione a Carlo V sugli avvenimenti romani.

1547

Vittoria morì il 25 febbraio del 1547, già pesantemente intaccata da sospetti di eresia. La morte tuttavia le risparmiò di rimanere coinvolta nelle successive ondate di persecuzione contro gli “spirituali”.

Michelangelo scrisse a Francesco Fattucci: «vi mando qualcuna delle mie novelle che io iscrivevo alla Marchesa di Pescara, la quale mi voleva grandissimo bene, e io non manco allei. Morte mi tolse un grande amico» (cfr. R. Pancheri, D. Primerano, L’uomo del Concilio, Il cardinale Giovanni Morone tra Roma e Trento nell’età di Michelangelo, Trento, Temi, 2009, p. 201).

La poetessa è sepolta come altri nobili aragonesi a Napoli nella Sala del Tesoro della Sacrestia della Chiesa di San Domenico Maggiore accanto al marito Ferrante d’Avalos.

La prima stampa delle liriche della poetessa, che costituisce anche la prima edizione di rime pubblicata in Italia da una donna, vide la luce a Parma nel 1538, presso Antonio Viotti, e fu dedicata Al Dottissimo Messer Alessandro Vercelli da «quel tristo di Philippo Pirogallo». L’epiteto è di Bembo e si incontra in una lettera che scriverà a Gualteruzzi. Ecco il frontespizio completo della prima stampa: Rime de la divina Vittoria Colonna marchesa di Pescara, Novamente Stampate Con Privilegio; segue la dedica al dottissimo messer Alessandro Vercelli Philippo Pirogallo (per una descrizione più accurata delle Rime, si veda l’ed. a cura di A. Bullock, cit., p. 258).

Di Pirogalli sappiamo poco: fece parte dell’Accademia dei Trasformati di Milano, fu attivo tra il 1533 e il 1555, anno della sua morte, e autore di un ‘furto’. Con queste parole, infatti, si esprime nella lettera di dedica all’edizione delle Rime: «Ho preso ardire di mettergli in istampa, anchora che contradicessi al voler d’una gran Signora; stimando meno errore dispiacere a una sola Donna (benché rara e grande) che a tanti huomini desiderosi di ciò» (cfr. Rime, ed. by A. Bullock, cit., p. 225).

II primo a parlare della stampa parmense è uno dei grandi estimatori e amici epistolari della Colonna, mons. Pietro Bembo, molto attento sia ai contenuti, sia all’aspetto estetico dell’opera a stampa. Egli afferma di non conoscerne, probabilmente in segno di disprezzo, né il curatore, né il committente: cosi infatti scrive al Gualteruzzi l’8 novembre del 1538 (seguendo un costume consolidato: il letterato di fama, amico o meno, sente il dovere di intervenire sul lavoro di un nuovo autore), riferendosi al volumetto delle Rime, appena uscito dai torchi: «Dovete sapere della ingiuria e villania fatta alia S. Marchesa di Pescara da non so cui, che impresse le sue Rime e incorrettissime, e di pessima forma e carta. Di che S.S. dolcemente mi scrisse non solo non dolendosene, ma mostrando d’averlo meritato con curar le vane cose. Alia quale io riscrissi pregandola ad esser contenta di mandarmi una copia delle dette sue Rime corretta, perciò che io le farei stampar qui bene, e in bella maniera. Non ho da S.S. avuto di ciò risposta e temo la lettera non le sia venuta alle mani. Dunque sarete contento voi, Compare carissimo, passando ella a Roma, come intendo che a passare ha, di operare che mi si mandino le dette sue Rime, che io emenderò l’error di quel tristo. Quando non fosse che voleste voi questa lode di farle imprimere costi quam tibi praeripere nollem. Ad ogni modo e peccato grande, se non si mandan fuori di modo che si leggano tali quali uscirono di quello pellegrino ingegno» (P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, vol. IV (1537-1546), Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1993, p. 141).

A parte le considerazioni del futuro Cardinale e quelle della Marchesa, che non acconsentì alla revisione, o non se ne curò, per modestia, l’ipotesi formulabile è che questa prima stampa sia nata in ambito accademico milanese, grazie alla intraprendenza del Pirogalli per venire incontro ai desideri del Vercelli, verosimilmente grande estimatore della poetessa.

Il corpus delle rime della Colonna si può dividere in due raccolte distinte. Le Rime profane che contengono centodiciassette sonetti per la morte del Pescara, un madrigale e una canzone molto lunga, in endecasillabi e sette settenari, più altri diciassette sonetti di vari argomenti. Le Rime sacre e morali contengono centonovantacinque sonetti e un capitolo di argomento ascetico-religioso e ventitré sonetti che trattano vari temi morali.

Possiamo inoltre suddividere l’intera opera della Colonna in tre periodi fondamentali. Il primo è quello dell’Epistola per la sconfitta di Ravenna; il secondo comprende tutte le rime della prima raccolta, scritte tra il 1526 e il 1533, e il terzo le rime sacre scritte tra il 1533 e la metà del 1546.

È noto come la scelta schiva e aristocratica compiuta dalla poetessa di limitarsi, al di là di sparsi ma non irrilevanti scambi epistolari, alla circolazione selettiva di alcune preziose raccolte ad hoc, da inviarsi per quanto ne sappiamo a tre privilegiati interlocutori, non ci consenta un ragionamento compiuto sul disegno strutturale complessivo, se non, in prima battuta, sulla sua apparente assenza. Rime sparse, dunque, e tre libri assai diversi tra loro, tutti solo manoscritti. E netti e ribaditi il fastidio e il rifiuto della circolazione a stampa, che pur continuava.

Il Codice Vat. lat. 11539, donato a Michelangelo nel 1540 o nel 1541 è l’unica raccolta di rime spirituali di Vittoria Colonna compilata sotto il controllo dell’autrice. Poiché l’edizione delle Rime spirituali apparsa a Venezia presso Vincenzo Valgrisi nel 1546 fu promossa da Donato Rullo senza il consenso di Vittoria, il manoscritto Vaticano è testimone di una scelta di componimenti e di un ordinamento rispecchiante il progetto che la poetessa era in grado di formulare all’inizio degli anni quaranta. L’altezza del destinatario e l’affetto che lo legava alla Colonna rendono lecito immaginare la cura particolare che dovette presiedere all’allestimento del manoscritto, più completo, per quanto concerne le rime spirituali, di quello che Vittoria aveva inviato in quegli stessi anni a Margherita di Navarra, il Laurenziano Ashb. 11533. L’analisi del codice Vaticano può dunque permettere di fissare una fase vitale dell’evoluzione della poesia religiosa della Colonna e può mettere a fuoco l’immagine che l’autrice intendeva offrire di se stessa all’interlocutore che più di altro portava attenzione alla svolta che le rime spirituali rappresentava.

Decantato il proprio linguaggio poetico nel lungo silenzio tra il 1516 e il 1526 (appunto tra la prigionia e la morte del Pescara), Vittoria fissa la propria scrittura in una «cristallina razionalità metafisica», preparando l’incontro con la spiritualità valdesiana. Una volta che la Colonna avrà iniziato la stesura delle Rime sacre e morali, troverà il registro più efficace per la sua tensione al sublime in un linguaggio che nasce dalla fusione tra quello petrarchesco e quello biblico, attraverso un’articolazione di tipo dantesco, sia nelle descrizioni delle luminosità dei mondi celesti, sia di quelli di cupi stati di peccato.

Le innumerevoli immagini di indissolubilità del nodo d’amore, per l’altro nella ribadita necessità di un controllo sulle passioni, presenti nelle sue rime, inducono a pensare che alla strada lirica imboccata da Colonna non si confaceva del tutto al sorvegliatissimo codice petrarchesco cui il conflitto era invece consustanziale: fin dall’inizio, ma in maniera crescente con il passar del tempo e il maturare delle spinte religiose, la ricerca di Vittoria è infatti anche ricerca di salvezza, di verità in chiave metafisica. Ed è probabilmente per questi motivi che anche nel sonetto 14 la riflessione sembra muoversi tra linea petrarchesca e fortissime suggestioni dantesche:

Dal breve sogno e dal fragil pensero
soccorso attende la mia debil vita
quando interrotti son riman smarrita
sì, ch’io peno in ridurla al camin vero
vero non già per me, ch’altro sentero
mi suol mostrar la mia luce infinita,
e dirmi: «Meco in Ciel sarai gradita
se raffrena il dolor lo spirto altero.
Martiri, aversità, disdegni e morte
non diviser le voglie insieme accese
ch’Amor, Fede e Ragion legar sì forte».
Rispondo: «L’alte tue parole intese
e serbate da me son fide scorte
per vincer qui del mondo empie contese».

La fine del desiderio, legata alla morte dell’oggetto amato, avvenuta prima e fuori del testo e condizione indispensabile del poetare, costituisce un tema di riflessione che torna più volte, sempre accompagnato dalla presenza dominante del «pensiero» che occupa esplicitamente lo spazio del desiderio.

Come scrive Serena Sapegno (La costruzione di un io lirico nella poesia di Vittoria Colonna, «Versants. Revue suisse des littératures romanes», 46, 2003, p. 22): «per Vittoria tutta la riflessione sul rapporto con il corpo, sul desiderio, si svolge dunque nei limiti relativamente protettivi di questa condizione ex-post, limiti che rendevano pensabile una voce poetica femminile senza condannarla immediatamente alla fatale “disonestà”, sempre che fosse naturalmente corredata delle appropriate condizioni sociali». È su questo sfondo particolare che la marchesa cerca una propria voce originale e, se molti loci appaiono forzatamente neutralizzati, altri conservano una netta connotazione di genere non priva di forza espressiva», come in 22: 13-14 «per lui nacqui, ero sua, per sé mi tolse, / in la sua morte ancor devea morire». Ma non si tratta soltanto di un Io femminile che dichiara un’appartenenza o dipendenza: Vittoria analizza il proprio legame non sottraendosi a questioni ben radicali, come dimostra lo straordinario sonetto 30:

Quando Morte fra noi disciolse il nodo
che primo avinse il Ciel, Natura e Amore,
tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core;
l’alme ristrinse in più congiunto modo.
Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo,
dal qual sol nasce eterna gloria e onore;
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
la qual vive immortal, ed io ne l’onde
del pianto son, perch’ei nel Ciel salito,
vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

Se la morte dunque, sciogliendo il legame carnale, ha prodotto una privazione, ha nello stesso tempo avvinto ancora di più le anime nell’unico legame che valesse davvero, perché portatore di vera gloria. Una volta imboccata la metafora riproduttiva (nasce-frutto fiore-giardino) Vittoria non si accontenta della già forte espressione di quell’ambivalenza piacere/dolore cui aveva precedentemente alluso e che qui conteneva comunque nel «piangere» un esplicito riferimento alla propria poesia come fiore e frutto di quel giardino simbolico. Procede invece senza esitazione addentrandosi in un’area semantica inedita in questi termini per la tradizione, nominando la propria capacità riproduttiva frustrata («sterili i corpi»), pur rovesciandola nella rivalsa topica della fecondità spirituale, che produrrebbe una «prole» superiore perché immortale, come aveva spiegato Diotima nel Simposio platonico. Nell’esercizio intellettuale e nel parto della mente si realizza il ‘virile’ e implicitamente superiore pendant alla funzione riproduttiva ed emotiva della maternità – in una trasposizione dell’atto creativo riservato alla donna su quello tradizionalmente attribuito all’uomo. Questo percorso di smaterializzazione delle passioni è vissuto da Vittoria Colonna in consonanza con gli afflati di un forte rinnovamento spirituale.

Un percorso compiuto, quindi, e allo stesso tempo un cammino poi abbandonato per sempre senza rimpianti, dal momento che tutte le poesie d’amore resteranno fuori dal manoscritto di 103 sonetti spirituali allestito per Michelangelo, ultima e chiara testimonianza di una ben precisa volontà dell’autrice. In quest’ultima silloge, al sonetto proemiale è affidata la fondazione del nuovo percorso, del nuovo Io che si differenzia dal passato (Rime, ed. Bullock, p. 85). Proprio qui, al medesimo tempo, si costituiscono quei nessi che testimoniano una continuità e nel contempo un programmatico e forte desiderio di cambiamento:

Poi che ’l mio casto amor gran tempo tenne
L’alma di fama accesa, ed ella un angue
in sen nudrio, per cui dolente or langue
volta al Signor, onde il rimedio venne,
i santi chiodi ornai sieno mie penne,
e puro inchiostro il prezioso sangue,
vergata carta il sacro corpo exangue,
sì ch’io scriva per me quel ch’ei sostenne.
Chiamar qui non convien Parnaso o Délo,
ch’ad altra acqua s’aspira, ad altro monte
si poggia, u’ piede uman per sé non sale;
quel Sol ch’alluma gli elementi e ’1 Cielo
prego, ch’aprendo il Suo lucido fonte
mi porga umor alla gran sete equale.

La forte sottolineatura in primo verso della natura casta del proprio amore rinvia alla dimensione tutta postuma della propria poesia, (oltre che ad una necessità più profonda di cui abbiamo detto) ma allo stesso tempo denuncia la presenza dell’altra faccia dell’«errore» petrarchesco, quella legata al desiderio di fama di cui molto ha detto e ammesso nella prima fase della sua scrittura, ma di cui si è pentita e vuol purgarsi oramai in questa nuova stagione.

Il sotto testo di tale riflessione è ovviamente ricchissimo: Vittoria era coinvolta in prima persona nelle sfide dell’evangelismo italiano, era stata accanto ai Cappuccini nei momenti di crisi ed era evidentemente molto interessata da un lato ai dibattiti ispirati alle dottrine neoplatoniche (anche attraverso Bembo) e dall’altro alla dottrina dello Spirito e della fede come abbandono di sé. Non è un caso che la Colonna nelle Rime spirituali si richiami alla «pura ardente fede», alla «sopra natural divina fede» alla «viva grazia che dissolve il ghiaccio duro / che sovente si gela n’torno al core» per « presentarlo sol di fede armato al cospetto di Cristo» il quale «non guarda i merto, né l’indegna natura e solo scorge / l’amor che a tanto ardir l’accende e sprona». Le Rime spirituali divennero in questo senso un libro di devozione e di preghiera.

Il suo complesso percorso religioso e filosofico si rispecchia nel ricco epistolario, nelle opere propriamente religiose, e soprattutto nella sua importante iniziativa politica. Interessante è il modo originale in cui Vittoria seppe piegare il codice poetico che le era stato consegnato dalla tradizione al fine di esprimere se stessa e le proprie idee ed emozioni, in particolare ricorrendo alla propria esperienza conoscitiva di donna e alle rappresentazioni concettuali che ne derivava.

Bibliografia

Rime de la divina Vittoria Colonna, In Parma, Antonio Viotti, 1538; e successive edizioni.

Le rime spirituali della illustrissima signora Vittoria Colonna marchesana di Pescara. Non più stampate da pochissime infuori, le quali altroue corrotte, et qui corrette si leggono, In Vinegia, appresso Vincenzo Valgrisi, 1546; e successive edizioni.

Pianto della marchesa di Pescara sopra la passione di Christo. Oratione della medesima, sopra l’Ave Maria. Oratione fatta il Venerdì santo, sopra la passione di Christo, In Venetia, Paolo Manuzio, 1556; e successive edizioni.

Sonetti in morte di Francesco Ferrante d’Avalos marchese di Pescara, edizione del ms XIII.G.43 della Biblioteca Nazionale di Napoli a cura di Tobia R. Toscano, Milano, Mondadori, 1998.

L.C. Agoston, Male/Female, Italy/Flanders, Michelangelo/Vittoria Colonna, «Renaissance Quarterly», 58, 4, 2005, pp. 1175-1219.

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