di Stefania Di Mare

1498

Vincenzo Maggi, filosofo e umanista, nasce presso una famiglia di illustri tradizioni nobiliari in provincia di Brescia, presumibilmente nel territorio di Pompiano, nel quale i familiari possedevano un cospicuo appezzamento terriero e un negozio farmaceutico. Grazie alle informazioni che lo stesso Maggi fornisce nella Praefatio alla Poetica aristotelica (V. Maggi, B. Lombardi, Vincentii Madii, Brixiani et Bartholomaei Lombardi Veronensis In Aristotelis librum de poetica communes explanationes: Madii Vero in eundem librum propriae annotationes. Eiusdem de ridiculus: et in Horatii librum De Arte Poetica interpretatio est Lombardi in Aristotelis Poeticam praefatio, Venetiis: in Officina Erasmiana Vincentij Valgrisij; rist. anast. München, Fink, 1969), sappiamo che fu il padre Francesco, grande uomo di lettere, il suo primo maestro. Quest’ultimo fece propria l’eredità culturale trasmessa dal brillante filologo e lessicografo lombardo Gasparino Barzizza (1360-1421). Sicuramente Francesco Maggi impartì le basi dell’educazione letteraria al figlio Vincenzo, ricordando l’insegnamento appreso dal Barzizza rivolto massimamente allo studio e al recupero della tradizione letteraria classica. Difatti il Barzizza fu promotore di quel generale spirito di rinnovamento che animò l’Umanesimo italiano, a partire dalla presa di coscienza del necessario ritorno all’arte e al pensiero dei classici, fenomeno, questo, che investì le università italiane del XV secolo (si veda al riguardo il contributo di M.C. Zorzoli, Università di Pavia (1535-1796). L’organizzazione dello Studio, in Storia di Pavia, IV. 1, L’età spagnola e austriaca, Milano, Banca del Monte di Lombardia, 1995, pp. 427-481).

In particolar modo, l’università di Pavia, dove il filologo Barzizza insegnò nel 1402 in qualità di professore di grammatica e retorica, era un’istituzione in piena evoluzione, tassello strategico di un articolato sistema educativo che andò costruendosi in Italia come primo frutto della modernità. Le opere letterarie degli antichi si traducono nel desiderio di assimilarne lo spirito, creando un nuovo modello di vita eticamente orientato dall’humanitas (cfr. L. Avellini, Università e umanesimo, in L’università in Europa dall’Umanesimo ai Lumi, a cura di G.P. Brizzi, J. Verger, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2002, pp. 20-35; si veda anche G. D’Adda, Indagini storiche, artistiche e bibliografiche sulla libreria Visconteo-Sforzesca del Castello di Pavia compilate per cura di un bibliofilo, Milano, Tip. G. Brignola, 1875).

La linea seguita nel Quattrocento dallo Studium pavese di Lorenzo Valla (1407-1457), di Gasparino Barzizza e dei suoi discepoli, tra cui si annoverano Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), fondatore dell’Accademia Pontaniana di Napoli (del quale si hanno notizie grazie agli studi condotti da G. Resta, Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 7, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970; R. Sabbadini, Cronologia documentata della vita di Antonio Beccadelli, detto il Panormita, in L. Barozzi, R. Sabbadini, Studi sul Panormita e sul Valla, Firenze, Le Monnier, 1891; G. Resta, L’epistolario del Panormita. Studi per un’edizione critica, Messina, Università degli Studi, 1954; F. Colangelo, Vita di Antonio Beccadelli soprannominato il Panormita, Napoli, Tipografia di Angelo Trani, 1820) e Francesco Filelfo (1398-1481), rispecchia appieno quella volontà di recupero del codice antico ma, anche e soprattutto, la comprensione ed analisi del messaggio in esso contenuto. Il Filelfo, già allievo del Barzizza a Padova, giunse a Pavia intorno al 1439 e con la sua opera segnò le fondamenta della cultura lombarda del XV secolo (per maggiori notizie circa l’operato del Filelfo, si vedano: G. Mainardi, Il Travesio, il Barzizza e l’Umanesimo pavese, «Bollettino della Società pavese di Storia patria», 53, 1953, pp. 13-25; T. Foffano, Tra Padova, Parma e Pavia: appunti su tre allievi di Gasparino Barzizza, «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», 2, 1969, p. 29-41; T. Foffano, C. De Rosmini, Vita di Francesco Filelfo, Milano, Mussi, 1808; M. Lucchesi, Stefano Costa un canonista pavese alle soglie dell’Umanesimo giuridico, «Bollettino della Società pavese di Storia patria», 102, 2002, pp. 51-90; P. Viti, Filelfo, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 47, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997).

1528-1543

La formazione dell’umanista bresciano si completa con i corsi universitari promossi dall’università di Padova negli anni Venti del XVI secolo, come lui stesso conferma nella Praefatio alla Poetica aristotelica. Sono anni intensissimi per il Maggi, il quale ricorda come proprio magister di artes liberales il filosofo veronese Gerolamo Bagolino (secondo la linea interpretativa di C. Vasoli, Bagolino, Gerolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 5, 1963; circa il contributo di quest’ultimo allo sviluppo degli studia humanitatis, G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, II, 1, Brescia, Bossini, 1758, p. 65; E. Garin, La filosofia, vol. II, Milano, Bompiani, 1948, pp. 43-63; B. Nardi, Saggi sullo aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 160-167, 336).

Trattasi, questo, del periodo più proficuo di formazione professionale e personale per il Maggi che frequenta attivamente gli ambienti culturali padovani e riesce ad intrecciare solide amicizie e rapporti intellettuali determinanti per la sua carriera universitaria. Ancora studente stringe un legame di profonda amicizia e stima reciproca con il veronese Bartolomeo Lombardi, del quale non si hanno sufficienti notizie biografiche, ma si può con certezza asserire che insieme avrebbero intrapreso, intorno al 1528, o comunque di lì a poco, il lavoro di commento alla Poetica aristotelica. Girolamo Tiraboschi scrive al riguardo che il Maggi aveva intrapreso il suo commento latino alla Poetica «fin dal tempo in cui trovavasi in Padova; e in questa fatica avea allora avuto a compagno Bartolommeo Lombardi Veronese […]. Sorpreso poi il Lombardi da immatura morte, continuò solo il Maggi, l’incominciato lavoro, e valendosi per lo più della versione del Pazzi vi aggiunse note e commenti scritti sul far di que’ tempi, cioè spiegando Aristotele, co’ passi di antichi Scrittori, e fondando i precetti più sull’autorità, che sulla ragione, e sulla natura. A questi Comenti egli aggiunse un Trattato De ridiculis, e il Comento sulla Poetica di Orazio» (G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Società tipografica, 1787-1794, vol. VII, pp. 275-277).

Nel 1528 Maggi riceve a Padova il titolo di doctor artium et medicinae. Nello stesso periodo si trovava a Padova il giovane Bernardino Telesio, e con molta probabilità al 1528-1529 risale l’occasione di un loro primo incontro. Il giovane filosofo cosentino frequentò l’ambiente dello Studium padovano sino al 1529, quando lo zio Antonio Telesio decise di fare ritorno in Calabria (cfr. E. Sergio, Bernardino Telesio: una biografia, Napoli, Guida, 2013, ad indicem).

Al 1529, o di poco antecedente, viene ricondotto l’incontro tra il filosofo bresciano ed Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536), che definisce il Maggi «vir pius et perhumanus» (P. Guerrini, Due amici bresciani di Erasmo,«Archivio storico Lombardo», 4, 1923, p. 176). Tale notizia desta notevoli perplessità soprattutto in merito al viaggio compiuto dal Maggi in Germania che lo storico Paolo Guerrini pone in relazione alle vicende del volgarizzamento dell’Enchiridion militis cristiani di Erasmo da Rotterdam da parte del bresciano Emilio Emili (ca. 1480-1531). L’opera sortì dalle stampe nel febbraio del 1539. Cfr. E. Emili, Enchiridion di Erasmo Rotherodamo, dalla lingua latina nella volgare tradotto per m. Emilio di Emilij bresciano con una sua canzone di penitenza in fine, Venetia, Giovanni Dalla Chiesa, 1539. Lo stesso Erasmo, in una nota lettera del 17 maggio 1529 indirizzata ad Emili, indica nel Maggi un prezioso tramite nel corrispondente bresciano, il quale ha meritato queste parole «vir pius et sincerus» (D. Erasmus, Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, vol. VIII, 1529-1530, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 127-142).

La presenza di un omonimo del filosofo, suo contemporaneo, di cui pure dà conto Guerrini, ossia quel Vincenzo Maggi monaco benedettino, amico di H. Bullinger e di Bonifacio Amerbach, passato all’eresia e diplomatico del re di Francia, genera qualche dubbio sull’effettiva identità dell’emissario dell’Emili presso Erasmo.

Il Commento latino alla Poetica è in verità iniziato dal Lombardi nel 1541, e vede la luce nel 1550 a Venezia per opera del Maggi che conclude il lavoro iniziato con e dall’amico veronese. L’esegesi del testo greco si può chiaramente inserire nel più ampio contesto dei primi tentativi, insieme a quello del Robertelli o Robortello (1516-1567) del 1548, di traduzione e commento del testo greco dello Stagirita che prosegue sino alla produzione di Paolo Beni (1552-1625) del 1613 (G. Mazzacurati, Beni, Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 8, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1966).

I criteri scientifici adottati da Francesco Robertelli nei suoi commenti alla Poetica costituiscono il retroterra della moderna ermeneutica e consentono la correzione della versione latina dell’opera aristotelica di Alessandro de’ Pazzi (1483-1530/1531), la quale è fonte di ispirazione per lo stesso Maggi (A. De’ Pazzi, Aristotelis Poetica, per Alexandrum Paccium, in Latinum Conversa, Venetiis, in aedibus haeredum Aldi, et Andreae Asulani, 1536). Il Robortello con la pubblicazione delle Variorum locorum annotationes del 1543 e il trattato De arte sive ratione corrigendi veteres authores disputatio del 1557 entrò in polemica con il Maggi in merito alla questione dell’imitazione e funzione dell’arte poetica.

La problematica è attentamente analizzata nella Controversia IV, ove Paolo Beni ricostruisce il pensiero dei suoi immediati predecessori allo scopo di chiarirne le posizioni circa il soggetto dell’imitazione, fondamentale per la teoria poetica di Aristotele, e lo scopo e funzione morale della poesia (P. Beni, In Aristotelis Poeticam commentarii, Padua, F. Bolzetta, 1613, pp. 22-23). Beni, come il Robertelli, il Maggi e il Castelvetro (1501-1571) sottolineano la funzione catartica e morale della poesia. Diversi fattori contribuiscono a rivalutare l’etica del costrutto poetico: prima fra tutti la conoscenza dell’Ars poetica di Orazio, lettura comune a tutti i commentatori del tempo, nella quale si sottolinea l’utilità sociale della poesia. Ciò che ravvisa il Beni nei commentatori immediatamente anteriori come Robertelli, Maggi e Castelvetro è che tutti si trovano a confondere la poesia per la poetica; mentre Bartolomeo Lombardi è stato l’unico a tentare di distinguerli. A differenza dei suoi predecessori il Beni attua una chiara distinzione teoretica tra la poetica e la poesia, precisamente tra lo scopo della poetica, intesa come studio della poesia, e la funzione della poiesis, gli effetti della lettura di una poesia. Egli attribuisce alla poetica un triplice scopo: condurre la società verso la vita beata; purgare l’anima dalle passioni; e suo scopo primario proximus finis è insegnare agli uomini come scrivere e giudicare la poesia (importanti studi sono stati condotti con particolare attenzione alla relazione tra Paolo Beni, Francesco Robortelli, Vincenzo Maggi e Ludovico Castelvetro da P.B. Diffley, Paolo Beni’s commentary on the «Poetics» and its relationship to the commentaries of Robortelli, Maggi, Vettori and Castelvetro,«Studi Secenteschi», 25, 1984, pp. 53-100; rilevante anche il lavoro di F. Musarra, Poesia e società in alcuni commentari cinquecenteschi della Poetica di Aristotele (F. Robortello, Vincenzo Maggi, L. Castelvetro, A. Piccolomini), «Il Contesto», 3, 1977, pp. 33-75). Resta sotto i nostri occhi, al di là di qualsiasi tentativo di classificazione organica degli sterminati studi sulla Poetica aristotelica, la volontà del Maggi come uomo, che vuol essere filosofo e filologo al tempo stesso, al pari di un Erasmo. Come scrive G. Bertoni, (Comunicazioni ed appunti. Nota sulle tragedie di G.B. Giraldi e su V. Maggi, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 98, 1931, 292, p. 188), «mentre il Trissino e il Robortello s’erano accontentati di tradurre, o poco più il testo di Aristotele, sulla “catarsi”, il Maggi si dà cura di interpretare il passo aristotelico; e poiché Aristotele individua le passioni da purgare (la pietà e il terrore), ecco che il Maggi osserva che la tragedia non purga l’animo dalla pietà e dal terrore, ma dai sentimenti che hanno provocato l’una e l’altro, come l’ira e la lussuria» (c.m.). Ludovico Castelvetro ha sicuramente seguito i passi del commentatore bresciano circa la costruzione dell’unità di luogo, che mancava nel testo aristotelico.

È noto che per quanto riguarda la natura delle passioni, il passo di Aristotele è vastissimo, ancora oggi gli studiosi si chiedono se lo Stagirita alludesse alle passioni “rappresentate” o a quelle “risvegliate” negli spettatori. Il giudizio espresso dal filologo bresciano mira a sottolineare come Aristotele alludesse non alle passioni provocate nell’animo degli spettatori, ma unicamente a quelle dei personaggi (ivi, p. 189).

Nella ricostruzione storica della fortuna della Poetica di Aristotele nel sec. XVI, il critico letterario Giuseppe Toffanin sostiene che l’interpretazione del processo catartico nell’esposizione aristotelica, offerta dal filosofo bresciano nelle sue Explicationes alla Poetica, abbia deciso per sempre le sorti della tragedia verso una nuova rotta di moralismo assoluto, «quasi più anticonformistico della Controriforma, scolastico, intrasigente» (ivi, p. 187). Il maggiore rappresentante di questo retroterra moralistico sarebbe stato l’autore tragico Giovan Battista Giraldi, detto Cinzio (1504-1573), scrittore di nove tragedie complete: Orbecche (1541), Didone (1542), Cleopatra (1543), Altile (1543), Antivalomeni (1548), Arrenopia (1553), Selene (1554), Eufimia (1554), Epitia (1554). La prima e la più famosa tragedia del Giraldi, l’Orbecche, a causa dell’interpretazione e del modello suggeritogli dalle tragedie di Vincenzo Maggi, presenterebbe al suo interno un’impronta cattolica e pare che, in un certo senso, abbia costretto lo stesso autore a rappresentare quello che è stato definito come “orrido”, mettendo in scena persino il suicidio della protagonista (G. Toffanin, Storia Letteraria d’Italia. Il Cinquecento, Milano, Vallardi, 1965, pp. 477-490). Ma come nota giustamente il filologo Giulio Bertoni in risposta alle osservazioni fatte da Giuseppe Toffanin, l’Orbecche fu composta e rappresentata nel 1542, mentre l’opera del Maggi fu pubblicata nel 1550; pertanto il dilemma si risolverebbe con una intuizione dello stesso Toffanin, il quale immagina che il Giraldi abbia conosciuto l’anteprima del commento alla Poetica a Padova (cfr. G. Bertoni, Comunicazioni ed appunti. Nota sulle tragedie di G.B. Giraldi e su V. Maggi, cit., p. 189). Non bisogna però dimenticare che la tragedia del Giraldi fu un modello per moltissimi autori tragici; venne rappresentata nel 1541 a Ferrara, dinanzi alla corte estense e nel 1543 a Parma e a Venezia e, all’interno del panorama del teatro tragico italiano del Cinquecento, è indice dello spirito di rinnovamento nonché di elaborazione di una nuova via tragica rispetto al modello di stampo classicista offerto da Gian Giorgio Trissino (1478-1550). Il lavoro è chiara risposta alla Sofonisba, in nome di un paradigma più diretto della realtà delle passioni umane. A questo fine, il Giraldi, sin dalle Orbecche, propose alcune innovazioni strutturali: la divisione in cinque atti della tragedia, aventi ognuna il suo prologo (S. Foà, Giraldi, Giovan Battista, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 56, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2001, pp. 97-104; I.R. Pintor, La discordia en los casados de Lope de Vega y su modelo italiano, «Cuadernos de Filología Italiana», 5, 1998, pp. 127-145; S. Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali (1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996; Id. All’ombra di Renata. Giraldi e Castelvetro tra umanesimo ed eresia, «Schifanoia», 28/29, 2005, pp. 247-254; Aa.Vv, Giovan Battista Giraldi Cinzio gentiluomo ferrarese, a cura di P. Cherchi, Micaela Rinaldi e Mariangela Tempera, Firenze, Olschki, 2008; F. Bertini, “Havere a la giustitia sodisfatto”: tragedie giudiziarie di Giovan Battista Giraldi Cinzio nel ventennio conciliare, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008).

Il successo dell’Orbecche indusse il Giraldi a comporre nuove tragedie: in poco tempo, tra la fine del 1541 e il 1543, scrisse e vennero messe in scena la Didone, la Cleopatra e l’Altile. Quest’ultima in particolare rovescia la stessa struttura tragica inserendo il lieto fine, che renderà alcune delle tragedie giraldiane più propriamente delle tragicommedie; non di poco conto secondo il Toffanin poiché sottolinea l’influenza che Maggi ebbe sull’operato giraldiano come «una rinascita del pensiero medievale che fu, per allora, un apparente regresso ma che celava in germe il romanticismo» (G. Toffanin, Fine dell’Umanesimo, Milano, Fratelli Bocca, 1920, p. 91). Il giudizio del filologo Bertoni sulla fortuna del commento della Poetica aristotelica chiarisce notevolmente il quadro: «il filosofo bresciano fu amico e seguace di Erasmo e scrisse il suo commento con ispirito filologico, indipendentemente da influssi d’ogni maniera. La poetica del Maggi è naturalmente moraleggiante[…] ma non è controriformistica» (G. Bertoni, Comunicazioni ed appunti. Nota su Vincenzo Maggi, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 96, 1930, 288, p. 325).

Nel 1540 il Maggi, insieme al filosofo veronese, diviene membro dell’Accademia degli Infiammati negli anni più intensi del dibattito in merito alla classificazione del sapere logico e retorico e alla questione della lingua, la quale condusse l’intellettuale bresciano alla preparazione del Commento in lingua latina della Poetica. Le accademie italiane seicentesche svolsero un ruolo centrale nella vita intellettuale del tempo nonché un forte impatto sulle trasformazioni culturali della loro età in una misura non ancora pienamente valutata (E. Cochrane, The Late Italian Renaissance, 1525-1630, New York, Macmillan Press, 1970, p. 17).

L’Accademia, nata il 6 giugno del 1540, sceglie come propria fede “Arso il mortale, al Ciel n’andrà l’eterno” tratta dall’impresa di Ercole ardente sul monte Oeta, quasi a voler offrire una prova tangibile dei propri intenti: l’Accademia è luogo sperimentale, a differenza dell’università, nel quale si animano nuove logiche, e si prefigge l’obiettivo di diffondere i frutti della tradizione culturale per un vasto pubblico grazie all’adozione della lingua volgare come lingua ufficiale. Tale sinergia di intenti è pienamente testimoniata dalla produzione teatrale di Alessandro Piccolomini (1508-1578) e la composizione della Canace di Sperone Speroni (1500-1588) nonché l’utilizzo del volgare nella traduzione del sesto libro dell’Eneide sempre ad opera del Piccolomini del 12 ottobre del 1540. Le fonti relative all’origine e allo sviluppo dell’Accademia sono ancora oggi vaghe e incomplete, nonostante le proficue ricerche di studiosi quali Valerio Vianello, Jean-Louis Fournel, Michel Plaisance, Mario Pozzi e Francesco Bruni. Quest’ultimi sembrano concordi nell’asserire che l’Accademia affonda le sue radici in un circolo già attivo negli anni successivamente precedenti il 1540, fondazione effettiva dell’Accademia stessa. Sin da subito questa nuova realtà culturale coinvolge le personalità più illustri dell’intellettualità veneta, benché sia un fiorentino, Benedetto Varchi (1503-1565), ad avere un ruolo di primissimo piano nell’elaborazione e scrittura dei Capitoli fondativi del cenacolo. Animano il dibattito scientifico dell’Accademia varie generazioni di letterati e intellettuali: Daniele Barbaro (1514-1570), Leone Orsini (1512-1564), Ugolino Martelli (1519-1592), Sperone Speroni, Alessandro Piccolomini, Carlo Strozzi (1501-1551), Lorenzo Lenzi (1516-1571), Cola Bruno (1480-1542), Galeazzo Gonzaga (1509-?), Vincenzo Querini (1479-1514), Lazzaro Bonamico (1477-1552), Pierio Valeriano (1477-1588), Girolamo Fracastoro (ca. 1476/1478-1553), Pietro Aretino (1492-1556), Giovanni Battista Maganza (1510/1513-1579), Bernardino Tomitano (1517-1576), Francesco Sansovino (1521-1586), Luigi Alamanni (1495-1556), i quali, insieme, costituiscono un quadro abbastanza composito. Se da una parte molti intellettuali fanno parte dell’Accademia o vi hanno fatto parte (Lazzaro Bonamico insegna greco e latino dal 1530 al 1552, Bernardino Tomitano insegna logica dal 1539 al 1563; Daniele Barbaro si laurea il 19 settembre 1540, Giovanni Andrea dell’Anguillara il 25 giugno 1541), d’altra parte gli Accademici dirigono le loro aspettative verso nuovi e più ampi spazi culturali, alternativi allo Studium. Jean-Louis Fournel dipinge egregiamente questa moderna necessità: «L’académie est un espace intermédiaire, au carrefour de trois autres espaces: l’université, avec son savoir juridico-philosophique, la cour, avec sa mondanité, et le conseil, avec son éloquence délibérative ou judiciaire. [...] l’orateur trouve dans l’académie un lieu de rencontres avec d’autres virtuosi pour parler sans conséquence de quelque sujet que ce soit, à l’exception des thèmes chers à l’université et de ceux dont la cour ou les conseil de gouvernement se réservent un monopole aussi jaloux que secret, à commencer par la politique. [...] L’académie est la réponse que donnent des intellectuels sans champ d’action précis à la double crise de l’organisation du savoir scolastique et de la hiérarchie du savoir humaniste. [...] L’académie est aussi un substitut à un système courtisan» (J.L. Fournel, Les dialogues de Sperone Speroni: libertés de la parole et règles de l’écriture, Marburg, Hitzeroth, 1990, pp. 148-149). L’analisi di Fournel getta luce sull’esperienza concreta tanto del circolo degli Infiammat i quanto sul procedere delle personalità più illustri che ne fanno parte. Speroni appartiene, insieme a Varchi e Piccolomini, ad una generazione di mezzo che trova il compimento della propria formazione in autori come Pietro Pomponazzi (1462-1525) o l’umanista Pietro Bembo (1470-1547). L’Accademia si distacca dal principio del “consenso” universitario per abbracciare l’ideale della solidas umanistica con un ambizioso programma di letture. La Poetica, la Retorica e l’Etica di Aristotele sono le protagoniste e lo studio intenso di tali opere è sostenuto da Benedetto Varchi nell’ottobre del 1540: «Non voglio mancare dirvi ch’egli m’è bisognato promettere di leggere l’Etica nell’Accademia publicamente sponendola col testo greco, ma in lingua toscana, et comincio al principio d’ottobre» (ivi, p. 150). Dell’influenza e della lezione di metodo dell’umanista Sperone Speroni, principe e infaticabile animatore del cenacolo padovano, restano tracce significative nel pensiero e nell’insegnamento di Vincenzo Maggi a Ferrara. È invece riconducibile alle discussioni intercorse fra i membri del sodalizio (Piccolomini, Barbaro, Tomitano, Varchi) l’avvio del progetto di “sposizione” della Poetica, secondo quanto testimonia la stessa Praefatio di Lombardi, recitata in origine ad Academicos Inflammatos, e collocata poi dal Maggi, in memoria dell’amico defunto, a esordio della stampa delle Explanationes del 1549. Nei suoi primi tentativi di esegesi dell’impervio dettato della Poetica, in anni precoci, presso gli Infiammati il Maggi dovette assumere un ruolo di non pocoi rilievo; infatti il Varchi, appellandosi nell’Hercolano alla sua autorità, in merito alla dibattuta natura dell’imitazione poetica con il sermone o con il verso e l’armonia, lo ricordava come suo “onoratissimo precettore” insieme con Lombardi.

L’università di Padova, insieme a quella di Bologna e di Pavia, è centro propulsore di studi aristotelici. Dalla fine del XIII secolo e per tutto il Rinascimento sino al XVI secolo, lo Studium padovano è dominato da uno specifico approccio all’aristotelismo, che vedrà prevalere, in non pochi casi, l’“approccio alessandrista”, insieme ai commentari di Simplicio e di Temistio. Inoltre si comincia a considerare gradualmente la filosofia come disciplina propedeutica non alla facoltà superiore di teologia ma a quella di medicina. In questo clima di rinnovamento si forma il Maggi assimilandone i caratteri specifici. Un clima intellettuale in cui la filosofia naturale doveva operare come disciplina autonoma e fondare le proprie assunzioni solo su criteri razionali. Anche il Maggi è figlio di un tempo in cui gli aristotelici dovettero difendere con coerenza il loro diritto a spiegare i fenomeni empirici solo in base a principi razionali e filosofici, senza ricorrere ad argomenti teologici, legati all’ambito della religione rivelata e praticati, insieme all’insegnamento metafisico, dagli ordini mendicanti. Erede di tale tradizione, il Bresciano si inserisce pienamente in cui contesto in cui si tratta non solo di distinguere il campo della filosofia naturale da quello teologico, ma anche di stabilire la posizione dello Stagirita su ciascun problema di carattere fisico e biologico. Questo terreno permetterà lo sviluppo di un aristotelismo umanistico fondato sull’utilizzo di tecniche filologicamente più sofisticate e rigorose di edizione e di esegesi dei testi greci, incoraggiando la produzione di nuove traduzioni in latino classico (J. Kraye, I centri dell’aristotelismo universitario cinquecentesco, in Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 350-371). Non bisogna trascurare che il primo magister a tenere lezione all’università di Padova direttamente sul testo greco di Aristotele fu Niccolò Leonico Tomeo (1456-1531), il quale offrì le sue eleganti capacità filologiche alla creazione di traduzioni latine dei Parva naturalia e della Meccanica. Grazie a questo lavoro di esegesi, nel XVI secolo, in larga parte tutti i commentari antichi di Aristotele erano apparsi a stampa, sia in lingua originale e sia in latino. La possibilità di leggere tali opere sconvolse il quadro della filosofia aristotelica e influenzò di molto il criterio con il quale si leggeva il pensiero dello Stagirita. La tendenza filoellenica dell’aristotelismo umanistico si legge a chiare lettere nell’operato del Maggi, il quale supera brillantemente il suo percorso universitario conseguendo la laurea il 2 dicembre del 1528. Il curriculum filosofico dell’università di Padova, quando il filosofo bresciano si addottorò, prevedeva la lettura e l’esposizione degli studi di Aristotele, e soprattutto dei lavori di filosofia naturale quali il De caelo, il De generatione et corruptione, la Fisica e i Parva naturalia, tutte ritenute necessarie per lo studio della medicina. Facevano parte del curriculum scientifico anche i trattati di Aristotele sulla logica, l’Organon, e sulla filosofia politica e morale, la Politica e l’Etica Nicomachea. Sempre nel 1528 il Maggi assunse il suo primo incarico d’insegnamento a Padova, come professore supplente alla prima cattedra straordinaria di filosofia con il “tenue” stipendio di 47 fiorini. L’ascesa accademica del Bresciano proseguì in seguito alla rinuncia di Marcantonio Passeri, detto il Gènua (1491-1563), e nel 1533 egli venne promosso in secundo loco ordinario per la cattedra di filosofia naturale con 125 fiorini che aumentarono, nel 1535, fino a 300 in seguito al suo accresciuto prestigio. Egli detenne l’incarico di profess ore ordinario sino al 1543 in qualità di commentatore dei testi aristotelici su cui verteva il dibattito più acceso della speculazione fisica e dell’insegnamento logico-retorico dello Studium padovano (A. Paladini, La scienza umanistica di Marco Antonio Genua, Galatina, Congedo, 2006).

Le tematiche di filosofia morale e politica aristotelica erano considerate meno prestigiose rispetto alle più importanti conclusioni di filosofia naturale, pertanto i filosofi naturali, ai quali era affidato l’insegnamento del De caelo, del De generatione et corruptione, della Fisica e dei Parva naturalia occupavano cattedre sia “ordinarie” che “straordinarie”. Le prime comportavano lo status più alto e detenevano il primus e il secundus loco. Sempre nel 1543, in seguito all’incarico di precettore del principe Alfonso d’Este (1476-1534) figlio del duca Ercole I d’Este (1431-1505) e della principessa Eleonora d’Aragona (1450-1493), Vincenzo Maggi si trasferì a Ferrara, dove tenne la cattedra fino al 1557 (J. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Patavii, Typis Seminarii, 1757; rist. anast. Bologna, Forni, 1978, t. II, pp. 331, 343, 386).

1543-1557

Secondo quanto l’astronomo cosentino Giovanni Battista Amico (1511-1537) afferma nel proemio della sua opera De motu corporum coelestium iuxta principia paripatetica sine eccentricis et epyciclis, che conobbe una prima edizione nel 1536, i suoi maestri furono Vincenzo Maggi, Marcantonio Gènua e Federico Delfino, tutti magistri a Padova negli anni precedenti la pubblicazione dell’opera e legati alla tradizione dell’aristotelismo veneto del XVI secolo. Come ha pienamente colto lo storico Charles Schmitt, è nella pluralità di voci che si coglie la vera anima dell’aristotelismo veneto rinascimentale (C.B. Schmitt, Aristotle and the Renaissance, Cambridge, Harvard University Press, 1983, tr. it. Problemi dell’Aristotelismo rinascimentale, Napoli, Bibliopolis, 1985; Id., Aristotelian Tradition and Renaissance universities, London, Variarum Reprint, 1984). Gli scritti del Maggi, a differenza del Genua (in cui si può riconoscere un’impronta averroista), incarnano un orientamento alessandrista; ed è sulla base di questo fondo comune, nonché da una conoscenza personale risalente al 1528 che Bernardino Telesio (1509-1588) decise di sottoporgli nel 1563 il De natura iuxta propria principia, liber primus et secundus (1565).

Il periodo ferrarese segna una svolta nella vita intellettuale e personale del Maggi. Tale mutamento è testimoniato negli appunti delle sue lezioni sulla Poetica tenute dal 1546 al 1547 scritte dal discepolo Alessandro Sardi (1520-1588) a Modena, ed ora conservati nella Biblioteca Estense universitaria (Estensis Latinus, 88, alpha Q.6.14, cc. 1r-69v). In essi si sottolinea la ratio ermeneutica e la scelta di metodo del Maggi come volontà di integrare il dettato aristotelico con la precettistica dell’Ars poetica oraziana. Si comprende pertanto la decisione del Maggi di voler pubblicare nel 1550 a Venezia, insieme al commento della Poetica aristotelica, un’opera dedicata ad Orazio che andasse ad integrare il commento (V. Maggi, Vincentii Madii, Brixiani et Bartholomaei Lombardi Veronensis In Aristotelis librum de poetica communes explanationes: Madii Vero in eundem librum propriae annotationes. Eiusdem de ridiculus: et in Horatii librum De Arte Poetica interpretatio est Lombardi in Aristotelis Poeticam praefatio, Venetiis, in Officina Erasmiana Vincentij Valgrisij, 1550; rist. anast. München, Fink, 1969). L’architettura dell’opera venne pensata insieme al filologo Bartolomeo Lombardi nel 1541, ma in seguito alla prematura morte di questi, il lavoro fu proseguito, concluso e fatto pubblicare dal Maggi a Venezia e dedicato al cardinale e vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo (1512-1578).

L’inserimento dell’interpretatio dell’Ars oraziana è funzionale all’approccio tipicamente umanistico di tenere insieme, uno di fronte all’altro, Aristotelis cum Horatio. Ciò getta nuova luce sulla problematica della oscura brevità della poetica greca e rende manifesta, al tempo stesso, l’occultam et artificiosam imitationem di Aristotele del poeta venosino (E. Selmi, Maggi, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 67, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, p. 87). Nel corpus ermeneutico del Maggi è presente una sezione intitolata De ridiculis ai fini di integrare le lacune presenti nel testo dello Stagirita, ricavando una precettistica del terzo genere per abduzione dalla generale teoria della tragedia. Si tratta più propriamente della commedia che si riteneva assente nella Poetica in seguito all’auspicata frammentarietà dell’opera. Il Maggi, attenendosi allo schema didattico della suddivisione in particulae della Poetica, si distribuisce fra translatio in latino del testo greco, explanatio e annotatio, con il fine ultimo di suscitare nei posteri il senso vivo di un esercizio dialettico di lectiones e correctiones, a partire da un testo già fissato organicamente e per così dire preformato dal quale però è possibile dispiegare una varietà di opportunae dubitationes. Egli, pertanto, riesamina e incrementa i brevi cenni aristotelici relativi alla commedia e alla definizione di comico come «ridiculum igitur peccatum et turpitudinem ac deformitatem esse sine dolore» (Poetica, XXIX; De ridiculis, p. 302) ricorrendo all’insegnamento dei latini; in particolare: Cicerone (De oratore, II), Quintiliano (Institutiones, VI) e, all’altezza del XV secolo, G. Pontano (De sermone).

Ferrara segna anche l’esordio della partecipazione politica e culturale del Maggi allo sviluppo della città estense. L’impegno civile del Maggi è testimoniato dalle carte manoscritte dell’Archivio di Stato di Modena (Casa e Stato, b. 502/23, n. 881), nella quale è conservata una oratio strutturata seguendo i canoni della tradizione cavalleresca degli avvertimenti al principe, dal titolo Consilia philosophica Vincentii Madii et Jo. Bap. Pignae in favorem serenissimi Ferrariae ducis in ea praecedentia. Quest’ultima fa parte di un’ampia raccolta di testi che trattano la questione politico-feudale che ebbe ampia risonanza nella cultura ferrarese, quella sul diritto di precedenza fra i duchi di Ferrara e quelli di Firenze. Il Consilium di Maggi analizza la questione a partire da diverse competenze teologico-filosofiche nonché giuridiche che appartengono al principato estense, che risulterebbe più potente. La maggiore autorità del principato nasce dalla forte stabilità del suo imperium e dalla consuetudine degli istituti e delle leggi in esso contenute. Di diversa natura invece appariva il governo fiorentino, incerto nelle sorti e nella scelta governativa fra Repubblica e Principato.

Il prestigio e la fama raggiunti nello Studium patavino gli permisero un agevole inserimento nei circoli intellettuali della corte estense. I cenacoli vantavano illustri personalità, quali il grecista Francesco Porto (1511-1581), Celio Calcagnini (1479-1541), Lilio Gregorio Giraldi (1479-1552), Ercole Bentivoglio (1507-1573), Giovan Battista Pigna (ca. 1530-1575) e Bartolomeo Ricci (1490-1569), con i quali il Nostro strinse rapporti di amicizia duraturi e sinceri. In particolare il Ricci gli attribuisce il merito di essere stato il primo a tenere lezioni pubbliche a Ferrara sulla Poetica nel 1543. Di tale progetto ne reca memoria Bartolomeo Ricci «Madius solus est qui aristotelis poeticam primum ex publico loco … feliciter interpretatus est» (cfr. G. Antonelli, Bibliografia Ricciana, ossia Catalogo Bibliografico critico delle opere di Bartolomeo Ricci di Lugo, Ferrara, Tipi Negri alla pace, 1841, p. 50; queste parole si trovano in una lettera del Ricci senza datazione ma sono anteriori al 1554 poiché la lettera è presente nell’opuscolo Barth. Ricci Epistolarum ad Herculem Atestinum Libri duo, Venetijs, apud Plinium Petramsanctam, 1554). Sono anni in cui la presenza di Renata di Francia (1510-1575), duchessa di Chartres e di Montargis, e duchessa di Ferrara in seguito al matrimonio con Ercole II d’Este (1508-1559), aveva consentito la circolazione di idee riformate aderendo almeno in parte alle idee luterane circa il diffondersi di un ideale di tolleranza. In seguito alle posizioni assunte dalla duchessa, il Maggi decise di dedicarle un’orazione che, a differenza della prima creata in onore di Anna d’Este, venne data alle stampe.

Al 1545 si ascrive l’incontro tra il Maggi e Anna d’Este, la quale si presentò alle lezioni tenute dal maestro bresciano mascherata e accompagnata da alcune gentildonne della corte estense. Il filosofo bresciano pertanto decise di improvvisare un Mulierum praeconium, trascritto interamente dal discepolo Alessandro Sardi ed ora conservato nella Biblioteca Estense. L’affascinante elogio al mondo femminile inizia con queste parole: «Novum hunc splendorem, novam lucem oculis meis subito exortam aspiciam: quae totum hunc locum mirabili quadam venustate collustrat, ut non res caduca sed caelestis potius atque divina esse videatur. Animus meus repente inflammatus est et a tanta pulchritudine raptus, ut non amplius possit de generatione rerum caducarum et earum corruptione cogitare» e prosegue nel sostenere la tesi che mai le donne furono causa dei mali maschili, al contrario di quanto con parole ingiuste si rivolge il protagonista dell’Orlando furioso, preso da un raptus di follia «sed potius virorum insaniam». L’ode divenne in seguito terra fertile per il letterato Girolamo Fracastoro (ca. 1478-1553) del sonetto Alla subita luce che s’offerse (Codice Estense, W. 2.11).

L’incipit dell’opera mostra come l’oratore fosse inizialmente sorpreso nel vedere tra la schiera dei suoi discepoli le nobildonne della corte di Ferrara, e fa credere al pubblico che l’orazione venga improvvisata, ma è altrettanto possibile che il Maggi fosse a conoscenza della venuta delle donne poiché era tempo di carnevale, dunque il mascheramento non destava particolare scalpore, ed era consuetudine quella di omaggiare le donne con delle orazioni (C. Fahy, Un trattato di Vincenzo Maggi sulle donne e un’opera sconosciuta di Ortensio Lando, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 138, 1961, p. 257). Molte trattati encomiastici sulle donne appaiono prima del lavoro di Maggi: basti pensare al Dialogo della dignità delle donne di Sperone Speroni (cfr. F. Cammarosano, La vita e le opere di Sperone Speroni, Empoli, Ibiskos, 1920, pp. 30-47) e la Institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile e in città libera libri X in lingua toscana dove e peripateticamente e platonicamente, intorno a le cose de l’ethica, iconomica, e parte de la politica, è raccolta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita di quello. Composti dal signor Alessandro Piccolomini, a beneficio del nobilissimo fanciullino Alessandro Colombini, pochi giorni innanzi nato, figlio de la immortale mad. Laudomia Forteguerri. Al quale (havendolo egli sostenuto a battesimo), secondo l’usanza dei compari: de i detti libri fà dono, Venezia, Girolamo Scoto, 1545), entrambi molto significativi perché apportano, seppure in modo diverso, delle innovazioni nel settore della trattatistica rinascimentale sulle donne.

Il Brieve Trattato presenta una rigorosa nitidezza di forma e gli argomenti sono svolti con rigore scientifico, offrendo sin dalle prime battute tre gruppi di prove che, a sua intuizione, riuscirebbero a dimostrare non solo l’eccellenza delle donne ma anche la loro superiorità «in tre modi mostraremo l’intention nostra, primieramente dalli instrumenti dell’anima, liquali, senza dubbio sono nelle donne più che ne gli huomini eccellenti. Poi dalle operationi che derivano da la ragione. Ultimatamente dal testimonio de gli istessi huomini, poiché e conoscono e confessano d’esser alle Femine inferiori» (V. Maggi, Un brieve trattato dell’eccellentia delle donne, composto dal prestantissimo philosopho (il Maggio) & di latina lingua, in italiana tradotto. Vi si e poi aggiunto un’esortatione a gli homini perche non si lascino superar dalle donne, mostrandogli il gran danno che lor e per sopravenire, Brescia, Damiano de’ Turlini, 1545; esemplare conservato presso il British Museum, cfr. Short-Title Catalogue of Books printed in Italy and of Italian Books printed in Other Countries from 1465 to 1600 now in the British Museum, London, Trustees of the British Museum, 1958, p. 971). A dimostrare la superiorità delle donne è il temperamento e la sua natura, seguendo le orme aristoteliche, flemmatica che, sebbene meno adatta agli esercizi intellettuali rispetto al caldo e secco maschile, produce nel lungo percorso dell’esistenza risultati migliori in quanto non soggetto a desideri disordinati. Tale temperamento si rispecchia anche nelle «operationi che derivano da la ragione», in altri termini nelle virtù. Appartengo per natura al mondo femminile: la fortezza d’animo, la liberalità, importantissima poiché rappresenta il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità, la prudenza, la continenza e l’amore. La cognitione naturale è accompagnata e sorretta dalla cognitione per essercitio acquistata in grado di raggiungere, se sviluppata saggiamente con un ferreo corso di studi superiori, le vette più vicine alla perfezione (V. Maggi, Un brieve trattato dell’eccellentia delle donne, cit., p. 982; tematiche presenti anche nell’opera di Galeazzo Flavio Cappella, Della eccellenza et dignità delle donne, fonte presente in R. Ricciardi, Capra, Galeazzo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 19, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1976). L’ultima parte dell’opera è dedicata ad un argomento quanto mai interessante: l’autore intende dimostrare come gli uomini stessi ammettano la loro inferiorità rispetto alle donne, in quale occasione? Nell’atteggiamento dell’amante verso l’amata: «trovo infiniti huomini che presi d’amor, pregano et scongiurano le lor amate Signore, perché donar li vogliano il cuore e la voluntà con mille giuramenti, affermando d’havergli fatto libero dono d’ogni lor voler et di ogni desiderio: che diremo quivi? Saracci alcuno si fuor di senno che donar altrui volesse alcuna pretiosa cosa per ricevere in contracambio un’altra di niuno pregio? Certamente quando gli huomini offeriscono alle donne il lor animo per ricevere quel delle donne, essi a questo modo confessano esser maggior la feminil dignità» (V. Maggi, Un brieve trattato dell’eccellentia delle donne, cit., p. 991). L’edizione bresciana del 1545, che trovo il suo posto tra i capolavori del British Museum, contiene un’altra opera intitolata Brieve essortatione, che completa strutturalmente e logicamente il Brieve Trattato in quanto quest’ultima è dedicata agli uomini e li mette in guardia dal pericolo contenuto in nuce nel gentil sesso ora che le donne stanno acqu istando piena consapevolezza delle loro forze e possibilità. Dietro l’apparente anonimato della Breve essortatione si nasconderebbe, secondo i più recenti studi, l’astuzia dell’umanista Ortensio Lando (ca. 1510-1588). Il volume bresciano del 1545 ci permette di integrare la biografia del Lando perché ci fornisce una data sul suo soggiorno a Brescia. Difatti se consideriamo che l’orazione del Maggi è da ricondurre al carnevale del 1545, la composizione della Breve essortatione sarà chiaramente posteriore o scritta nello stesso tempo (conclusioni contenute in C. Fahy, Un trattato di Vincenzo Maggi sulle donne e un’opera sconosciuta di Ortensio Lando,«Giornale Storico della Letteratura Italiana», 138, 1961, pp. 254- 272).

In merito all’ipotesi di Giulio Bertoni riguardante l’esistenza di due odi del Maggi, la prima dedicata ad Anna d’Este e la seconda a Renata di Francia (G. Bertoni, Comunicazioni ed appunti. Nota su Vincenzo Maggi, cit., p. 326), occorre fare una precisazione di natura bibliografica. Secondo la ricostruzione offerta dal Bertoni, il Mulierum praeconium in onore di Anna d’Este non sarebbe mai stato stampato mentre l’altra orazione del Maggi sulle donne sarebbe stata pubblicata. Proprio da qui nasce l’equivoco creato probabilmente dal fatto che l’analisi del Bertoni si basa su un’edizione rara dello stesso Mulierum praeconium, registrata dallo storico Vincenzo Peroni nella sua Biblioteca Estense e stampato da Damiano de’ Turlini a Brescia nel 1545 nel cui frontespizio compare la dedicatoria «al prestantissimo Philosopho (il Maggio)» (V. Peroni, Biblioteca Bresciana, vol. 3, Brescia, Forni, 1816-1823, pp. 205-206). La suddetta è registrata anche da Bartolomeo Fontana nel terzo volume della sua opera su Renata di Francia, dove oltre al titolo del libro incompleto, è stata trascritta una parte della lettera dedicatoria a Renata di Francia con le seguenti parole «Copia di una dotta lettione in lode del vostro Sesso, scritta dall’acutissimo S. Vincenti Maggio, et recitata alla presentia della Illustriss. P. di Ferrara» (B. Fontana, Renata di Francia, duchessa di Ferrara sui documenti dell’archivio estense, mediceo, Gonzaga e dell’archivio segreto vaticano, vol. 1, Roma, Forzani & C., 1889, p. 300). Dopo questa precisazione è facile capire come, ripercorrendo le parole del Fontana, Paolo Guerrini e lo stesso Giulio Bertoni siano stati portati a credere che il Maggi avesse prodotto due orazioni; l’una stampata in seguito dal discepolo Sardi, ma improvvisata e costruita nell’Accademia in onore della presenza di Anna d’Este, in latino, e l’altra costruita e data alle stampe dallo stesso Maggi per Renata di Francia. La verità sta nel mezzo poiché confrontando i due testi, quello dell’orazione latina, conosciuto come Mulierum praeconium, e l’edizione a stampa del 1545, conosciuto come Un brieue trattato dell’eccellentia delle donne, composto dal prestantissimo philosopho (il Maggio) & di latina lingua, in italiana tradotto. Vi si e poi aggiunto un’esortatione a gli homini perche non si lascino superar dalle donne, mostrandogli il gran danno che lor e per soprauenire, si intende chiaramente che quest’ultimo non è altro che la versione in volgare del Mulierum praeconium. L’orazione sulle donne, in seguito divenuta trattato, fu pronunciata per la prima volta dinanzi ad Anna d’Este, poiché con ella si deve identificare la «Principessa» rievocata nella lettera dedicatoria dell’edizione a stampa indirizzata alla Signora Leonora Gonzaga Martinenga, sorella della ben più nota Giulia Gonzaga (1513-1566), alla quale Ludovico Ariosto dedica queste parole nell’Orlando Furioso «Iulia Gonzaga, che dovunque il piede volge, e dovunque i sereni occhi gira, non pur ogni altra di beltà le cede, ma come scesa dal ciel dea, l’ammira» (L. Ariosto, Il Furioso. Orlando furioso di messer Ludovico Ariosto da lui proprio con la giunta d’altri canti nuovi ampliato et corretto, Vinegia, per Francesco di Alessandro Bindoni et Mapheo Pasini, 1533, p. 8).

Il consenso guadagnato durante il periodo ferrarese permise a Maggi, nel 1554, di divenire principe dell’Accademia dei Filareti. Come si è detto, la permanenza a Ferrara durò sino al 1557, anno in cui lo Studium fu temporaneamente chiuso per devolvere lo stipendio dei professori agli armamenti della guerra. La chiusura della sede universitaria non impedì al Maggi di mantenere un dialogo attivo con le istituzioni e i letterati della sua città natale. Dal fascicolo di lettere dell’Archivio di Stato di Modena (Archivio per materie, Letterati, b. 32) siamo informati sui continui spostamenti e ritorni a Brescia del filosofo, per sbrigare mansioni economiche legate alle proprietà familiari o per ragioni culturali. Da recenti fortunati reperimenti di carte conservate nell’archivio della famiglia degli Stella (Bergamo, Biblioteca Angelo Mai, Archivio Silvestri, Fondo Stella, b. XL, f. 75; cfr. E. Travi, Cultura e spiritualità nelle “accademie” bresciane del ’500, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, Firenze, Olschki, 1989, pp. 193-212.) si è potuto ricostruire il ruolo autorevole giocato dal Maggi nell’istituzione dell’Accademia bresciana di Rezzato, promossa da Giacomo Chizzola (1502-1580) e da un gruppo di colti aristocratici.

1563

Al 1563 risale l’incontro tra Vincenzo Maggi e il filosofo cosentino Bernardino Telesio (1509-1588). Giulio Bertoni dimostra nel suo articolo (G. Bertoni, Il consulente di B. Telesio, «Giornale critico della filosofia italiana», 3, 1922, p. 290) che fu proprio il letterato bresciano colui al quale si rivolse il filosofo Bernardino Telesio a Brescia per avere conforto e consiglio in merito al De rerum natura, di lì a poco dato alle stampe a Roma nel 1565. Il Maggi per alcuni giorni ascoltò le proposte del Cosentino «summa cum animi tranquillitate et audii et perpendit omnia», restituendogli quella fiducia in sé che aveva perduto (cfr. G. Gentile, I problemi della scolastica e il pensiero italiano, Bari, Laterza, 1923, pp. 145-146). Tale illuminante incontro verrà ricordato dallo stesso Telesio nel Prooemium alla prima edizione del De Natura «Facile igitur suspicare vererique potenti, et revera suspicanti interdum verentique deceptum me […] Madium Brixianum adire et consulere visum est, quem et in philosophia excellere videbamus et cuius mihi animi ingenuitas innotuerat» («e poiché dunque potevo facilmente sospettare e temere, anche perché talora, in realtà, avevo sospettato e temuto di essermi ingannato […] mi parve opportuno andare a visitare, per consultarlo, il Maggi di Brescia, il quale, com’era noto, eccelleva nella filosofia, e del quale già da molto tempo era conosciuta la nobiltà d’animo» Proemio, p. [4]). Dell’incontro bresciano tra Maggi e Telesio si ha memoria in una nota lettera dell’umanista cosentino Sertorio Quattromani (1541-1603) a quest’ultimo:

«Hoggi, che sono i 20 di settembre, ho avuto due pieghi di Vostra signoria, recatimi dal Signor Rinaldo Corso, l’uno dell’otto e l’altro dell’undici del medesimo mese. Andai subito subito dal signor Bernardo Cappello, et gli lessi le lettere, che ella scrive à me, et al Bianchetto. L’ascoltò assai volentieri, et rimase tanto contento, che parea che non capisse in se stesso. Non posso vistare hoggi il Padre Bencio, et il Signor Caro, perché ho à scrivere cento lettere, et, come non scrivo ha tutti, mandano i gridi insino alle stelle. Ma dimani senza fallo verdò di visitargli et gli farò partecipi di ogni cosa. Io non fo troppo schiamazzo, che l’opera di Vostra Signoria sia riuscita secondo il desiderio dell’animo suo, perché io sempre hebbi per fermo, che non potea essere di meno, et quella cosa, che agli altri è nuova, è a me vecchia di mille anni: pure me ne rallegro oltre modo, perché questi filosofi romani si immaginavano, che il Maggio non sarebbe mai concorso con lei, et l’affermavano securamente; et hora sono rimasti tanto arrossiti che non ardiscono di comparere fra gli huomini. Mando a Vostra Signoria quelle compositioni, che mi impose che io facessi per quell’amico. Mi farà favore di non vederle altro occhio che il suo, poiché da che io mi allontanai da lei, quei spiriti, che in me erano generati dalla sua presenza, et che mi rendean pronto, et ardito, sono tutti spenti, et con loro anco annullato, et venuto meno ogni giudicio, et ogni sapere. Et perciò non fia maraviglia se quel poco, che mi è rimasto, teme d’apparir fuori. Il nostro manincomico ha cominciato a sorridere, et spero fra pochi giorni farlo il più allegro huomo del mondo. Del Signor Guerriero non le so dire altro, se non che è tutto suo, et che non si può satiare di giocare a scacchi, et di tranguggiarsi ogni dì mille matti. E il Signor Emilio, liberalissimo sopra ogni altro, conoscendo l’humore dell’huomo, gli ne dà quanti ne vuole. In questo mezzo bacio a Vostra Signoria la mano, et nella sua buona gratia riverentemente mi raccomando.
Di Roma, a’ di 22 Settembre, 1563»
(S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, Arcavacata di Rende, Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1999, pp. 19-20).

1564

Fatto ritorno a Ferrara, Vincenzo Maggi muore.

Bibliografia

Opere di Vincenzo Maggi

Un brieve trattato dell’eccellentia delle donne, composto dal prestantissimo philosopho (il Maggio) & di latina lingua, in italiana tradotto. Vi si e poi aggiunto un’esortatione a gli homini perche non si lascino superar dalle donne, mostrandogli il gran danno che lor e per sopravenire, Brescia, Damiano de’ Turlini, 1545.

Vincentii Madii, Brixiani et Bartholomaei Lombardi Veronensis In Aristotelis librum de poetica communes explanationes: Madii Vero in eundem librum propriae annotationes. Eiusdem de ridiculus: et in Horatii librum De Arte Poetica interpretatio est Lombardi in Aristotelis Poeticam praefatio, Venetiis, in Officina Erasmiana Vincentij Valgrisij, 1550 (rist. anast. München, Fink, 1969).

Vincentii Madii Brixiani De cognitionis praestantia, oratio, eo anno quo naturalem philosophiam in almo Ferrariensi gymnasio docere coepi habita, Ferrariae, apud Franciscum Rubeum de Valentia, 1557.

Studi

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