di Federico Roggero*

1559-1584. Napoli – Anni giovanili e formazione. Opere filosofiche

Giacomo Antonio Marta nacque a Napoli, il 20 febbraio 1559.

Nelle opere, come nella letteratura che lo riguarda, il suo nome subisce varianti: Giacomo Antonio Marta, Giacomantonio Marta, Iacopo Antonio Marta, Jacobus Antonius Marta. Nei frontespizi delle sue opere, quasi sempre, semplicemente Doctor Marta. La data di nascita si deduce da quanto egli stesso dichiarava in chiusura della prefazione alla principale tra le sue opere giuridiche, la Compilatio totius iuris controversi, di cui si dirà più avanti: «Ex Musaeo meo Patavino, die 20 Februarii 1618, qua die sexagesimum meae aetatis annum ingredior, legalis studii annum quadragesimum octavum curro» (G.A. Marta, Compilatio totius iuris controversi, Venetiis, apud Juntas, 1620, Praefatio, in fine).

Il passo era già stato richiamato dal Nicodemo (L. Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca Napoletana del Dott. Niccolò Toppi, Napoli, Salvator Castaldo, 1683 [rist. anast. Bologna, Forni, 1971], p. 86) e poi dal Giustiniani (L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, vol. II, Napoli, Stamperia Simoniana, 1787 [rist. anast. Bologna, Forni, 1970], p. 233).

Conferma la datazione della nascita al 1559 l’explicit della terza parte di un’altra sua opera, la Summa totius successionis legalis: «Et sic ad gloriam Omnipotentis Dei, ego Iacobus Antonius Marta Neapolitanus complevi tres primas partes huius tractatus, hac die septima Octobris MDCXXI currente sexagesimo tertio meae aetatis anno» (Summa totius successionis legalis, t. I, Lugduni, sumptibus Iacobi Cardon et Petri Cavellat, 1623, pars III, quaest. XV, art. IV, coll. 1157-1158).

Meno attendibile, invece, perché proveniente da fonte indiretta, è la notizia risultante dal certificato di morte del Marta, fatto a Mantova il 22 settembre 1629, dal quale si dovrebbe dedurre che egli era nato nel 1557: «Sabato 22 settembre 1629. Il Sig. Dott. Marta napoletano in contrada Aquila, morto nella pregion di Castello di longa infermità d’anni 72» (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta giureconsulto napoletano giusta i documenti inediti degli Archivi mantovani, «Atti e memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova», biennio 1885-1886 e 1886-1887, p. 56). Nessun riscontro ha, infine, la datazione proposta dal Fabroni, che anticipa la nascita addirittura al 4 febbraio 1542 (A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, vol. II, Pisis, s.n.t., 1792 [rist. anast. Bologna, Forni, 1971], p. 212).

Nulla si sa della famiglia d’origine del Marta, salvo che un suo avo, di nome Antonio, era stato al servizio della famiglia Gonzaga e particolarmente caro al vicerè di Sicilia appartenente a quella famiglia, Ferrante (o anche Ferdinando), viceré dal 1535 al 1546. In un passo della Methodus probandi [...] ad Maximilianum Gonzagham, pubblicata dal Marta in apertura delle Repetitiones in rubric. et in l. 1. D. de novi operis nunciatione (Florentiae, apud Georgium Marescotum, 1600), si legge: «Ita enim antiquissimam servitutem continuare videbor, quam in serenissimam familiam tuam Antonius avus incepit, qui Ferdinando illo maximo viro, Siciliae etiam Proregi charissimus fuit».

Sul passo avevano richiamato l’attenzione già L. Nicodemo (Addizioni copiose, cit., p. 85) e A. Fabroni (Historia, cit., vol. II, p. 212). Su Ferrante Gonzaga, si veda la corrispondente voce redatta da G. Brunelli per il Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 57, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, pp. 734-744.

Sappiamo, inoltre, dal testamento lasciato dal Marta, pubblicato dal Paglia nel sec. XIX (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., pp. 53-81), che egli rimase presto orfano e che venne allevato, dall’età di 10 anni, dai Gesuiti, rimanendo specialmente sotto la protezione del Padre Alfonso Salmerón (Toledo, 8 settembre 1515-Napoli, 13 febbraio 1585), fondatore del Collegio dei Gesuiti di Napoli, al quale rimase sempre profondamente legato.

A Napoli il Marta si formò negli studi giuridici sin dall’età di dodici anni. Tutti gli antichi biografi concordano però nel dire che egli non conseguì mai la laurea, ad onta della qualifica di doctor sempre ostentata nei suoi scritti, che usava firmare appunto come «dottor Marta». Il Tiraboschi afferma che addirittura il Marta rifiutò di ricevere la laurea (G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, t. VIII, parte II, Venezia, Tipografia Molinari, 1824, p. 489). Alla qualifica di dottore, il Marta aggiunge talvolta – come avviene specialmente per le opere collegate al suo soggiorno a Roma (su cui v. oltre) – la qualifica di «advocatus».

Precisamente, «In Curia Romana advocatus», come si legge sul frontespizio delle Decisiones di Marcello Crescenzi (Romae, apud Marcum Antonium Murettum, 1589), opera contenente il Tractatus de tribunalibus Urbis, & eorum praeventionibus del Marta, di cui si dirà più sotto. Analogamente, sul frontespizio del De iurisdictione, il Marta si qualifica «in alma Urbe advocatus».

La questione della laurea in diritto resta tuttavia incerta. Quando, durante la sua permanenza a Padova (1611-1621), egli verrà accusato dai dottori del collegio di esser appunto sfornito del titolo dottorale, il Marta si difenderà asserendo di essersi addottorato a Roma (Marta ai riformatori di Padova, 1613, in F. De Paola, Il carteggio del napoletano Jacopo Antonio Marta con la corte d’Inghilterra (1611-1615)¸ Lecce, Milella, 1984, doc. LXIII, pp. 140-143); il che confermerebbe la congettura avanzata in tal senso già da E. Paglia (Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 60).

Prima ancora che nel diritto, però, il Marta aveva cominciato a formarsi nella filosofia e, forse, ancora prima, nelle «umane lettere» (G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, tom. III, parte II, Napoli, nella stamperia di Felice-Carlo Mosca, 1752 [rist. anast. Sala Bolognese, Forni, 1974], p. 491). Negli studi filosofici, fu allievo di Francesco Antonio Vivolo, professore sia nel Seminario, sia nello Studio di Napoli (R. De Maio, Le origini del Seminario di Napoli. Contributo alla storia napoletana del Cinquecento, Napoli, Fausto Fiorentino, 1958, pp. 146 e 148-149; D. Maffei, Prospero Rendella giureconsulto e storiografo. Con note su altri giuristi meridionali, Monopoli, Biblioteca comunale Prospero Rendella, 1987, ora in Id., Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica, Keip, Goldbach, 1995, p. 413 nota 11).

E proprio con la filosofia egli esordì, giovanissimo, entrando nella polemica sull’immortalità dell’anima agitata dagli averroisti e dagli “alessandristi” (i seguaci delle interpretazioni aristoteliche di Alessandro di Afrodisia), le cui dottrine circa la mortalità dell’anima individuale erano state messe al bando dal Concilio Lateranense V con la bolla Apostolici regiminis di Leone X (19 dicembre 1513), la quale, tuttavia, non ne impedì il proliferare negli anni seguenti (valga per tutti il De immortalitate animae [1516] di Pietro Pomponazzi).

Su questa polemica si veda G. Di Napoli, L’immortalità dell’anima nel Rinascimento, Torino, SEI, 1963; B. Nardi, L’Alessandrismo nel Rinascimento (anno accademico 1949-1950), a cura di I. Borzi e C.R. Crotti, Roma, La Goliardica, 1950; Id., Naturalismo e Alessandrismo nel Rinascimento, Travagliato-Brescia, Edizioni Torre d’Ercole, 2012, pp. 97-223.

Nell’ambiente napoletano esponente, per un periodo, dell’“alessandrismo” era stato Simone Porzio (1496-1554), «veramente e rigorosamente alieno da ogni separazione dell’anima» (cfr. E. Garin, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 163: G. Di Napoli, L’immortalità dell’anima, cit., pp. 354-358; e C. Vasoli, Tra Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Juan Valdés: note su Simone Porzio, «Rivista di storia della filosofia», 4, 2001, pp. 561-607). Contro di lui e contro le dottrine di Averroè si scagliò il giovane Marta con due opuscoli ispirati alla dottrina di Agostino Nifo da Sessa, già difensore dell’ortodossia cattolica (De immortalitate animae, Venetiis 1518): si tratta della Apologia de immortalitate animae adversus opusculum Simonis Portii de mente humana e della Digressio utrum intellectus sit unus, vel multiplicatus contra Averroem, entrambe pubblicate dal Marta in un volume contenente anche l’edizione, curata da lui stesso, di alcuni opuscoli di Simone Porzio.

Il titolo completo del volume è Opuscula excellentissimi Simonis Portii Neapolitani cum Iacobi Antonii Martae philosophi Neapolitani Apologia de immortalitate animae adversus opusculum De mente umana (Neapoli, apud Horatium Salvianum, 1578). Il libro fu confezionato, dal Marta, con l’esplicita intenzione di confutare le dottrine eretiche che, proprio in quel periodo, affermavano la natura mortale dell’anima umana. Il Marta volle ribadire invece, con la sua silloge, la dottrina cristiana sul punto.

Si legge infatti nella lettera dedicatoria: “Quare cum viderim principaliorem cantum, et philosophicum, et theologicum de animae immortalitate magnopere dissonum (aliqui namque scribentes, ab haeresi obcaecati, a melodia ipsum divertissent, quorum sectatores in dies altius animae caducitatem canunt prorsus a veritate alienam) hanc Apologiam tanquam mensuram et perfectum fundamentum fidei, sub veritatis christianae clavibus, modulatam conscripsimus”.

Il volume reca l’imprimatur dell’autorità ecclesiastica del 1577 (f. 56v), ma era già pronto quattro anni prima, nel 1573, come dichiarato dall’autore stesso, il quale aveva impiegato appunto gli ultimi quattro anni per limare il testo in modo da renderlo inattaccabile.

Si legge ancora nell’epistola dedicatoria: “Quem cantum cum quatuor annos huius meae iuventutis continuos lima perpolissem – ut momis omnibus, et nasutis hominibus calumniandi ansam praeriperem, qui solent ex emendatis inemendata describere, ex mendosis mendosiora reddere, praetermittere quod non legunt, corrumpere quod non intelligunt – data opera editionem differebam, dum omnia quam diligentissime examinarem, discuterem, et ad Cleantis lucernam revocarem”.

Nel complesso, il lavoro si configura come una raccolta di quaestiones impostate secondo lo schema classico (quaeritur, videtur quod, sed contra, respondeo, ad primum... ad secundum... etc.). Dopo una Praefatio (ff. 1r-2r), il libro si apre con una prima Quaestio de creatione (ff. 2r-13r), nella quale il Marta confuta le tesi contrarie a quella classica per cui “creatio antiqua aeterna non solum est possibilis, sed necessaria apud Aristotelem et veritatem sensatam”. In particolare, egli espone la opinio Averroistarum (ff. 2r-2v), cioè di coloro che, sulla scorta della lettura averroista di Aristotele, affermavano “creationem aeternam esse impossibilem”. Segue poi l’esposizione del pensiero del filosofo e teologo persiano Abu Hamid al-Ghazali (Opinio Algazelis, ff. 2v-3r). Il Marta passa, quindi, ad esporre, nei due capitoli centrali, il proprio pensiero circa l’immortalità dell’anima (Determinatio quaesiti ponitur, ff. 3r-6r; Animam creari, ff. 6r-7r). Infine, egli illustra le obiezioni che si possono opporre ai negatori dell’immortalità dell’anima, il cui pensiero aveva esposto nei primi due capitoli (Solvuntur rationes primi capitis, ff. 7r-10v; Solutiones rationum Algazelis, ff. 10v-13r).

Alla quaestio introduttiva fa seguito la Apologia de immortalitate animae (ff. 13v-25v), finalizzata alla confutazione della eresia alessandrista ed impostata, essa stessa, come una quaestio. Si apre, infatti, con l’esposizione della Opinio Alexandri (ff. 13v) e delle Rationes Portii pro hoc probando (ff. 14r-v), nonché di Rationes superadditae pro confirmatione huius pravae opinionis (ff. 14v-16r). L’autore passa quindi all’affermazione positiva del proprio pensiero, ossia alle “rationes nostras animae aeternitatem probantes”, fondate sull’autorità di Aristotele e di altri filosofi, sia greci, sia latini, nonché su quella dei padri della Chiesa (Veritas irrefragabilis, ff. 16r-20r). Infine, confuta gli argomenti in contrario (Solvuntur rationes oppositae, ff. 20r-21r), compresi quelli avanzati da Simone Porzio (Solutiones rationum Portii, ff. 21r-23r) e da altri autori (Solutiones rationum superadditarum, ff. 23r-25v).

Un ultimo capitolo ancora fa da cerniera tra la Apologia e lo scritto che segue. In quest’ultimo capitolo, il Marta pone la nuova questione, conseguente a quella della ormai dimostrata immortalità dell’anima: Intellectus, dum a corpore separatur, quem locum petat, et qua motus spetie moveatur (ff. 26r-v). La soluzione a questo nuovo problema è offerta, dal Marta, nella Digressio utrum intellectus sit unus, vel multiplicatus contra Averroem (ff. 26v-30r), breve opuscolo nel quale l’autore, premesso che intende “intellectum et animam rationalem pro uno et eodem”, affronta la “dubitatio” sull’anima conseguente alle tesi alessandriste: “an sit una, vel multiplicata”; se cioè l’anima “sit una in omnibus hominibus”. Il Marta espone, anzitutto, la tesi di Averroè sul punto (Opinio Averrois, f. 27r), il quale aveva affermato – come è noto – “quod intellectus est unus numero, quia est abstractus. Nam in abstractis a materia necesse est ut plura non interveniantur”. Passa quindi ad una serrata Confutatio huius maledictae positionis (ff. 27v-29v) ed, infine, alla solutio delle tesi di Averroè (Solvuntur rationes Averrois, ff. 29v-30r), dalla quale discende la prova definitiva della natura individuale dell’anima umana. Le opere che chiudono il libro, di seguito a quelle del Marta, sono opuscoli di Simone Porzio, curati dal Marta stesso.

Un primo gruppo di essi è dedicato al giureconsulto Salvatore Alfano (cfr. lettera dedicatoria, f. 31r). Si tratta della Quaestio de speciebus intelligibilibus (“...nunc primum a Iacobo Antonio Marta ordinata ac aedita”, ff. 31v-36v); della Quaestio num detur sensus agens (ff. 37r-42v), nonché della De puella germanica disputatio (ff. 43v-45v).

Un ultimo opuscolo del Porzio è dedicato, dal Marta, a Scipione Fiorillo, “philosopho insigni, logico acutissimo, ac medico praeclarissimo” (lettera dedicatoria, f. 46r): si tratta del Liber de dolore (ff. 46v-56r).

Rispetto al dibattito del tempo, sembra che queste prime opere filosofiche del Marta abbiano avuto scarso peso (G. Di Napoli, L’immortalità dell’anima, cit., pp. 374-376). Una risonanza decisamente maggiore ebbe, invece, il Pugnaculum Aristotelis adversus principia Berardini Telesii, pubblicato dal Marta nel 1587, a Roma, presso Bartolomeo Bonfadini. La nuova opera del Marta era già pronta, invero, nel 1581, ed era stata scritta a Napoli (si legge infatti nella Praefatio, p. 1:“agitur nam non modo privata dignitas, decus, honor, gloria, sed publica totiusque amplissimae huius et inclytae urbis Neapolis”) sotto l’influenza del Vivolo (R. De Maio, Le origini, cit., p. 148 nota 2). Il che lascia facilmente supporre che Marta abbia scritto il Pugnaculum avendo sul suo scrittoio la seconda edizione (1570) del De rerum natura di Bernardino Telesio (1509-1588).

Quando l’opera fu pubblicata, l’autore si era trasferito già da tre anni a Roma, ed aveva ormai abbandonato gli studi filosofici per dedicarsi a tempo pieno a quelli giuridici. Dalla prefazione dell’opera si deduce, infatti, che essa doveva costituire solo la prima parte di un lavoro più ampio (Praefatio, p. 6), che però il Marta non proseguì, essendo egli, al momento della pubblicazione, ormai impegnato a scrivere, per l’appunto, opere giuridiche (cfr. la lettera quasi di giustificazione indirizzata ai lettori, pp. 160-161).

Già nel frontespizio del Pugnaculum, il Marta, oltre che “philosophus Neapolitanus”, come già nella silloge di scritti filosofici pubblicata in precedenza, si qualifica anche, per la prima volta, come “utriusque iuris professor” (sebbene, come già detto, non fosse probabilmente neppure laureato). Si ha dunque l’impressione che il Marta si sia deciso a pubblicare quest’opera a Roma per segnalarsi come un difensore dell’ortodossia cattolica mentre si proponeva come professionista forense alla Curia romana, con la quale puntava ad avere rapporti di lavoro poi effettivamente concretizzatisi. Finalità non dissimile traspare, come si vedrà, dal Tractatus de auctoritate Rotae, completato nel 1588 ma rimasto inedito, e dal Tractatus de tribunalibus Urbis et eorum praeventionibus, pubblicato nel 1589: sono proprio queste ultime le opere giuridiche sulle quali il Marta diceva di affaticarsi nel momento in cui (1587) dava alle stampe il Pugnaculum Aristotelis.

Nel Pugnaculum, il bersaglio polemico del Marta è la fisica naturalistica di Telesio esposta nel De rerum natura (la cui prima edizione risale al 1565). Esso si compone di sette disceptationes, nelle quali il Marta mette a confronto le tesi del Telesio con gli insegnamenti di Aristotele, difesi volta per volta dal Marta stesso (De principiis naturae, pp. 7-47; De caelo, eiusque partibus et attributis, pp. 47-73; De elementis, pp. 74-116; De mistione, pp. 116-126; De principio effectivo, pp. 127-131; De calore, pp. 131-137; De motu, pp. 137-156). L’accesa difesa delle dottrine tradizionali (un «iroso aristotelico» lo definisce R. De Maio, Le origini, cit., p. 148) gli procurò l’avversione di Tommaso Campanella, il quale, confinato nel convento di Altomonte – proprio perché reo di aver mostrato ammirazione per il pensiero del Telesio – e subito prima di fuggirne alla volta di Napoli, compose, in poco più di sette mesi (dal 1° gennaio all’agosto del 1589), la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata (pubblicata poi nel 1592), con la quale contestò le tesi del «philosophaster» Marta (L. Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia. Narrazione con molti documenti inediti politici e giudiziarii, con l’intero processo di eresia e 67 poesie di fra Tommaso finoggi ignorate, vol. I, Napoli, A. Morano, 1882, pp. 15-16. Cfr. altresì L. Firpo, Prefazione, in T. Campanella, La filosofia che i sensi ci additano (Philosophia sensibus demonstrata), a cura di Luigi De Franco, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1974, pp. VIII-IX; Id., Introduzione, in T. Campanella, La città del sole, nuova ed. a cura di L. Firpo, G. Ernst e L. Salvetti Firpo, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. XI; L. De Franco, Nota al testo, in T. Campanella, Philosophia sensibus demonstrata, a cura di L. De Franco, Napoli, Vivarium, 1992, pp. 735-745).

1584-1597. Roma – Esercizio della professione forense e prime opere giuridiche: il Tractatus de auctoritate Rotae, il Tractatus de tribunalibus Urbis, la Epistola qua ordo theatri Curiae Romanae explicatur

Nel frattempo, il Marta si avviava anche alla professione forense. Già nel 1584 si spostò ad esercitare l’avvocatura a Roma, iniziando così una lunga serie di peregrinazioni che lo avrebbero tenuto lontano da Napoli, dove non avrebbe più fatto ritorno. A Roma godette della protezione del Cardinale Luigi d’Este, sotto il cui patrocinio esercitò l’avvocatura, curando gli interessi della Curia (G.A. Marta, Consilia, Augustae Taurinorum, apud HH. Io. Dominici Tarini, 1628, cons. 4).

A dire dei suoi primi biografi, per breve periodo, tra il 1587 ed il 1588, il Marta avrebbe fatto ritorno a Napoli, assumendo per la prima volta le vesti di docente: qui avrebbe insegnato, infatti, in quegli anni, diritto civile, sia pure come «privato lettore», per poi ottenere – secondo il Giustiniani – «una qualche cattedra nella nostra Università» (L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 234). Quest’ultima notizia è tuttavia contestata da L. Amabile (Fra Tommaso Campanella, cit., vol. I, p. 15), il quale esclude che a Napoli il Marta sia mai stato lettore pubblico.

Presto, comunque, il Marta si sarebbe portato a Benevento «nella nuova erezione degli studi» (L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 234), attrattovi «amplio stipendio» (B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque 1646 floruerunt, Neapoli, ex officina Vincentii Ursini, 1780, t. I, p. 223). Il caso del Marta non fu isolato. Esso rientrava in una precisa politica dell’universitas, tesa ad attirare a Benevento «persone forastiere virtuose della professione legale» (A. Zazo, Scuole private di diritto in Benevento nel secolo XVI, «Samnium», 35, 1962, 1-2, p. 113). Si sarebbe trattato comunque, anche in questo caso, di un insegnamento privato: uno Studio vero e proprio Benevento lo ebbe infatti solo alla fine del sec. XVIII (Id., Per un’università degli studi in Benevento nel 1791, «Samnium», 4, 1931, 2, pp. 69-70).

Entrambe queste brevi esperienze di docenza sono, però, da retrodatare a prima del settembre 1584: nell’elogio che del Marta fa Antonio Caro in calce al Pugnaculum Aristotelis – elogio datato Napoli, 8 settembre 1584 – si legge, infatti, di come il nostro giurista – il quale, nel frontespizio dell’opera è qualificato già, come già ricordato, oltre che «philosophus Neapolitanus», anche «utriusque iuris professor» – si fosse già distinto, prima di quella data, per l’insegnamento della giurisprudenza a Napoli, «tum privatim, tum publice», tanto da essere poi chiamato ad insegnare «sacrarum legum doctrinam» a Benevento, «publica mercede, publice omnium applausu» (G.A. Marta, Pugnaculum Aristotelis, cit., p. 159).

In altri termini, il Marta rimase tra Napoli e Benevento fino al 1584, per poi portarsi stabilmente a Roma. Definitiva conferma della presenza del Marta a Roma nel 1588 viene dall’esame dell’inedito Tractatus de auctoritate Rotae, recante la data del primo di settembre di quell’anno. L’opera ci è stata tramandata – a quanto consta – da un solo manoscritto, conservato nella Robbins Collection della University of California – Berkeley. Il manoscritto (ms Robbins 134, già Phillips), si compone di 51 fogli cartacei numerati, contenenti il testo del trattato steso in bella grafia del sec. XVI, con rare correzioni e senza annotazioni. Il testo è suddiviso in sette capitoli, ciascuno dei quali preceduto da un sommario. Il corpo di ciascun capitolo è ordinatamente numerato secondo la numerazione progressiva consueta nei testi a stampa del tempo: il manoscritto, in altre parole, dà l’idea di un lavoro pronto per la pubblicazione, che però poi non avvenne. La data «Rome kal. septembr. 1588» è posta dallo stesso Marta a chiusura della lettera dedicatoria, indirizzata all’uditore rotale Lorenzo Bianchetti.

Lorenzo Bianchetti (1545-1612) fu uditore della Rota dal luglio 1572, per 24 anni. Correttamente, perciò, nel 1588 il Marta lo dice uditore da 16 anni («annos sexdecim, omnes incredibili tua in diiudicando scientia, in deliberando gravitate, in apparando diligentia, ac celeritate admirati sunt»). Accompagnò il card. Aldobrandini nella sua legazione a Cracovia, nel maggio del 1585: anche a questa circostanza accenna il Marta («Has cum animi tui dotes Sixtus V. Pontifex Maximus optime cognitas haberet, statim legationis Polonae, cui amplissimus Cardinalis Aldobrandinus Rotae etiam vestrae alumnus praepositus est, collegam te misit»). Successivamente (ottobre 1589), accompagnò il card. Enrico Caetani nella legazione in Francia. Nel concistoro del 5 giugno 1596 fu creato egli stesso Cardinale.

Sul frontespizio del Tractatus, il Marta si qualifica espressamente «in Romana Curia advocatus».

Il Tractatus si sofferma sulle origini del supremo tribunale della Chiesa (cap. II), sui concetti di iurisdictio ordinaria e delegata (cap. III), nonché sul valore vincolante o meno delle sentenze rotali (cap. V). Nel testo il Marta descrive, inoltre, la procedura seguita internamente al collegio per giungere alla decisione (cap. IV), le dignità che competono agli uditori (cap. VI) e le qualità che i candidati debbono possedere per accedere all’uditorato rotale (cap. VII). Riporto qui l’indice dell’opera: ff. 1-1v: lettera dedicatoria a Lorenzo Bianchetti e Capita tractatus (elenco dei 7 capitoli in cui l’opera è suddivisa); ff. 2-8v: cap. I, De initio dominii et iurisdictionis; ff. 9-14: cap. II, De origine et progressu Reverendissimorum Patrum Auditorum Sacri Palatii A.(postolici); ff. 14-21v: cap. IV [III], Utrum potestas patrum Sacri Palatii sit ordinaria, vel delegata; ff. 21v-27: cap. IV, De ordine reddendi vota in causis; f. 27v: vuota; ff. 28-35: cap. V, Utrum decisiones Rotae faciant ius; ff. 35-41v: cap. VI, De titulis, et praecedentiis dignitatum Romanae Curiae; ff. 42-49v: cap. VII, Auditorandus.

Il Tractatus de auctoritate Rotae è la prima opera giuridica del Marta. Con essa egli svelò fin dall’inizio il proprio interesse per il funzionamento delle istituzioni giudiziarie e per le decisiones da esse prodotte: pochi mesi dopo, nel 1589, avrebbe dato alla luce il Tractatus de tribunalibus Urbis, & eorum praeventionibus, che erroneamente il Giustiniani (L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 238) ritenne inedito e che, invece, uscì insieme alle Decisiones rotali pubblicate da M. Crescenzi (Romae, apud Marcum Antonium Murettum, 1589).

Si tratta, in effetti, di un’opera piuttosto rara. Nelle edizioni successive delle Decisiones di Marcello Crescenzi non venne riprodotta, e oggi buona parte degli esemplari dell’edizione del 1589 è mutila proprio dello scritto del Marta.

L’opera, che consta, in realtà, di due trattati distinti – uno, appunto, De tribunalibus Urbis, l’altro De praeventionibus – riproduce, nella prima parte, con varianti, aggiunte e con una diversa sistematica il De auctoritate Rotae, che era pronto, come si è visto, nel 1588, ma che evidentemente il Marta – smanioso di procurarsi incarichi come avvocato presso la curia romana – ritenne opportuno arricchire con una descrizione delle altre istituzioni giudiziarie esistenti a Roma in quel periodo.

Sotto questo profilo, A. Camerano (Senatore e Governatore. Due tribunali a confronto nella Roma del XVI secolo, «Roma moderna e contemporanea», 5, 1997, 1, pp. 41-66, pp. 56-60) ha posto in luce la connessione fra la pubblicazione del trattato del Marta e gli Statuti di Roma del 1580, che avevano definito stabilmente il quadro della giurisdizione capitolina.

Con il De auctoritate Rotae e, subito dopo, con il De tribunalibus Urbis, il Marta esordì anche nel contesto del dibattito giurisdizionalista, assai vivo in quel periodo. In questo dibattito, il Marta assunse posizioni conservatrici e prettamente curialiste.

Nel primo capitolo del De auctoritate Rotae, ove il Marta illustra il fondamento della giurisdizione rotale, il solo ad essere definito «omnium ordinarius» è il Pontefice (Tractatus de auctoritate Rotae, cap. I), perché costui ha ricevuto il proprio potere, spirituale e temporale, da Dio per mezzo di Pietro. Dunque solo «a Petro, et eius successoribus dicemus esse omnes iurisdictiones, et potestates tam spirituales, quam temporales»; tutte le altre, lungi dal legittimarsi direttamente da sé per essere derivate da Dio, ricevono «approbationem, et confirmationem» dal Papa, che viceversa è il solo a non dover rendere conto a nessuno. Quest’ultimo è, in definitiva, «omnium superior [...] etiam in temporalibus» (Tractatus de auctoritate Rotae, cap. I, nn. 20-21, ff. 5v-6r) e il suo tribunale, la Rota Romana, è il supremo organo di giurisdizione, superiore a tutti i tribunali della terra (ivi, nota 31, ff. 8r-8v).

In definitiva, come già anticipato, le due prime opere giuridiche del Marta, se non altro per il taglio così apertamente curialista, sembrano scritte, oltre che per un genuino interesse scientifico, anche con il proposito di accattivarsi il favore della Curia pontificia, per mantenere con essa i rapporti professionali già in corso e ottenere, così, incarichi di prestigio.

Lo ha rilevato, riferendosi al Tractatus de tribunalibus Urbis, W. Reinhard, Papst Paulus V. und seine Nuntien im Kampf gegen die “Supplicatio ad Imperatorem” und ihren Verfasser Giacomo Antonio Marta 1613-1620, «Archiv für Reformationsgeschichte», 60, 1969, p. 212.

Coeva a questi primi scritti e in sintonia con essi è l’Epistola qua ordo theatri Curiae Romanae explicatur (Romae, apud Iacobum Ruffinellum, 1589).

Il titolo completo dell’opera è: Epistola qua ordo theatri Curiae Romanae explicatur, vt virorum illustrium totius orbis terrarum notitia habeatur. Quorum historiae ibidem nunc scribuntur Romae. A doctore Marta Neapolitano in eadem curia advocato. Essa apparve anche in lingua italiana, nello stesso anno e presso il medesimo editore, con il titolo di Lettera nella quale si racconta l’ordine del theatro della corte di Roma. Acciò che l’autore possa essere favorito d’havere notitia da diverse parti del mondo de gli huomini illustri. L’attioni delli quali vi si sono cominciate a scrivere dal dottore Marta avocato in detta corte. Tradotta in volgare dal signor Fabritio Manzuolo.

In questo breve scritto, il Marta preannunciava il lavoro di selezione e riordinamento delle decisiones di diversi tribunali supremi europei che avrebbe poi trasfuso nella principale fra le sue opere giuridiche, la Compilatio totius iuris controversi, o Digesta novissima, pubblicata a Venezia solo nel 1620 (v. infra). Al fine di procurarsi il materiale necessario, egli inviava, appunto, la lettera in questione «in tutte le parti del mondo ad alcuni letterati miei amici, maestri, & patroni», affinché gli dessero notizia di tutte le cariche dignitarie e, comunque, delle figure di addetti al governo della cosa pubblica presenti nei diversi Paesi («gli huomini illustri del mondo»). Questa griglia avrebbe costituito la base di partenza per l’individuazione degli atti prodotti dalle varie categorie di ufficiali, che avrebbe poi riordinato prendendo come riferimento l’articolazione (il «theatro») della corte romana.

Ad ispirare al Marta l’intrapresa di un’opera tanto vasta e complessa, alla quale lavorava già nel 1588, come risulta dalla lettera dedicatoria del De auctoritate Rotae («quod etsi circa huius Curiae theatri materias essem vehementer occupatus [...] quasdam tamen vigilias, et lucubrationes addere valui». Cfr. Tractatus de auctoritate Rotae, f. 1r), era la consapevolezza del grado di disordine ed incertezza cui erano giunti gli ordinamenti giuridici del suo tempo per aver trasgredito, secondo un motivo che ricorre in molti altri suoi contemporanei, il comando di Giustiniano di «non mettere le mani in fare commenti». Il Marta, perciò, suggerisce «da tutte le decisioni fatte in ciascheduno tribunale del mondo osservare i casi decisi, & farne nuove leggi, simili a quelle dei dottori antichi». Queste nuove leggi si impegna a ridurle «sotto il più brieve numero de titoli, che habbia potuto», distinti, questi ultimi, «secondo l’ordine della natura».

A sostenere il lavoro del Marta furono, in altri termini, i motivi caratteristici della polemica contro il proliferare delle dottrine dei giuristi, che finiscono col rendere inconoscibile il diritto, e della ricerca di un ordine semplice, chiaro e «naturale»: motivi che ricorrono nella dottrina giuridica italiana a partire dalla seconda metà del Cinquecento (cfr. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 271-272).

Secondo quanto riferito da egli stesso nella citata missiva ai riformatori dello Studio di Padova, del 1613 (F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. LXIII, p. 140), nel 1589 il Marta era non solo attivamente impegnato, a Roma, nella stesura dei testi appena menzionati, ma anche lettore di diritto civile alla Sapienza. Lo afferma anche nella lettera dedicatoria del Tractatus de tribunalibus Urbis: «ac in almae urbis sapientia in iurisprudentiae lectura satis accuratus». Questa indicazione non compariva, invece, l’anno precedente nella lettera dedicatoria del De auctoritate Rotae. Si può dunque supporre che la sua docenza nell’ateneo romano sia iniziata proprio nel 1589, anno di edizione del de tribunalibus Urbis (cfr. anche, in questo senso, N. Spano, L’Università di Roma, Roma, Mediterranea, 1935 [rist. anast. Roma, Università La Sapienza, 2008], p. 335).

Non è sicuro, tuttavia, che egli fosse incardinato nello studio romano, poiché per gli anni 1588-1591 i rotuli della Sapienza presentano una lacuna, mentre in quelli dal 1592 in poi il suo nome non compare (E. Conte, I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787: i Rotuli e altre fonti, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1991, ad annum). Il Renazzi dice, genericamente, che nel 1589 il Marta «occupava una catedra di giurisprudenza nell’Università di Roma» (F.M. Renazzi, Storia dell’Università di Roma, vol. III, Roma, Stamperia Pagliarini, 1805 [rist. anast. Bologna, Forni, 1971], p. 37).

A questo primo periodo romano va ascritta, altresì, una singolare, e rara, opera del Marta, Della memoria locale nuovo secreto raccolto dal dottor Iacomo Antonio Marta napolitano, Roma, per Bartolomeo Bonfadino, 1587, sorta di manualetto per l’apprendimento dell’«arte del ricordare», dedicata a Lodovico Boschetti. Un esemplare di essa è posseduto dalla Biblioteca Vallicelliana di Roma. Il Giustiniani (Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 237) ne menziona solo una versione in latino (Memoria localis), pubblicata anch’essa a Roma, nello stesso anno e presso il medesimo editore. Di quest’ultima versione non si rinvengono, però, oggi, esemplari, fatta eccezione per un manoscritto posseduto dalla Real Biblioteca di Madrid (ms II/3555, ff. 98r-111v), contenente un’opera del Marta intitolata Methodus reminiscendi, il cui contenuto è quello della Memoria locale della Vallicelliana, sia pure con qualche differenza. In questo caso, però, l’opera è dedicata a William Cecil, Barone di Ros (1590-1618), nel ricordo del tempo trascorso insieme a Padova («Illustrissimo Domino Guglielmo Cecil Baroni Roos, ex Paribus Regni Angliae Domino meo colendissimo, ut reminiscaris devotissimi viri, qui tecum de pluribus scientiis Patavii familiariter egi, libellum de memoria, et reminiscentia, do, dico, et consecro»). Il Marta fu a Padova, come si vedrà più avanti nel testo, tra il 1611 ed il 1621: sembra trattarsi, perciò, di una versione successiva dell’opera pubblicata a Roma nel 1587.

1597-1603. Docenza nell’università di Pisa

Negli anni accademici dal 1597-98 al 1602-03 il Marta figura come ordinario di diritto civile nell’Università di Pisa (D. Barsanti, I docenti e le cattedre dal 1543 al 1737, in Storia dell’Università di Pisa, vol. I, t. II, Pisa, Plus, 2000, p. 524). Il Marta, nella citata missiva ai riformatori di Padova, dice di aver retto l’«ordinario civile della sera», a Pisa, già nel 1595 (F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. LXIII, p. 140), ma degna di maggior fede è la datazione proposta dal Barsanti, perché fondata sui rotuli dello studio. Eventuali insegnamenti precedenti al 1597 il Marta non li tenne certamente in qualità di membro incardinato. Nell’ateneo pisano, il Marta disputò con Alessandro di Rho (M.N. Miletti, Stylus iudicandi. Le raccolte di “decisiones” del Regno di Napoli in età moderna, Napoli, Jovene, 1998, p. 38).

Terminato però il quadriennio di docenza, egli rifiutò il rinnovo dell’incarico «cum aperte diceret, se nullo modo ferre posse multorum Doctorum petulantiam, qui alienigenis praesertim invidebant & obtrectabant (neque sane ejus mores rustica asperitate conditi ad illos molliendos erant idonei)», sicché «Academiam atque Etruriam deseruit» (A. Fabroni, Historia, cit., vol. II, p. 213).

All’insegnamento pisano sono da ricondurre le Repetitiones in rubricam et l. 1. D. solut. matrim. (Florentiae, apud Georgium Marescotum, 1599) e quelle in rubric. et in l. 1. D. de novi operis nunciatione (Florentiae, apud Georgium Marescotum, 1600), le quali ultime contengono anche le Disputationes Doctoris Martae, quas in Circulis Pisanis anno 1599 a mense Novemb. cum excell. collegis arguendo, et defendendo digessit e la Methodus probandi in utroque jure ad Illustrissimum Marchionem Maximilianum Gonzagham. Sempre allo stesso periodo, anche se pubblicate quando ormai (stando al Fabroni) il Marta si era allontanato da Pisa, sono da assegnare, altresì, le Decisiones novissimarum almi Collegii Pisani, causarum delegatarum, vel ad Consilium Sapientis transmissarum vota doctoris, quae, dum jus Caesareum ibi de sero profiteretur cum aliis excellentissimis collegis decidendo, praestitit (Venetiis, apud Jo. Anton. et Jacobum de Franciscis, 1608).

Quest’ultima opera ebbe anche una riedizione (secundo impressa, quibus addita sunt quinquaginta non adhuc publicata Doctoris Martae […]), Venetiis, apud Jacobum de Franciscis sub signo pacis, 1614.

1609-1611. Secondo soggiorno romano. Il Tractatus de iurisdictione

Se pare plausibile che il Marta, al termine del primo quadriennio di docenza (1603), «Academiam atque Etruriam deseruit», non sappiamo tuttavia dove si portò prima di ricomparire nuovamente, nel 1609, alla Sapienza di Roma. Dal suo testamento, fatto nel 1628 (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., pp. 57-60), apprendiamo, peraltro, che non dovette trattarsi di anni particolarmente felici per lui. Nel 1608 il Marta si trovò in gravi difficoltà economiche, tanto che i suoi beni in Napoli vennero venduti ad istanza dei suoi creditori «per otto mila scudi d’oro cum pacto redimendi quandoque». Egli intraprese lite «super lesione» davanti al Sacro Regio Consiglio per dimostrare che il valore dei beni era maggiore di quanto stimato, «et detti miei beni furono estimati ducati di Napoli quindeci mila et questa lite ancora [sc. nel 1628] sono in pendente» (ivi, p. 59). Il Marta dichiara, altresì, nel testamento, di aver versato al Banco di S. Giorgio di Genova duemila scudi d’oro nel 1621, affinché fruttassero fino a formare la somma di ottomila scudi di Napoli, con i quali poter riscattare i beni forzatamente venduti. E avvertiva i Gesuiti – istituiti suoi eredi universali – che la rivalutazione si sarebbe verificata con il decorso di circa dieci o undici anni, dopodiché sarebbe stato possibile riscattare i beni. Apertasi peraltro la successione, «li 2000 scudi d’oro sul Monte di San Giorgio, cercati con gran diligenza, mai si sono potuti rinvenire, né mai s’è trovato vestigio che vi sian stati» (G. Gorzoni, Istoria del Collegio di Mantova della Compagnia di Giesù dal 1584 al 1911, parte I, a cura di Antonella Bilotto, Flavio Rurale, Mantova, G. Arcari, 1997, p. 162).

Allo stesso periodo risale l’ulteriore indebitamento di «tre milla e cinquanta un ducato del Regno di Napoli» verso tale Giovanni Vincenzo de Lucca e suoi eredi «per una sicurtà» (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 59) che costui aveva pagato, in favore del Marta, a Fabio Albergati, persona di fiducia della corte pontificia e di quella dei duchi di Urbino, nonché padre di Antonio Albergati, nunzio a Colonia (W. Reinhard, Papst Paulus V, cit., pp. 214-215).

Su Fabio Albergati – che morì il 18 agosto 1606 – si veda la voce redatta da E. Fasano Guarini per il Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 1, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, pp. 617-619. Nulla sappiamo sui motivi della lite che lo oppose al Marta.

Nel testamento (1628) il Marta dichiarava di aver restituito al medesimo G.V. de Lucca, tra il 1610 ed il 1611, «mille e ottocento scudi di moneta di Roma dentro di Roma et come appare per Istrumenti fatti in Roma d’Ottavio Celio notaro dell’Auditore della Camera». Per il resto, se non fosse riuscito ad estinguere il debito prima di aver restituito l’intero, incaricava i Gesuiti di provvedervi con l’attivo ereditario. Dichiarava altresì, nel testamento, che contro Fabio Albergati aveva intentato un giudizio davanti alla Rota Romana, per la restituzione di «cinque milla scudi pagati d’usure al dicto S. Fabio», aggiungendo che «nella dicta causa ho avuto tre decisioni a favore» (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 59).

Il De Paola (Il carteggio, cit., p. 17) mette in relazione la disfatta economica con la pubblicazione del trattato De iurisdictione, di cui si dirà subito nel testo, che rese il Marta inviso alla Corte pontificia. Sembra, tuttavia, che i debiti risalissero ad un periodo precedente.

Risolte queste difficoltà economiche, nel 1609 il Marta si trovava nuovamente a Roma, dove assunse un altro incarico di docenza alla Sapienza (L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 235). Anche per questa nuova docenza romana va rilevata l’assenza del nominativo del Marta nei rotuli ufficiali dello studio e si deve ipotizzare, di conseguenza, che si sia trattato di un insegnamento che tenne senza essere ufficialmente incardinato. In quell’anno egli pubblicò l’opera che segnò una svolta nella sua carriera professionale, il Tractatus de iurisdictione per et inter iudicem ecclesiasticum, et saecularem exercenda in omni foro, et Principum concistorii versantibus maxime necessarius (Moguntiae, typis Ioannis Albini, sumptibus vero Hulderici Revvall).

L’opera, che è dedicata – I libro – al pontefice allora regnante, Paolo V (1605-1621) e al card. Ottavio Pallavicino – II libro –, nelle quattro parti di cui si compone tratta della giurisdizione in generale (I), delle cause miste e della prevenzione (II), dei monitori e della censura (III), dei limiti della soggezione dei chierici alla giurisdizione laica (IV).

L’opera ebbe molte edizioni e ristampe successive: Coloniae Allobrogum, apud Ioan. Baptistam Bellagambam, 1616; Avenione, apud Philippum Albertum, 1616; Coloniae Allobrogum, apud Philippum Albertum, 1620; Augustae Taurinorum, apud Ioan. Baptistam Bellagambam, 1620; Avenione, apud Jo. B. Bellagambam 1621 (Biblioteca Vaticana, attribuita ad Orazio Marta); Avenione, apud Ioan. Baptistam Bellagambam, 1669.

Non pare però ci siano connessioni fra il De iurisdictione e la riforma dei tribunali compiuta da Paolo V (sulla quale si veda L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medio evo, vol. XII: Leone XI e Paolo V (1605-1621), Roma, Desclée e C., 1962, pp. 63-64; più di recente, S. Feci, Riformare in antico regime. La costituzione di Paolo V e i lavori preparatori (1608-1612), «Roma moderna e contemporanea», 5, 1997, 1, pp. 117-140.

Come sottolinea De Paola, «questo trattato pare assumere un’importanza notevole nel far maturare una svolta nella vita del Marta ed una rottura che si dimostrerà definitiva con la cultura in cui era nato e si era formato» (F. De Paola, Il carteggio, cit., p. 18): esso, infatti, viene proscritto già con decreto del 2 aprile 1610 (J.M. De Bujanda, Index librorum prohibitorum (1600-1966), Genève, Droz, 2002, p. 592) e comporta la definitiva rottura con la corte romana, dalla quale il Marta si allonta per portarsi nella Repubblica di Venezia, a Padova, dove, sebbene si fosse da poco conclusa con una conciliazione la questione dell’interdetto, proliferava un folto partito antipapale (si veda, tra le moltissime opere sull’interdetto veneziano, L. von Pastor, Storia dei papi, cit., pp. 85-159).

All’interdetto contro Venezia il Marta accenna nel suo trattato, senza però criticare l’operato del Pontefice (Tractatus de iurisdictione, pars III, cap. XXIV, nota 5, p. 339). Un dispaccio del card. Borghese, nipote di Paolo V e Segretario di Stato, al nunzio papale presso la Serenissima, mons. Gessi, del 20 settembre 1614 (P. Savio, Il nunzio a Venezia dopo l’interdetto, «Archivio veneto», 56-57, 1955, p. 63), descrive però bene il risentimento del Marta, il quale, lungi dal voler colpire le prerogative della Chiesa, sperava addirittura di ottenere, per il libro, un «premio» (e forse così risolvere i suoi problemi economici). Il dispaccio individua proprio in questo risentimento la motivazione delle «essorbitanze» in cui era prorotto il Marta dal suo arrivo a Padova, che lo avrebbero portato – come vedremo subito – ad avvicinarsi agli ambienti protestanti e a contestare apertamente la Chiesa di Roma. Sul temperamento polemico e rissoso del Marta insistono, peraltro, a più riprese, tutti i biografi antichi.

I contenuti eversivi del De iurisdictione non dovevano essere, peraltro, così marcati se, da un canto, il nunzio, mons. Berlingherio Gessi, appoggiò la chiamata del Marta a Padova come lettore di diritto canonico, e, dall’altro, Paolo Sarpi fu tra coloro che si opposero alla stessa chiamata perché giudicavano il Marta troppo «papista» per dare garanzie di difendere le posizioni guadagnate dalla Serenissima nella contesa per l’interdetto (G. Cozzi, Il Doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneto agli inizi del Seicento, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1958, p. 131).

Alla storiografia che, in passato, si è occupata del De iurisdictione, inquadrandolo nella polemica sul giurisdizionalismo – anche se, secondo il De Paola, quella del Marta fu «una voce secondaria nel gran concerto che si tenne a livello europeo su questo tema» (F. De Paola, Il carteggio, cit., p. 250) – esso è parso, in effetti, un «libro prettamente curialista» (A.C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, a cura di F. Margiotta Broglio, Napoli, Morano, 1972, p. 135, nota 1), che si inseriva «nel solco tracciato dalle teorie del Bellarmino» (F. De Paola, Il carteggio, cit., p. 246).

Uno studio recente (P.F. Grendler, Giacomo Antonio Marta: Antipapal Lawyer and English Spy, 1609-1618, «The Catholic Historical Review», 93, 2007, 4, pp. 789-814, trasfuso poi, con aggiunte, in Id., The University of Mantua, the Gonzaga and the Jesuits, 1584-1630, Baltimore, The John Hopkins University Press, 2009, chap. IV) ha colto, invece, nel trattato, una serie di distinzioni ed eccezioni che finirebbero col restringere, nella pratica, la giurisdizione ecclesiastica, sebbene il Marta muova da premesse tipicamente curialiste, quale il principio che il Papa, come vicario di Cristo, è la fonte di ogni giurisdizione sulla terra, anche di quella temporale.

La iurisdictio, sia temporale che spirituale, infatti, è – si legge nel trattato – inseparabile dal dominium, che ha origine in Dio, il quale lo concesse ad Adamo costituendolo «dominus omnium rerum» e «solus monarcha» (pars I, capp. I-II). Dopo Mosé, che fu ad un tempo principe e sommo sacerdote, ed il governo dei patriarchi e dei giudici, il popolo di Israele fu retto dai sacerdoti, i quali «habuerunt iurisdictionem in spiritualibus, & temporalibus»: anch’essi, cioè, erano ad un tempo «pontifices et reges» (cap. III, nota 11, p. 7). Nella storia del popolo eletto, perciò, si debbono rintracciare l’«initium» ed il «progressus» della legittima iurisdictio – ad un tempo, si ripete, spirituale e temporale –, dalla quale «trahit originem omnis iusta principum iurisdictio» (ibid.). Questa linea di continuità sembrò spezzarsi quando alcune dominazioni, tra cui, in primo luogo, l’impero romano, sorsero illegittimamente, fondando il proprio potere sulla conquista e la violenza. Ma l’incarnazione del Figlio di Dio, al quale «omnis potentia, omnis iurisdictio, omnis principatus de iure delatus est», ristabilì il diritto. Cristo, poi, istituì Pietro suo successore, e dunque dominus e rex sul mondo intero; titoli che, per via di successione sulla cattedra petrina, si debbono riconoscere anche al pontefice regnante (cap. IV, in partic. nota 36, p. 10). Conseguenza di questa visione è l’affermazione che l’imperatore romano è feudatario della Chiesa universale e che con la famosa donazione, perciò, Costantino non fece che donare (restituire) alla Chiesa il dominum utile (cap. V, nn. 7-8, p. 11). Ne discende, altresì, che il Papa ha giurisdizione temporale anche oltre i confini della ratio peccati; possiede entrambi i gladi, anche se delega quello temporale all’imperatore; può deporre i sovrani; può concedere il regno degli infedeli ad un non cristiano (pars I, capp. XVII-XXV, pp. 33-60).

Ad urtare la suscettibilità della Congregazione per l’Indice fu, forse, altresì, l’affermazione – la quale, come pure avviene in altri casi nell’opera, contraddice quanto affermato in precedenza dall’autore – che l’autorità temporale riceve il proprio potere direttamente da Dio. Questa affermazione si fonda, a giudizio del Marta, sulle parole di Cristo stesso, il quale, considerato che i Romani, del suo tempo «gloriosis virtutibus vivebant», volle «approvare» l’impero, sebbene fosse sorto, come si è detto, illegittimamente (un’approvazione successiva l’impero la ottenne poi con il Constitutum Constantini, di cui il Marta continua ad affermare la validità; pars I, cap. V, nota 6, p. 11). E lo fece con le parole «reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari»; proprio l’uso del verbo reddere rivela che la giurisdizione apparteneva già all’impero, che perciò non l’aveva ricevuta da alcun’altra autorità, ma da Dio stesso (ivi, nota 4, p. 11).

Dal De iurisdictione – e, successivamente, anche dalla Supplicatio, di cui si dirà tra breve – traspare inoltre una visione “medievale” dei rapporti fra autorità religiosa e autorità secolare. Nell’opera si rinviene, in effetti, una delle più tarde affermazioni della validità del Constitutum Constantini (D. Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano, A. Giuffrè, 1964, p. 344). Ciò si affianca alla visione “gelasiana” ed “ecclesiale” del mondo manifestata in più punti dal Marta, ad esempio nel passo in cui sostiene che il Papa e l’imperatore sono i due soli che illuminano il mondo, i due «iudices ordinarii hominum», che con pari dignità guidano la cristianità verso il suo destino di salvezza (Tractatus de iurisdictione, pars I, cap. VIII, nn. 17-18, p. 20).

Tutto ciò rappresentava un’attenuazione degli ideali che avevano supportato il giovanile Tractatus de auctoritate Rotae e i Tractatus de tribunalibus Urbis et eorum praeventionibus (1588), ispirato a principi prettamente ierocratici e curialisti. Fu forse questa evoluzione verso posizioni meno intransigenti, oltre ad altri motivi che forse ci sfuggono – essi potrebbero risiedere anche in qualche contrasto personale maturato in seno alla Curia romana, del quale non è rimasta traccia scritta nelle fonti – a destare i sospetti della Curia e a costarne al Marta il favore.

Resta peraltro, di fatto, nell’opera, un’ambiguità di fondo, spiegabile alla luce degli intenti meramente pratici che probabilmente la animavano: il Marta non intendeva, con essa, produrre un trattato di teoria politica, bensì, come precisa bene il Grendler, offrire semplicemente «a storehouse of distinctions and references which could be used to support either civil or ecclesiastical jurisdiction, depending on the particular dispute or the point of view» (P.F. Grendler, Giacomo Antonio Marta, cit., pp. 795-796).

1611-1621. Padova: docenza nello Studio. Contatti con l’ambiente protestante. Carteggio segreto con Dudley Carleton. La Supplicatio (1613). La questione del titolo dottorale. I Digesta novissima ed altre opere giuridiche.

A Padova, dunque, il Marta giunse nel 1611, dopo la proscrizione decretata contro il De iurisdictione dalla Congregazione per l’Indice. Nello studio padovano, succedendo a Sebastiano Montecchi, egli assunse l’insegnamento, dal 6 ottobre 1611, nella «prima iuris canonici schola ordinaria pomeridiana», come lettore del terzo, quarto e quinto libro delle Decretali, «con stipendio de fiorini 650 all’anno», che nel 1615 aumentarono ad 800 (G. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, pars III, Patavii, Typis Seminarii, 1757, p. 94).

L’incarico gli venne conferito dai riformatori dello studio Nicolò Donà e Agostin Nani e ne dà notizia anche l’epistolario di Galileo Galilei: «habbiamo dua lettori nuovi: uno, nel luogo del Montecchio, detto il Dottor Marta, che altre volte ha letto in Pisa» (Paolo Gualdo a Galileo Galilei, Padova 11 novembre 1611, in Le opere di Galileo Galilei, vol. XI, Edizione Nazionale, Firenze, Barbera, 1934, pp. 230-231).

Marta passò successivamente alla «secunda iuris civilis ordinaria pomeridiana», mantenendo la paga di 800 fiorini, come lettore della prima e seconda parte del Digestum Novum; incarico che proseguì fino alla partenza per Pavia, nel 1622.

Secondo il Facciolati (Fasti Gymnasii Patavini, cit., p. 142) il passaggio alla cattedra civilistica sarebbe avvenuto nel maggio del 1617, ma più attendibili sembrano il Papadopoli (N.C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, Venetiis, apud Sebastianum Coleti, 1726, t. I, lib. III, sect. I, caput XXIX, nota CXXXIX, pp. 268-269) ed un’altra lettera del carteggio di Galileo, dalla quale si apprende che, morto nel 1618 Iacopo Gallo, titolare della cattedra pricipale, si era tentato di chiamare a Padova dalla Francia per sostituirlo, ma senza successo, Giulio Paci Vicentino. Morto, nel frattempo, anche Alessandro Galvani, «concorrente» di Giulio Paci, la cattedra di quest’ultimo era stata data al Marta, «il quale ha poi gagliardamente pretesa quella del Gallo; ma sin hora non gli è venuto fatto di ottenerla» (Fortunio Liceti a Galileo, Venezia, 26 gennaio 1620, in Le opere di Galileo Galilei, vol. XIII, p. 15).

Fin dal 1611, il Marta dovette entrare in contatto, a Padova, con l’ambiente di Paolo Sarpi e di Cesare Cremonini: lo prova la Appendix ad relationem Fulgentianam, redatta in quel periodo e destinata all’ambasciatore inglese a Venezia sir Dudley Carleton, nella quale il Marta svolgeva osservazioni – che si aggiungevano a quelle già formulate sul tema da Fulgenzio Micanzio – circa i nuovi cardinali creati da Paolo V nell’agosto del 1611 (Appendix ad relationem Fulgentianam, agosto 1611, in F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. I, pp. 55-57).

Del Sarpi, inoltre, una missiva del nunzio dice che costui, superata la diffidenza iniziale, «con grande ardore favoriva il Marta» (Nunzio al card. Borghese, 7 settembre 1613, in P. Savio, Il nunzio a Venezia, cit., p. 62). Tracce di questo cambiamento di opinione di Paolo Sarpi a proposito del Marta si leggono anche nelle opere del Sarpi stesso (cfr. G. e L. Cozzi, Paolo Sarpi. Opere, in Id., Storici, politici e moralisti del Seicento, t. I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 627 e 630). Ed il card. Borghese concordava: «essendo il dottor Marta quello che è, non è meraviglia […] che frate Paolo abbia abbracciato con tanto ardore la sua difesa» (card. Borghese al Nunzio, 14 settembre 1613, in P. Savio, Il nunzio a Venezia, cit., p. 62). Quanto poi ai rapporti fra il Marta e Cesare Cremonini, sempre il nunzio scriveva che, nel collegio dei dottori di Padova, quest’ultimo era «il suo [sc. del Marta] più intrinseco» (nunzio al card. Borghese, 20 luglio 1613, in ivi, p. 62).

Dal giugno 1612 al secondo semestre del 1615 il Marta intrattenne, inoltre, una corrispondenza segreta con i dignitari del re d’Inghilterra a Venezia, e particolarmente con l’ambasciatore Carleton, al quale passava notizie relative alla Corte di Roma, dove aveva informatori, venendone stipendiato dalla corte inglese (per la misura degli emolumenti si veda l’epistola del Marta a Giacomo I, s.d., ma non anteriore al 1613, in F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. XXI, e Carleton a Marta, 5 gennaio 1613, ivi, doc. XXII, pp. 83-85). Forse proprio per accreditarsi presso il Carleton, nel 1612 il Marta dichiarava (esagerando un po’) di esser rimasto per trent’anni nella corte pontificia «omniaque iura Sedis Apostolicae in vaticano, existentia percurri, perlegi, eorumque summam penes me retineo» (cfr. Marta a Carleton, s.d., ivi, doc. IV, p. 61).

Come ha spiegato il Cozzi, «lo scopo dell’azione politica comune del Sarpi e del Carleton» – alla quale dava ora il proprio sostegno anche il Marta –  «era di promuovere un’alleanza tra la Repubblica di Venezia, il Duca di Savoia, le Province Unite d’Olanda, l’Inghilterra e l’unione protestante di Halle, in previsione della guerra contro il blocco asburgico-pontificio, che il Sarpi auspicava quale unico mezzo per introdurre l’“Evangelio” – come egli diceva – in Italia. Guida di tale alleanza avrebbe dovuto essere Giacomo I d’Inghilterra, come il più potente dei principi riformati» (Paolo Sarpi, cit., p. 640). Del carteggio tra il Marta e l’ambasciatore inglese Carleton ebbero comunque contezza, fin dal principio, i rappresentanti del governo pontificio a Venezia, grazie anche all’opera di controspionaggio prestata dal sacerdote inglese Tobie Matthew.

Comunicando notizie giuntegli da quest’ultimo, il card. Borghese informava il nunzio a Venezia «che il suddetto dottor Marta ha corrispondenza in questa corte [sc. di Roma], donde è avvisato alla giornata, se bene mostri [sc. il Matthew] di non sapere con chi» (card. Borghese al nunzio, 27 luglio 1614, in P. Savio, Il nunzio a Venezia, cit., p. 63). Un mese più tardi, il nunzio confermava che «il Marta senza dubio ha corrispondenza in Roma, et manda in Inghilterra gli avvisi, che si fa venire» (nunzio al card. Borghese, 23 agosto 1614, ibid.). Il Marta riceveva notizie molto dettagliate da Roma e, a quanto pare, svelò «tali particolarità della corte di Roma, che né da un ribaldo si potriano udire senza rossore» (card. Borghese al nunzio, 26 luglio 1614, ivi, p. 64).

Il carteggio con il Carleton – che, va sottolineato, corse parallelo a quello che anche Paolo Sarpi intrattenne con lo stesso Carleton (agosto 1612-ottobre 1615), e che è stato pubblicato dal Cozzi – si interruppe con la partenza di quest’ultimo da Venezia, nel 1615. Già da qualche mese, però, i rapporti fra i due si erano raffreddati perché, a quanto pare, il Marta aveva cercato di scavalcare il Carleton e di far pervenire direttamente al re d’Inghilterra le notizie sulla corte pontificia «levandone a lui il merito» (nunzio al card. Borghese, 30 agosto 1614, ivi, p. 63).

L’appoggio del Marta alla politica anglosassone non si limitò, peraltro, all’azione diplomatica, bensì si tradusse anche in scritti che si inserirono nella polemica scaturita dal giuramento di fedeltà imposto ai cattolici da re Giacomo I (1606): polemica nella quale lo stesso sovrano era intervenuto con la Triplici nodo, triplex cuneus, e con altri scritti (si veda, anche per il legame di tutta la vicenda con la congiura delle polveri, L. von Pastor, Storia dei papi, cit., pp. 417-476). Il Marta ne sostenne le tesi con la Supplicatio ad Imperatorem, Reges, Principes, super causis generalis concilii convocandi. Contra Paulum Quintum (excudebat Eliot’s Court Press for Bonham Norton, serenissimæ Regiae Maiestatis in Latinis, Graecis, & Hebraicis typographus, Londini, 1513 [i.e. 1613]).

La Supplicatio è stata riedita dal De Paola (Il carteggio, cit., doc. CXXIV, pp. 215-242): a quest’ultima riedizione si farà qui riferimento. L’opera fu tradotta in inglese e pubblicata a Londra con il titolo: The new man or, A supplication from an unknowne person, a Roman Catholike unto Iames, the monarch of Great Brittaine, and from him to the Emperour, kings, and princes of the Christian world. Touching the causes and reasons that will argue a necessity of a generall councell to be forthwith assembled against him that now usurps the papall chaire under the name of Paul the fifth. Wherein are discouvred more of the secret iniquities of that chaire and court, then hitherto their friends feared, or their very adversaries did suspect, translated into English by William Crashaw, according to the latine copy, sent from Rome into England, London, printed by Bernard Alsop, for George Norton, 1622. Ebbe anche una traduzione in francese nel 1613 (cfr. P.F. Grendler, Giacomo Antonio Marta, cit., p. 809) e fu ristampata anche ad Augsburg (cfr. W. Reinhard, Papst Paulus V, cit., p. 209, nota 129). Il Marta stesso affermava che l’opera era stata ristampata ad Heidelberg con il titolo Novus, et Magnus homo per extinctionem sedis apostolicae romanae (Marta a Carleton, 8 agosto 1614, in F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. XCVIII, p. 185). Nel carteggio con il Carleton, il Marta annunciava, inoltre, di aver posto mano ad un secondo libro sull’argomento, l’Apologia per la difesa della religione di S.M. (doc. LXXXI, p. 166).

L’opera si apre con l’implorazione a Giacomo I affinché si convochi un concilio che possa purificare la Chiesa di Roma. Il concilio, si legge, è necessario perché da Sisto V (1585-1590) in poi tutte le elezioni sono illegittime, in quanto quest’ultimo è giunto al pontificato con metodi simoniaci tanto che, di fatto, a giudizio dell’autore, «Ecclesia vero pastore caret, intrusi papatum depraedantur». Il concilio è necessario, altresì, per contrastare la notoria simonia dello stesso pontefice regnante, Paolo V, il quale, inoltre, «turbat statum universalis Ecclesiae non puniendo notoria delicta subditorum, magnatum atque cardinalium». Per queste ragioni, Paolo V, addirittura, «Canis impudicus dicendum est, non Papa».

La convocazione del concilio spettava, secondo il Marta, all’Imperatore, l’unica autorità super partes che potesse arrogarsi il compito di purificare la Chiesa di Roma. Infatti, sebbene – di regola – «ad solum Papam generalis concilii convocatio pertineat» ed eventualmente «post eius requisitionem ac negligentiam ad cardinales», nel caso concreto, in cui si trattava di agire direttamente contro il Pontefice e contro i cardinali creati dallo stesso, tale facoltà non poteva spettare né al primo né ai secondi, che altrimenti sarebbero stati iudices in causa propria, «sed solum Imperatorem illud convocare debere» (Supplicatio, cit., pp. 239-240).

Le ragioni di fondo che giustificavano, secondo il Marta, un diretto intervento dell’imperatore appaiono, ancora una volta, perfettamente in linea con la visione “medievale” dei rapporti tra autorità laica ed autorità religiosa già manifestata nel Tractatus de iurisdictione, pubblicato quattro anni prima: l’imperatore ha il compito fondamentale di «Ecclesiam defendere». Egli, infatti, «totum populum Christianum repraesentat». Se egli non potesse convocare il concilio, «in potestate Papae atque suorum Cardinalium esset, contra quos agendum est, fidem Christianam, statumque universalis Ecclesiae subvertere» (p. 240).

Risuonano, in altri termini, nella Supplicatio – come ha osservato, di recente, il Grendler (Giacomo Antonio Marta, cit., p. 808), al di là del risentimento personale nei confronti della Curia pontificia, che pure si percepisce chiaramente tra le righe – i motivi di fondo delle tesi “conciliariste” suscitate, nel sec. XV, dal Grande Scisma: fu questa visione tradizionale delle questioni politico-ecclesiastiche, che assunse i toni di una vera e propria «nostalgia for the Middle Ages» (ivi, p. 810), unita ad un personale risentimento per la proscrizione del De iurisdictione, a spingere il Marta alla pubblicazione della Supplicatio. Sembra invece da escludere che egli abbia mai coltivato una vera e propria adesione al Protestantesimo, cosa che, tra l’altro, sarebbe stata incompatibile con i rapporti che mantenne con la Compagna di Gesù, attestati fino alla sua morte.

La Supplicatio vide la luce sotto lo pseudonimo di «Novus homo». Ma che dietro di essa si celasse il Marta fu chiaro fin dall’inizio alla diplomazia pontificia in forza di una serie di «gagliardissimi inditii» (P. Savio, Il nunzio a Venezia, cit., pp. 73-74). La stessa diplomazia, tuttavia, non riuscì ad impedire che l’opera circolasse a Venezia, specialmente fra i nobili, canale privilegiato per l’introduzione di libri stranieri nella Serenissima. Potè solo cercare di tamponare la situazione evitando che fosse ristampata dal Ciotto o dal Meietti, noti distributori – specialmente il secondo – di libri proibiti (nunzio al card. Borghese, 10 agosto 1613, ivi, p. 76). Le fonti superstiti dimostrano che la Curia cercò altresì – come fece anche nei riguardi di altri «teologi cattivi» successivamente all’emanazione dell’interdetto veneziano – di attirare il Marta a Roma, con profferte di incentivi e promesse di impunità.

Emblematica, a questo riguardo, è la missiva del card. Borghese al nunzio del 20 luglio 1613 dove si legge che «circa la persona del dr. Marta, vorrebbe S. Santità ridurla qua per degni rispetti, ma è cosa che convien farla con molta desterità, e prudenza per non metterlo in ombre. Non guarderebbe S. Beatitudine a darli la medesima provisione et anco qualche cosa di più di quello ch’ha in Padova. Egli è assai vano, et ambitioso onde non sarebbe gran fatto con metterlo anco in speranza di poter conseguire maggior premi, et honori il persuaderlo a tornar in qua dove fra tanto per chiamarlo si potria pigliare occasione di darle una lettura in canonica, ma è sugetto che come s’è detto ha bisogno di essere trattato con destrezza, et accorgimento grandi» (ivi, p. 64). Addirittura, una trappola gli fu tesa dal nunzio a Colonia, Antonio Albergati, per indurlo a raggiungere la Germania e qui arrestarlo (si è già fatto cenno alla controversia insorta fra il Marta e la famiglia Albergati. Antonio fu nunzio a Colonia dal 26 aprile 1610 al settembre del 1621). Il piano fu però ridimensionato, e ci si propose di eventualmente agguantarlo quando si fosse spontaneamente allontanato dalla città (W. Reinhard, Papst Paulus V, cit., pp. 217-221).

Astutamente, il Marta non si fece persuadere dalle lusinghe della corte pontificia, e non cadde nella rete. Piuttosto, egli mostrò di voler eventualmente trasferirsi nei paesi protestanti della Germania.

Nel giugno del 1614 il card. Borghese rivelava: «S’è scoperto, che questo huomo ha altri mali pensieri, e che se potesse trovar trattenimento appresso a gli heretici di Germania vi anderebbe di gran voglia» (card. Borghese al nunzio, 14 giugno 1614, in P. Savio, Il nunzio a Venezia, cit., pp. 64-65).

Sempre dall’epistolario del nunzio pontificio a Venezia si scopre che, oltre a leggere pubblicamente nello studio patavino, il Marta dava lezioni private «ad un barone tedesco chiamato il Conte di Nault, che si dice essere calvinista» (nunzio al card. Borghese, 15 febbraio 1614, ivi, p. 63).

Nel 1613 il nunzio a Venezia gettava la spugna, scrivendo al card. Borghese: «io non vedo riuscibile d’indurlo da sé a domandare partito in Roma» (nunzio al card. Borghese, 24 agosto 1613, ivi, p. 64); sebbene il carteggio dimostri che i tentativi durarono almeno fino all’ottobre del 1618.

Dal carteggio con il Carleton si ricava che dissidi – ai quali si è già fatto un cenno in precedenza – insorsero anche fra il Marta e i dottori dello studio di Padova sulla questione del titolo dottorale, del quale il Marta era accusato di essere sfornito. A questo proposito, nel maggio 1613 il Marta scriveva al Carleton di considerare risolta la faccenda, perché aveva «avuto le copie delli statuti di questi barbari, e s’è scoverto che non c’è statuto che parli del fatto mio, e che m’obblighi a mostrar privilegio» (Marta a Carleton, 1° maggio 1613, in F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. XLII, p. 112). La vicenda si chiuse definitivamente il 14 agosto 1613, quando il Marta scrisse al Carleton che «questa matina […] il ser.mo collegio nemine discrepante ha imposto perpetuo silentio alli miei avversarii, et ha dichiarato il mio privilegio vero» (Marta ai riformatori di Padova, 1613, ivi, doc. LXV, pp. 144-145). Egli volle lasciar memoria delle vessazioni subite (vere o presunte che fossero), e lo fece in uno scritto che avrebbe dovuto intitolarsi «De defensione mei nominis» (Marta ai riformatori di Padova, s.d., ivi, doc. LXIII, p. 143), ma che invece uscì con il titolo di Persecutio Patavina; ne abbiamo notizia dall’inventario dei suoi beni (cfr. E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 74), ma non sembra che ci sia pervenuto.

Al periodo padovano, ma risultato di una fatica iniziata, come si è detto, molto prima, si colloca la pubblicazione della principale fra le opere giuridiche composte dal Marta, i Digesta novissima.

Il titolo completo è il seguente: Compilatio totius iuris controversi ex omnibus decisionibus universi orbis quae hucusque extant impressae ad instar Digestorum Imperialium nova methodo composita et iccirco Digesta novissima iuris controversi appellata […] In quibus quicquid a Iustiniani compilatione Digestorum usque ad nostra tempora vere iudicatum est [...] id totum in suo ordine collocatum facillime reperiri potest, Venetiis, apud Juntas, 1620. L’opera ebbe diverse riedizioni: Francofurti ad Moenum, sumptibus Rulandiorum, typis Erasmi Kempfferi, 1621; Coloniae Allobrogum, apud Petrum de la Rouiere, 1622; Coloniae Allobrogum, apud HH. Petri de la Rouiere, 1622-1630; Francofurti ad Moenum, sumptibus Joannis Friderici, typis Joannis Gorlini, 1680.

L’opera – che già ai primissimi biografi del Marta apparì come quella più degna di nota fra quelle da lui prodotte (N. Toppi, De origine tribunalium nunc in castro Capuano Fidelissimae Civitatis Neapolis existentium, pars II, Neapoli, typis Io. Francisci Pacii, 1659, caput XV, nota 16, p. 84) e che venne menzionata da Fortunio Liceti nella già citata lettera a Galileo del 26 gennaio 1620 («Si stampano dal Giunti li suoi Digesti Novissimi, opera di molti volumi», in Le opere di Galileo Galilei, vol. XIII, p. 15) – è il frutto di un lavoro avviato, come s’è visto, nel 1588 (lo attesta l’inedito Tractatus de auctoritate Rotae) ed annunciato ufficialmente con l’Epistola qua ordo theatri Curiae Romanae explicatur (1589), che disegnava il piano dell’opera. Fu il Marta stesso a dichiarare, anni dopo, di aver incominciato il lavoro nel 1589 («Ab anno 1589 quo compilatio coepta est», G.A. Marta, Notitia compilationis Digestorum novissimorum ex omnibus tribunalium totius orbis, quae huccusque extant impressae, Venetiis, apud Franciscum de Franciscis, 1611, tit. III, p. 10). Forse essa era già sostanzialmente conclusa quando il Marta si trovava a Pisa (1597-1603), come sembra doversi dedurre dalla pure già menzionata lettera ai riformatori dello studio di Padova del 1613, nella quale egli ne parla come di un’opera già finita nel tempo in cui, appunto, insegnava in quella città (Marta ai Riformatori, s.d., in F. De Paola, Il carteggio, cit., doc. LXIII, pp. 140-141). Senza dubbio lo fu nel 1611, quando il Marta dava alle stampe una Notitia compilationis digestorum novissimorum ex omnibus decisionibus tribunalium totius orbis (Venetiis, apud Franciscum de Franciscis), nella quale affermava (Ad lectores) di avere il lavoro pronto per la pubblicazione, esponendone le linee generali poi destinate a formarne l’ossatura: «Expleta de sapientissimorum hominum consilio, hoc nova Digestorum compilatione […] Si quid igitur boni deliberabitis, impressoribus consulite, iam totum opus, vestrum, gratia paratum est».

Il Marta affermava così di essersi rivolto a diversi editori d’Europa per proporgli di pubblicare i Digesta novissima. Tuttavia, l’impegno finanziario che l’impresa avrebbe comportato aveva richiesto la previa pubblicazione di una Notitia compilationis, nella quale si esponeva lo schema dell’opera, onde su tale schema raccogliere i consensi degli operatori del diritto e così convincere gli editori della convenienza dell’operazione. Lo schema, di fatto, consisteva in una bozza della prefazione poi apposta all’edizione del 1620: i primi tre titoli (De compilatione facienda, De ordine Digestorum, De comparatione Digestorum novissimorum cum antiquis) sono svolti già nella Notitia, ed in essi si insiste sul disordine e sulla complessità del sistema che la nuova compilazione si proponeva di risolvere; degli altri tre (De praeceptis divinis, De iustitia, & iniustitia, De bonitate, & aequitate) viene data solo la rubrica, ed il titolo De praeceptis divinis poi eliminato dal testo definitivo. La Notitia riporta anche un elenco dei «nomina iurisconsultorum» dalle cui sillogi di decisiones erano state tratte quelle comprese nei Digesta novissima. Come si dirà più sotto, a questo elenco risulteranno aggiunti, nell’edizione veneziana del 1620, alcuni nominativi.

I Digesta novissima sono un’opera dedicata a Filippo III di Spagna, importante – come si è detto parlando dell’Epistola del 1589 – per la concezione che la supporta.

Su quest’opera cfr., oltre a I. Birocchi (v. supra), M. Ascheri, I “Grandi Tribunali” d’Ancient Régime e la motivazione della sentenza, in Handbuch Der Quellen und Literatur der Neueren Europaischen Privatrechtsgeschichte, a cura di H. Coing, vol. II/2, München, C.H. Beck, 1976, pp. 1113-1194, ora anche in Id,, Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 91.

Con i Digesta novissima il Marta intendeva offrire un repertorio della giurisprudenza di ben 54 tribunali supremi (14 dei quali stranieri). Alle raccolte menzionate nella Notitia compilationis risultano ora aggiunte sillogi pubblicate nel frattempo, come le Notables et singulières questions de droit écrit di Geraud de Maynard, edite in latinoa Francoforte nel 1610 con il titolo di Decisiones novae Tholosanae; le decisioni della Rota Romana raccolte da Serafino Olivieri Razzali e pubblicate per la prima volta a Roma da Lorenzo Vitali nel 1613-1614 (Aureae decisiones Seraphini Olivarii Razzalii), nonché le più recenti raccolte di Decisiones della Rota Romana.

Il materiale è suddiviso per materia e con fini di riordinamento, sull’esempio del Digesto, ma con una sistematica diversa e ritenuta più funzionale. Peraltro, tale sistematica non rispecchia quella annunciata, a suo tempo, con l’Epistola qua ordo theatri.

I sei tomi in cui è distinta l’opera, raccolti in tre volumi, riguardano la procedura civile (I) e quella criminale (II), i contratti (III), i feudi (IV), le successioni (V), i benefici e le materie spirituali (VI). All’interno di ogni tomo, i titoli sono in ordine alfabetico. Ogni titolo è diviso in capitoli: ciascun capitolo corrisponde ad una decisio, della quale si indica, in calce, la raccolta da cui è tratta.

La storiografia giuridica vede nella Compilatio totius iuris controversi l’esempio di una tendenza, manifestatasi tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, a cercare le soluzioni ai casi dubbi ricorrendo alle decisiones dei tribunali (I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine, cit., p. 271). Con quest’opera dalla gestazione pressoché trentennale, alla quale aveva atteso, pur tra mille traversie, durante tutti gli anni della sua maturità, il Marta toccava forse la vetta più alta di questa tendenza, se non altro per la dimensione “europea” caratterizzante il suo lavoro. Nel fecondo periodo padovano ai Digesta novissima si affiancò il Tractatus de clausulis (1612), altro importante lavoro, dedicato al card. Scipione Borghese, seppure meno originale dei Digesta (Tractatus de clausulis, de quibus in omnibus tribunalibus hucusque disputatum est, cum suis resolutionibus, et decisionibus, atque declarationibus, qui olim per manus curialium manuscriptus circumferebatur, nunc plurimis additionibus, declarationibus, atque ordine copiosior factus a Doctore Marta, Venetiis, apud Iacobum de Franciscis, 1612; ried. Venetiis, apud Iacobum de Franciscis, 1615; Romae, ex typographia Andreae Phaei, 1616; Coloniae Allobrogum, P. e J. Chouet, 1618; Venetiis 1618; Bracciani, typis Andreae Phaei, 1638).

Ancora riconducibili al periodo padovano sono la memoria De li Dottori et lettori che lessero gli anni dal 1611 al 1618 fogli sciolti (Padova, 1620), menzionata nell’inventario dei beni del Marta (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 62), non pervenutaci, nonché gli elogi funebri di Cesare Pepoli che sotto l’intestazione «Giacomo Marta» sono pubblicati in Sinibaldo Biondi, Funebris pompa ill.mi et ex.mi Caesaris Pepuli Marchionis celebrata Bononiae anno 1617 quam ill.mo et r.mo Carli Vendramino Sinibaldus Blondus dat dicatque, Bononiae, per Ioannem Paulum Moscatellum, 1618, attestanti verosimilmente la presenza del Marta a Bologna nel 1617, come membro, a quanto pare, del Collegio dei nobili di quella cittào (la data di edizione si ricava dalla lettera dedicatoria, recante quella del 20 giugno 1618). Nell’opera compaiono, precisamente: In obitu Illustriss. & Excellentissimi Marchionis Caesaris Pepuli. Coniugis querimonia Iacobi Martae ex eodem Collegio (al Collegio dei nobili di Bologna, p. 42); Martis luctus, eodem Auctore (p. 43); Nella morte degl’illustrissimi et eccellentissimi signori, il sig. Pompeo Giustiniani, et il sig. Marchese Cesare Pepoli, del sig. Giacomo Marta (p. 95). Non è indubbio che si tratti del nostro autore, che qui per la prima ed unica volta risulterebbe membro del Collegio dei nobili di Bologna e che, stranamente, verrebbe qualificato – oltre all’omissione del suo secondo nome di battesimo, Antonio – semplicemente «signore», anziché «dottore», come invece avviene generalmente nelle altre sue opere. L’unico indizio – per la verità labile – per escludere che si tratti di un omonimo è il fatto che Cesare Pepoli, bolognese, era fra i condottieri stranieri assoldati da Venezia per la Guerra di Gradisca contro l’Impero Asburgico (inviso, unitamente allo stato pontificio, anche al Marta) negli anni 1615-1617, come emerge, tra l’altro, da molti degli elogi raccolti da Sinibaldo Biondi (compreso il secondo fra quelli di cui è autore «Giacomo Marta»), in cui si loda specialmente questo aspetto della biografia del bolognese (si veda sul punto M.E. Mallet, J.R. Hale, The military organization of a Reinassance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge, Cambridge University Press, 1984, p. 371; e il volume collettivo Venezia non è da guerra. L’Isontino, la società friulana e la Serenissima nella guerra di Gradisca (1615-1617), atti del convegno di Gradisca d’Isonzo, 26-27 ottobre 2007, a cura di M. Gaddi ed A. Zannini, Udine, Forum, 2008).

1622-1625. Insegnamento all’università di Pavia. Altre opere giuridiche

Lasciata Padova dopo la morte del suo grande avversario, Paolo V (28 gennaio 1621), dal 1622 al 1625 il Marta fu all’università di Pavia, chiamatovi dal Senato di Milano come titolare della prima cattedra pomeridiana di diritto civile (Gian Domenico Verasio a Ottavio Pecorelli, segr. del Duca di Mantova, 1° giugno 1625, in E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., pp. 65-67). Lo stesso Marta riferisce di essere stato chiamato a Pavia nell’ottobre del 1621 «ad primam cathedram iuris civilis de sero regendam» (Summa totius successionis legalis, in fine della III parte) per lo stipendio annuo di 4800 lire milanesi. Dall’insegnamento pavese discendono le Praelectiones Papienses super l. qui Romae § duo fratres, D. de verborum obligationibus (Papiae, apud Io. Baptistam Rubeum, 1622).

Una copia di queste «lezioni stampate» venne spedita da Gian Domenico Verasio al Segretario del Duca di Mantova, Ottavio Pecorelli (v. supra, Gian Domenico Verasio ad Ottavio Pecorelli, 1° giugno 1625, p. 66).

Al periodo dell’insegnamento nello studio pavese si ascrive poi la pubblicazione della Summa totius successionis legalis quatuor partibus complexa (Lugduni, sumptibus Jacobi Cardon et Petri Cauellat, 1623-1627), dedicata a Carlo Tapia, Marchese di Belmonte (ried. Venetiis, apud Bertanos, 1666 e poi anche 1680-1681). L’opera era già pronta in precedenza e va sostanzialmente assegnata al periodo trascorso a Padova: il 7 ottobre 1621 – giorno in cui ricevette la convocazione dal Senato di Milano – il Marta dichiarava di averne già completato le prime tre parti, costituenti il tomo I, e di apprestarsi ad una revisione della quarta parte (che perciò era già sostanzialmente conclusa), destinata a formare il tomo II, prevedendone la pubblicazione per il 1622 (Summa totius successionis legalis, in fine della parte III).

1625-1629. L’insegnamento a Mantova. Le ultime opere e la morte

Il Marta si spostò nel 1625 all’Università di Mantova, chiamato «ad erigendum, et ordinandum novum studium universitatis in hac civitate» (Consilia, cons. 167, nota 1, f. 253v) sotto il governo del duca Ferdinando Gonzaga, e dietro l’impulso dei Gesuiti (P.F. Grendler, The University of Mantua, cit.). L’antica storiografia locale ci attesta che il Marta, d’accordo con l’Ordine, dette un contributo decisivo nella edificazione dello Studio (secondo G. Gorzoni, Istoria, cit., p. 146, egli «diè come prima ruota il moto et il corso a tutta la gran machina dello studio»); dato quest’ultimo confermato dalle ricerche del Grendler, secondo cui il Marta fu, nell’ateneo mantovano, «the leading law professor», e «the star professor of civil law» (P.F. Grendler, The University of Mantua, cit., Preface e chap. 4).

Le trattative per il passaggio a questa università risalgono però già al 1621 (agli anni, cioè, della «persecutio Patavina») e sono da porre in connessione con essa (Marta al Duca Ferdinando I, 1° gennaio 1621, in E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 64). Proseguiti i contatti, nel giugno 1625 il Marta si mostrava disponibile ad impegnarsi, a Mantova, «nel primo lavoro d’ordinario in civili della sera», per lo stipendio «di scutti mille da libre sei di Milano l’uno»; e sollecitava una rapida definizione del rapporto, «volendo in tal caso essere a Mantova fra agosto e settembre». Proponeva poi di stampare una specie di ordine degli studi («un libretto concernente li privilegii, gratie et favori che doverà havere il studio et scolari, col nome de lettori che haveranno da leggere»), da pubblicarsi nel mese di agosto, «acciò si sappia che il studio s’aprirà a 1° novembre prossimo» (Gian Domenico Verasio ad Ottavio Pecorelli, 1° giugno 1625, ivi, pp. 65-67): è, questo, il Sommarium privilegiorum Gymnasii Mantuani (Mantuae, 1625), annotato nell’inventario dei suoi beni (p. 62), ma del quale non si hanno più notizie.

Dalla stessa lettera conosciamo le riforme che il Marta suggeriva di apportare per la riorganizzazione dello Studio: «In oltre dice per mantenere il studio con decoro, doversi erigere dei Collegi, et si troverà modo di fargli con puocha spesa di S. A. alla forma del Collegio Ferdinando di Pisa. Fa anche bisogno un altro Collegio d’Alamanni che fiorirà in Mantova, stando la parentela ch’ha S.A. con la Maestà Cesarea et questo si farà senza spesa della med.ma Alt.za poiché tal natione riceverà solo la comodità dell’habitatione, apresso della quale doverà essere un’hosteria, poiché li scolari Alamanni sogliono pagare ogni cosa» (ibid.).

L’affare si concluse rapidamente. Il Marta comunicava, nel mese di luglio, che «passato il giorno della Madonna d’Agosto» si sarebbe messo in viaggio per Mantova. Nel frattempo, avrebbe avviato il lavoro per «la consulta per li collegi erigendi et per provvedere alla mercede de’ lettori senza incomodo della Camera Ducale et per il concorso de’ scolari che si possa desiderare» (G.A. Marta ad Ottavio Pecorelli, 28 luglio 1625, ivi, pp. 67-68). A Mantova, il 5 novembre 1625, in San Pietro, il Marta tenne l’orazione inaugurale del nuovo studio affidato ai Gesuiti; la stessa venne poi data alle stampe con il titolo di De Academiae mantuanae institutione et praestantia, oratio habita Mantuae in cathedrali ecclesia, die V. novembris 1625, a doctore Marta (Mantova, typis A. et L. Osannae fratrum, 1626). Al suo impegno nello studio mantovano si connettono, altresì, gli opuscoli De li Dottori et lettori che lessero gli anni 1625 al 1627 in Mantova e Delle lettioni che si leggono ne’ studi (1628), entrambi menzionati nell’inventario dei suoi beni (p. 62), ma, a quanto pare, andati perduti. Al periodo mantovano è da ascrivere, infine, l’ultima opera giuridica pubblicata dal Marta, cioè la raccolta di Consilia (Augustae Taurinorum, apud HH. Io. Dominici Tarini, 1628).

Non risulta che i Consilia abbiano avuto altre edizioni. In apertura dell’opera si trova: Praefatio super methodo respondendi, et allegandi de jure ad Julium Camillum Martam U.J.D., nipote del Marta, al quale la raccolta di Consilia è dedicata.

Secondo il Giustiniani (Memorie istoriche, cit., vol., II, p. 235), il soggiorno mantovano sarebbe stato inframmezzato da un periodo trascorso ad Avignone, ma mancano particolari sul punto. Nel 1627 il Marta era, comunque, di nuovo a Mantova, dove, nella contesa per la successione al ducato, dopo la morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga nel dicembre di quell’anno, prese le parti – secondo quanto ci hanno trasmesso gli antichi storici mantovani (L.C. Volta, Compendio cronologico-critico della storia di Mantova, dalla sua fondazione sino ai nostri tempi, Mantova, dalla tipografia di Francesco Agazzi nel palazzo dell’Accademia, 1807-1838, t. IV [1833], pp. 58 e 68) – di Ferrante II Gonzaga, duca di Guastalla. Questo gli costò, una volta conclusasi la successione con l’insediamento di Carlo Gonzaga duca di Nevers, la prigione, nella quale il Marta venne rinchiuso nell’aprile del 1628 e nella quale morì, il 22 settembre 1629 (il certificato di morte è stato pubblicato da E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., p. 56. Cfr. anche L.C. Volta, Compendio, cit., p. 68, nonché G. Gorzoni, Istoria, cit., p. 161). Venne sepolto nella chiesa dei Gesuiti di Mantova, sotto il gradino dell’altare di S. Ignazio.

Con il testamento del 27 maggio 1628, egli lasciava – non avendo eredi (dichiarava egli stesso, tra l’altro, di non aver mai preso moglie) – tutte le sue sostanze alla Compagnia di Gesù, anche se ben presto si scoprì essere la sua «una eredità immaginaria», che comportò per la Compagnia «per anni et anni disturbi e poi disturbi» (G. Gorzoni, Istoria, cit., pp. 161-163).

Di un qualche pregio dovevano essere però i libri contenuti nella biblioteca del Marta, perché con il ricavato della vendita in blocco di essa, nel 1652, si misero a tacere i creditori che ancora vantavano pretese circa la «sicurtà» pagata, a suo tempo, a Fabio Albergati. Al Marta, comunque, l’Ordine rimase grato «per altri aiuti datigli, mentre fu vivo, d’allegationi, consigli et indirizzzi legali» (ivi, p. 163).

Dal testamento si deduce anche che, forse, lasciò alcuni lavori incompiuti o comunque inediti. Nel testamento si legge, infatti: «Prego li M.R. Padri a custodir la mia libreria et non permettere che delle mie scritture che trovassero imperfette si stampi alcun mio libro postumo, perché io desidero che nessun libro che non ho stampato in vita sia stampato dopo morte» (E. Paglia, Il dottor Jacopo Antonio Marta, cit., pp. 58-59).

Una di queste opere rimaste inedite è il menzionato Tractatus de auctoritate Rotae, il cui unico esemplare superstite è conservato oggi, come si è detto, nella Robbins Collection della University of Berkeley. Si tenga presente, inoltre, che in molti cataloghi le opere del nostro autore compaiono, erroneamente, sotto il nome di Orazio Marta, poeta napoletano vissuto a cavallo dei secc. XVI e XVII. Già il Giustinani avvertiva che «per aver taciuto il nostro autore il suo nome in tutte le sue produzioni, e restar contento di apporre a ciascuna: opera del Dottor Marta, fu perciò confuso dal Toppi con Orazio Marta […] attribuendogli alcune poche opere del nostro giureconsulto» (L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol. II, p. 238).

Note

* Riproduco qui, con il permesso dell’editore e con alcune varianti ed aggiunte, il mio articolo: Un giurista nel “secolo di ferro”: Giacomo Antonio Marta (1559-1629), apparso nella «Rivista di storia del diritto italiano», 81, 2008, pp. 301-239.

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Per le fonti fonti primarie utilizzate si fa rinvio al testo.

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