di Daniele G.A. Rosselli

ca. 1480

«Proprio alle soglie del secolo XVI ci si fa incontro una personalità di pensatore, senza dubbio alcuno, vigorosa e robusta, alla quale fu riservato quel destino poco invidiabile, cui si accennava sopra, e cioè la dimenticanza quasi totale: questi è appunto Tiberio Rosselli. Dove e quando è nato costui? Dove e quando è morto? Sono domande queste, per quel che ne sappiamo, destinate a rimanere senza risposta» (L. De Franco, Filosofia e Scienza in Calabria nei secoli XVI e XVII, Cosenza, Edizioni Periferia, 1988, p. 9).

Tiberio Rosselli (alla latina, anche conosciuto come Tiberius Russilianus Sextus Calaber), nasce a Gimigliano probabilmente attorno a questa data. Le notizie sulla sua nascita sono incerte.

Di lui scrive così Luigi Accattatis nel suo libro: «far dobbiamo onorevole menzione di Tiberio Rosselli da Gimigliano, letterato insigne del suo tempo e filosofo di grido, Cattedratico in Napoli ed in Salerno; il quale, a dir del Barrio, partitosi pel genio di visitare l’Africa, fu ucciso dal proprio schiavo. Egli era della famiglia di cui è stata la madre del celeberrimo Giuseppe Scorza, matematico distintissimo, istruttore, autore di merito, ed illustratore della scienza per metodi ed invenzioni, morto non ha guari in Napoli» (L. Accattatis, Le Biografie degli uomini illustri delle Calabrie, vol. 1, Cosenza, Tipografia Municipale, 1869, p. 136) E ancora l’Accattatis, parlando di Annibale Rosselli: «[…] Tiberio Rosselli, congiunto di frate Annibale (Rosselli), e discepolo del celebre Agostino Nifo; e che per la sua dottrina fu prescelto a leggere filosofia per più anni nell’università di Salerno» (ibid.; cfr. anche D.G.A. Rosselli, R. Trapasso, Rosselli di Gimigliano. Dalle origini a noi, Ascoli Piceno, Sigismundus Editrice, 2014, p. 102).

1507

Agostino Nifo va ad insegnare per la prima volta a Salerno e Tiberio Rosselli è un suo discepolo. Questa prima notizia sicura su Tiberio viene riferita dal Nifo, che lo menziona nel suo De viro aulico, che è uno degli Opuscula Moralia et Politica, pubblicati per la prima volta nel 1534: «Essendo nella nostra scuola un nostro alunno di nome Tiberio e di cognome Russiliano, questi per prontezza d’ingegno, quando disputava, veniva facilmente alle mani; per questo io deformando il nome, lo chiamavo Turberio» (A. Niphi De viro aulico, liber I, cap. 59, in Id., Opuscula Moralia et politica, Paris, Sumptibus Roleti Le Duc, 1645, p. 345).

Questa notizia su Tiberio Rosselli ce lo presenta già in quella che sarà la caratteristica costante della sua vita, di essere cioè un amante della disputa e della lotta. Tiberio parlando di sé stesso afferma di essere stato rettore dell’Università di Napoli, carica che non corrispondeva affatto a quella odierna e neanche a quella che valeva nei primi tempi dell’Università; nel periodo spagnolo «il Rector era uno studente, coadiutore del Cappellano Maggiore» (R. Filangeri di Candida, L’età aragonese, in Storia dell’Università di Napoli, a cura di F. Torraca, Napoli, Ricciardi, 1924, p. 168).

ca. 1513

In un passo dei suoi Universalia Porphiriana, una delle due sue opere che ci sono pervenute, Tiberio ricorda come, ritornato dopo diciotto anni di studi nel suo paese, di cui non fa il nome, non conoscesse quasi più nessuno né vi fosse più riconosciuto: «come anche a noi capitò, allorché ritornammo in patria dagli studi delle buone lettere, nei quali in diverse scuole e discipline trascorremmo diciotto anni, non v’era nessuno, per bacco, in patria che noi conoscessimo o da cui fossimo riconosciuti» (Tiberio Russiliano Sexto Calabro Interprete et espositore, Universalia Porphiriana ad illustrissimum et Reverendissimum D. Henricum Cardonam Montis Regalis antistitem et totius Trinacrie presidem, Palermo, 1526, f. xxxii).

1514

Dall’Apologeticus (P. Zambelli, Una reincarnazione di Pico ai tempi di Pomponazzi, Milano, Il Polifilo, 1994, p. 20) apprendiamo che in questo anno è in patria, nel feudo di Soriano Calabro che comprendeva la sua natia Gimigliano; qui Russilliano è filosofante ed astrologo al servizio del «communem litteratorum patronum et mecenatem» il feudatario locale Tiberio Carafa di Nocera (conte di Soriano, † 1527), fu il primo duca della città di Nocera de’ Pagani) ed aveva calcolato la genitura di una neonata del conte, predicendone con esattezza la morte entro due mesi. Il Carafa l’aveva cercato come medico quando la bimba stava morendo, ma Tiberio aveva risposto per lettera: «caelorum ordines nos immutare posse minime»; il conte, più sensibile alla precisione astrologica che alla pietà paterna, l’aveva premiato procurandogli vesti e raccomandazioni adatte per uno che si recava a Napoli aspirando all’ufficio di rettore.

1515

Giunto a Napoli in Gennaio, per incarico del Carafa preparò un oroscopo di Ferdinando il Cattolico 1 indovinandone il giorno letale con un anno esatto di anticipo (Ferdinando morì il 6 gennaio 1516). Doveva dilettarsi di inondare Napoli con le sue nefaste previsioni: egli stesso vanta quella nefasta del naufragio della flotta spagnola guidata da Ugo de Moncada 2 alla volta dell’Africa nel 1519.

1516-1519

Tiberio è a Fontanellato in questi anni; è qui che Girolamo Sanvitale, conte di Fontanellato, Noceto, Belforte e Sala Baganzafinanzia la stampa dell’Apologeticus adversos cucullatos.

Fontanellato in quel periodo è un centro culturale ed artistico. È una corte formata da giovani, dove l’entusiasmo e la curiosità intellettuale si mescolano con sogni d’avventura e con forti spinte al rinnovamento interiore e morale. Ne fanno parte Gian Ludovico, fratello di Galeazzo, che torna a Fontanellato per riposarsi dai suoi studi a Pavia e il coetaneo Girolamo Sanvitale di Sala Baganza, figlio di Nicolò e di Beatrice da Correggio, detta “Mamma”, titolo con il quale è ricordata anche dall’Ariosto. Questa famiglia, alla quale Galeazzo sarà legatissimo per decenni e della quale condivide la fede politica, sarà riferimento per pensatori inquieti come Pietro Pomponazzi (1462-1525), noto anche col soprannome di Peretto Mantovano. In questo contesto, Girolamo Sanvitale protegge Tiberio Rosselli. Questi si addottora: lo attestano sia il titolo di Magister, che gli viene dato nei documenti ufficiali e sia il fatto che, come si vedrà, egli aspirerà alla cattedra di filosofia nell’università di Pisa.

Per conseguire il titolo di Magister che Tiberio Rosselli inizia la sua vita errabonda per le diverse regioni d’Italia; ed insieme al titolo egli va in cerca anche di una cattedra. Arrivato a Bologna, che egli indica come la città che«nell’insegnamento fa le veci di Atene, essendo il capitale ed il vivaio delle buone arti» (Tiberio Russiliano Sexto Calabro Apologeticus adversos cucullatos, Parma, 1520, p. 1), pensa bene di farsi conoscere con il proporre una pubblica disputa.

A questo scopo Tiberio prepara 400 questioni, che riguardavano tutto lo scibile del tempo. Gabriel Naudé (1600-1653) è colui al quale forse dobbiamo il merito di averci conservato, oltre ad un ricordo alquanto particolareggiato di Tiberio, anche un esemplare dell’altra sua opera pervenutaci, l’Apologeticus, dice di esse che «erano tratte da quasi ogni genere di scienza” (G. Naudé, De Agustino Nipho iudicium, in A. Niphi, Opuscula Moralia et Politica, Paris, Sumptibus Roleti Le Duc, 1645, f. 40 nn.). Tiberio stesso le definisce «un mezzo con cui salutare qualunque tipo di studioso», e cioè riguardante ogni specie di disciplina.

Le quattrocento questioni oltre che contenere la difesa del suo maestro, Agostino Nifo. La demolizione delle tesi che Giovanni Pico della Mirandola aveva esposto nei dodici libri delle sue Disputationes adversus astrologos e la difesa della concordanza tra Platone ed Aristotele, così come, secondo lui, avevano sostenuto Simplicio in una prospettiva neoplatonica. Le sue questioni riguardavano anche tutto un nuovo campo di discussioni, che Tiberio così presenta: «e perché non apparissimo sapienti solo in base ai libri degli altri ed all’acume degli antichi, noi abbiamo portato a discutere nuove tesi, che sono state escogitate dalla nostra operosità, qualunque essa sia, inserite nelle questioni metafisiche, naturali e dialettiche, lontane certamente da ogni comune via, mai prima recitate nelle scuole, ma tratte fuori dai più segreti penetrali della metafisica, della scienza naturale e della dialettica, senza risparmiare nessuno degli autori antichi o nuovi, ma discorrenti a nostro piacimento per il campo delle scienze» (T. Rosselli, Apologeticus Adversos Cucullatos, Parma, 1519, p. 1, conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, coll. 16 PIII 83).

Se, come si diceva, non nuova né eccezionale era la proposta di una pubblica disputa, non usuali e non comuni dovevano essere molte delle tesi: Tiberio intendeva discutere e sostenerle e da qui la durissima opposizione degli ambienti ecclesiastici e quindi anche dei monaci, dei “cucullati”, com’egli li designa, che riescono a vietarne la pubblicazione facendole giudicare eretiche. Tiberio a tal proposito dice: «ecco che nasce un grandissimo rumore tra i frati; essi impedirono la loro pubblicazione affermando che in esse c’erano molte conclusioni che puzzavano d’eresia» (ibid.).

Tiberio riesce a mettere a tacere queste voci, spiegando il significato cattolico di quelle tesi, ed ottiene il permesso di pubblicarle. Dopo averle messe a stampa, secondo l’usanza del tempo, le fa affiggere nei luoghi pubblici, e perciò anche nelle chiese, fissando la data della disputa. Nel frattempo, si reca da Bologna a Ferrara «a baciare la mano della regina», che si ipotizza sia Lucrezia Borgia, moglie in terze nozze del Duca Alfonso I D’Este; non siamo a conoscenza delle ragioni per le quali vada ad ossequiarla.

Quando ancora si trova a Ferrara, riceve delle lettere di amici, con cui lo avvisavano che la pubblicazione delle sue tesi aveva sollevato di nuovo in Bologna durissime polemiche, non più limitate ai circoli ecclesiastici e scolastici. È tutto un coro di invettive contro di lui; molte scuole filosofiche si scagliano contro questo giovane sconosciuto, reo di essere diffusore di idee eterodosse. Per tale motivo si tenta di far decretare contro Tiberio la scomunica; in suo aiuto viene il maestro Geronimo Gaza, un teologo seguace di Duns Scoto che si oppone alla scomunica. Tiberio, non appena ricevuta notizia di questo rischio, corre da Ferrara a Bologna con la speranza di mettere tutto a tacere, così come gli era riuscito la prima volta; le cose purtroppo vanno in maniera diversa da come egli aveva auspicato. Non gli è permesso di trattare con coloro che gli avevano concesso il permesso di pubblicazione, in quanto dell’affare si occupano persone più altolocate. I suoi avversari, benché tra di loro siano in discordia sulle ragioni del rifiuto al permesso alla pubblica disputa, sono unanimemente concordi nel negare tale autorizzazione e nel redarguire fortemente coloro che prima l’avevano concessa. Questi ultimi, per difendersi, tentano di discolparsi con l’asserire di aver ritenuto le quattrocento tesi di Tiberio comuni e banali e che perciò non le avevano ben analizzate. Queste affermazioni suscitano l’ira e lo sdegno di Tiberio, che a tal proposito formula questo amaro commento: «come se fosse possibile e conveniente che uno nato in terra straniera e che dalle estreme regioni della Magna Grecia, desiderosissimo, come dicevano, di lode venuto a Bologna soltanto per disputare e per chiedere il magistero negli studi, avesse potuto offrire a discutere delle conclusioni banali!» (ivi, p. 2).

Tiberio si reca pertanto dal signore della città per riuscire ad ottenere il permesso della disputa; il suo tentativo, però, risulta vano, e i monaci, i suoi avversari più decisi, vanno dicendo che egli è un “eresiarca”, cioè un capo di eretici e non un eretico qualsiasi.

Passano così inutilmente dei mesi, sino a quando Tiberio non apprende che a Firenze è arrivato Giulio De’ Medici, il cardinale legato di Bologna. Appena ricevuta questa notizia, si affretta a richiedere udienza al cardinale; quest’ultimo doveva essere molto probabilmente un suo protettore 3, essendosi impegnato nel raccomandarlo alle autorità civili e religiose; tanto è vero che, sia pur dopo alcune traversie, Tiberio riesce ad ottenere il permesso di discutere le sue tesi.

È il 13 giugno 1519, due giorni dopo la domenica di Pentecoste, nel monastero di Santa Maria degli Angeli a Firenze Tiberio poté finalmente discutere le sue conclusioni. Egli ci riferisce sullo stato di timore e di paura in cui si trova al cospetto di quell’assemblea, costituita da teologi, rappresentanti dei diversi ordini monastici, e da espertissimi filosofi: «disputammo non solo per la difesa del nostro onore e a dimostrazione del nostro ingegno, ma anche in difesa della nostra stessa vita, in quanto ognuno di costoro insorse contro di noi con gli atrocissimi aculei dei suoi sillogismi e unendosi insieme con gli altri per poterci mandare al rogo» (ivi, p. 3).

Tiberio riferisce di essere riuscito a dimostrare che tutte le sue conclusioni «erano spoglie e purgate da ogni macchia e sospetto di eresia»; in realtà egli fu costretto ad abiurare e a promettere solennemente che non avrebbe mai più tentato di sostenere simili conclusioni. Un documento di abiura che lo riguarda, sottoscritto dal vicario del cardinal legato, Giulio De’ Medici, e dall’inquisitore fiorentino, afferma che«le conclusioni, con voto unanime di tutti i teologi, furono ritenute eretiche, scandalose ed empie, sebbene lo stesso maestro Tiberio, con alcune glosse cavate a stento si sforzasse di ridurle ad un significato cattolico» (G. Armellini, Jesus vincit. Pernecessarium opus contra Tiberianicum Apologeticum, impressum Faventiae, sub anno Domini 1525, p. xliii).

Tiberio viene così assolto dal sospetto di eresia (ab haeresis suspitione)  a condizione però che non avesse mai più pubblicato né disputato né messe fuori in qualche modo le predette tesi; egli stesso«figlio dell’obbedienza, con le mani sulle sacre scritture, giurò che non avrebbe mai tirato fuori le predette conclusioni o altre simili, scandalose o puzzanti di eresia, ma che in tutto si sottometteva al giudizio di Santa Madre Chiesa» (ibid.).

Rientrato a Bologna con delle lettere di Giulio De’ Medici, Tiberio, dimentico dell’impegno preso a Firenze, cerca di ottenere ancora il permesso di discutere a Bologna le sue tesi; egli si comporta come se a Firenze non avesse pronunziato affatto l’abiura. E poiché non riesce ad ottenere il permesso, egli tenta l’ultima, estrema mossa, con la quale spera di convincere i suoi avversari, quella cioè di abbandonare le sue conclusioni e di dichiararsi pronto a rispondere ad ogni quesito. L’offerta, proprio perché così ardita, fa aumentare la diffidenza contro di lui; una nuova assemblea nega il permesso, perché, si sostiene, egli avrebbe potuto racchiudere le sue conclusioni nelle risposte che avrebbe dato; da Bologna, Tiberio è costretto ad andare via; con un ampio giro le cui ragioni sono poco note, dopo essere sbarcato nel golfo del Quarnaro, attraversa l’Istria, evitando di passare per Venezia. Arriva a Padova, dove, a quel che egli dice: «era aspettato da tutti con un desiderio grandissimo». Qui Tiberio celebra il suo trionfo: ovviamente non mancano gli avversari tra i quali i monaci che tentano di accusarlo di eresia presso il senato di Venezia. Ma non siamo più a Bologna, e l’accusa riesce solo a far accrescere l’aspettativa di tutti. Per molti giorni di fila, pubblicamente dalla cattedra, Tiberio disputa «davanti ad una folla di espertissimi dottori, sia teologi e sia filosofi e sia medici, nonché di astrologi e di dialettici e con un concorso enorme di scolari e di altri uomini e di patrizi» (T. Rosselli, Apologeticus Adversos Cucullatos, cit., p. 3).

La discussione andò così bene da sentirsi finalmente appagato nelle sue aspettative; e soggiunge: «come io mi sia comportato in queste dispute lo possono attestare le terre di Antenore (Padova) e l’intera Euganea, e lo lascio giudicare agli altri; e questo soltanto non voglio tacere, che cioè lì era data la possibilità di vedere come sia i dottori che gli scolari guardassero di traverso quei monaci variopinti che a Bologna, Firenze e Venezia avevano imprudentemente accusato di eresia le mie conclusioni» (ibid.).

In realtà, i fatti, molto probabilmente, non andarono esattamente come descritti da Tiberio.

1520

Subito dopo questa disputa, «profugo dalle varie scuole d’Italia», come ce lo caratterizza il suo acerrimo avversario, il domenicano Girolamo Armellini, al tempo inquisitore della Lombardia, Tiberio si recò a Parma, dove riuscì a far stampare e a pubblicare un libro, che era venuto componendo nel frattempo. Il libro come si legge nel frontespizio, doveva contenere questi quattro scritti: 1) Apologeticus adversus cucullatos in quatrigentas quaestiones disputatas (Difesa della 400 questioni disputate contro i monaci); 2) Philosophiae Declamatio ad Leonem X Ponteficem Maximum (Declamazione della filosofia al Pontefice Massimo Leone X); 3) Oratio habita Patavii in principio suarum disputationum cum suis disputatis quaestionibus (Discorso tenuto a Padova all’inizio della disputa assieme alle sue questioni disputate); 4) De propositione de inesse secundum Aristotelis mentem libellus (Libro sulla proposizione riguardante l’inerenza secondo la teoria aristotelica).

I due unici esemplari dell’opera di cui si è a conoscenza, conservati alla Bibliothèque Mazarine di Parigi e presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, contengono solo i primi due scritti; mancano il terzo e il quarto. Che questo quarto fosse stato già composto e che consistesse di almeno due libri, lo si può intuire da due riferimenti che lo stesso Tiberio fa nell’altra sua opera pervenutaci, gli Universalia Porphiriana, dove si citano passi di un primo e di un secondo libro.

Il testo dell’Apologeticus adversos cucullatos stampato nello stesso anno viene subito condannato e l’autore additato come eretico. L’esemplare parigino reca sul frontespizio un breve “Ad librum Carmen”, composto da due distici elegiaci; mentre nell’ultimo foglio sotto il colofone presenta la seguente annotazione a mano: “Parmae MDXX”, e cioè il luogo e la data della stampa. Che il libro sia stato stampato a Parma viene confermato da Girolamo Armellini, il quale, nel suo libro, intitolato Jesus vincit 4, scritto contro l’Apologeticus, ci fornisce queste notizie: la prefazione dell’Apologeticus consiste in una storia delle vicende che portano alla sua composizione ed è dedicata al vescovo di Lodi, Ottaviano Sforza 5, figlio naturale di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. Alla fine del testo del filosofo gimiglianese si legge una Peroratio che non è più rivolta allo Sforza ma al conte di Belforte, Girolamo San Vitale di Parma, che è il mecenate del libro come già accennato in precedenza. Dopo questa Peroratio si legge la Declamatio ed infine sei brevi componimenti poetici in lode all’autore e il suggello finale: «Tiberii Russiliani Sexti Calabri Apologetici Finis ad laudem Individuae Trinitatis».

Per salvarsi dall’Inquisizione, Tiberio si rifugia a Sala Baganza, se non nella stessa Fontanellato.

1523

Viene arrestato a Firenze da cui fugge, intercettato in seguito dall’Armellini a Pisa. Ecco cosa scrive l’inquisitore sul suo Jesus vincit: «[...] dopo l’abiura sotto riportata, temendo tutti i luoghi sicuri, profugo delle varie scuole d’Italia, si portò a Parma […] ivi di nascosto stampò l’opera sua velenosa; scoperto il suo inganno da me inquisitore, (come richiedeva il diritto) viene chiamato in giudizio, coperto dallo scudo della contumacia; viene condannato all’anatema, vengono requisiti i volumi stampati, vengono interdetti e bruciati. Dopo che in seguito  venne scoperto fuggiasco a Pisa, e, cosa veramente impudente, nel mentre andava in cerca di una cattedra di filosofia, per mezzo della quale potesse infettare i giovani col veleno della sua perfidia, con la forza e l’aiuto dell’allora reverendissimo Cardinale De’ Medici ed ora Papa Clemente VII condannammo che fosse arrestato e che in tale posizione fosse rinchiuso nelle carceri di Firenze; da queste carceri tuttavia col favore di alcuni scappò libero prima che gli fosse fatto il processo» (G. Armellini, Jesus vincit. Pernecessarium opus contra Tiberianicum Apologeticum, cit., p. xlvii). Tiberio riesce a fuggire e a salvarsi da una sicura condanna per eresia. Con la fuga dalle carceri di Firenze, egli decide di allontanarsi definitivamente dal Centro-Nord Italia, rifugiandosi nel Regno di Napoli.

 

1526

A Palermo pubblica l’altra sua opera, frutto della sua attività d’insegnante (i già citati Universalia Porphiriana), cioè una traduzione e un commento dell’Isagoge di Porfirio 6.

Tiberio dedica l’opera a Don Enrico de Cardona vescovo di Monreale dal 1512  al 1530 e vicerè di Sicilia. Gli epigrammi elogiativi che si leggono prima e dopo lo scritto, opera di alcuni suoi alunni di Messina, potrebbero anche far supporre che Tiberio possa aver insegnato lì.

1527

Che dopo la stampa del libro Tiberio sia rimasto ancora in Sicilia potrebbe forse attestarlo la notizia di un avvenimento disastroso, accaduto a Palermo, il 19 maggio, di cui si parla in uno scritto che gli potrebbe appartenere e che, se veramente suo, potrebbe essere l’unico inedito di suo pugno conservatosi fino ad oggi. Questo costituirebbe la prova della sua permanenza in Italia fino a questo anno. In un volume conservato presso la Biblioteca Civica di Cosenza (segnalato opportunamente da L. De Franco, Filosofia e Scienza in Calabria nei secoli XVI e XVII, Cosenza, Edizioni Periferia, 1988, p. 18), contenente alcuni scritti del Pomponazzi, con rilegato anche un opuscolo del Nifo contro il De Immortalitate Animae, del Peretto, nelle due carte bianche  precedenti il frontespizio si può leggere, vergato con una grafia molto ricercata e ricca di fronzoli, un breve scritto dal seguente titolo Casus novus et nunquam aliis visus infortuniorum (Un caso nuovo e mai visto d’infortunio). Nelle due carte dello stesso volume si legge la minuta dello stesso con cancellature ed anche con qualche variante rispetto al testo in bella copia; sotto questa e non sotto la minuta, si legge la seguente firma nella stessa grafia: «Tiberius S.C.» (interpretabile come Tiberius Sextus Calaber). Se l’interpretazione è giusta, questi due fogli costituirebbero un ben raro documento riguardante Tiberio, anche se il contenuto dello scritto non è importante: parla del crollo di un salone pieno di convitati in occasione delle nozze tra Isabella Moncada-Bracchia e Giovanni Ventimiglia-Moncada.

Ci sentiamo di ipotizzare che Tiberio si rifugiò in Sicilia e nello specifico a Palermo, dopo la sua fuga dal Nord Italia, in quanto lì è presente un importante nucleo dei Rosselli, legati da vincolo di parentela con il ramo gimiglianese. I Rosselli di Gimigliano discendono dal ramo inglese dei Rosselli che nel XV secolo si insediò nel regno delle due Sicilie tra Napoli e Palermo. I Moncada poc’anzi citati sono imparentati con i Rosselli del ramo palermitano. Potrebbe quindi essere avvenuto che Tiberio, invitato al matrimonio, per ragioni di parentela, sia stato testimone oculare dell’evento narrato. Questa è però, solo un’ipotesi che ci permettiamo di avanzare.

ca. 1550

Più certe sono le informazioni sulla sua morte: le fonti concordano sul fatto che muoia in Africa, per mano di un suo servo, attorno alla metà del XVI secolo.

La vita di Tiberio è ammantata dal mistero e dalla leggendacosì come la sua morte. Il diavolo, al quale il Rosselli aveva venduto la sua anima, gli aveva predetto che sarebbe stato ucciso da un cane idrofobo che egli stesso aveva nutrito. Onde con grande cura egli vigilava che non vi fossero cani in casa sua ed aveva comperato due schiavi unicamente  incaricati di allontanare da lui tutti gli animali di questa specie. Ma il Rosselli aveva mal compreso la profezia: essendo partito per l’Africa, ove si era recato per oscure ragioni, fu assassinato per mano di uno dei suoi servi.

Note

1: Ferdinando di Trastàmara, detto Ferdinando il Cattolico, Fernando o Fernán in spagnolo (1452-1516), è stato re di Sicilia come Ferdinando II dal 1468 al 1516, poi re consorte di Castiglia dal 1474 al 1504 come Ferdinando V, poi re di Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca e re titolare di Corsica, Conte di Barcellona e delle contee catalane dal 1479 al 1516, poi re di Napoli come Ferdinando III dal 1504 al 1516, poi reggente di Castiglia dal 1507 al 1516 e poi re dell'Alta Navarra dal 1512 al 1516.
2: Ugo di Moncada, o Hugo de Moncada (1466/1467-1528), è stato un politico e militare spagnolo, fu Viceré di Sicilia dal 1509 al 1516 e viceré di Napoli nel periodo settembre 1527- aprile 1528. Nato a Valencia da una famiglia nobile e discendente dai duchi di Baviera sin da giovanissimo fu Cavaliere dell'ordine di San Giovanni e successivamente iniziò a combattere per Cesare Borgia prima e per Consalvo di Cordova poi. Nel 1495, lasciato Borgia si recò a battersi contro i francesi in Catalogna e nel Rossiglione, combattendo poi per Ferdinando II d’Aragona che lo nominò viceré. Nel 1510 prese parte sotto le insegne del conte di Alvito Pedro Navarro all’attacco del porto di Tripoli; nel 1522, generale di Carlo V prese parte alla battaglia di Tournai; nel 1524 con 16 navi portò l’attacco a Tolone, Hieres e Frejus ma fu sconfitto e catturato da Andrea Doria all'imbocco del fiume Var e fu liberato a Madrid nel 1526.
3: Ricordiamo che fra la famiglia Rosselli di Gimigliano e la famiglia De’ Medici di Firenze all’epoca vi era un qualche tipo di legame di amicizia, dimostrato dal fatto che frate Annibale Rosselli, congiunto di Tiberio, dedichi il secondo volume del Pymander al Cardinal Ferdinando De’ Medici.
4: Girolamo Armellini, inquisitore del territorio dell’attuale regione Lombardia, vissuto a cavallo del XV e XVI secolo, seguì il caso di Tiberio Rosselli anche uscendo dal suo territorio di competenza e pubblicando (1525) il libro Jesus Vincit proprio sulla dimostrazione delle tesi eretiche contenute nell’Apologeticus Adversos Cucullatos.
5: Ottaviano Maria Sforza (1475-1545) è stato un vescovo cattolico italiano. Figlio naturale di Galeazzo Maria Sforza e Lucia Marliani, venne nominato vescovo di Lodi nel 1497 da Alessandro VI. Nel 1540 Paolo III lo nomina vescovo di Sezze.
6: L’Isagoge (in greco Εσαγωγή) o “Introduzione” alle Categorie aristoteliche, scritto da Porfirio in greco e tradotto in seguito in latino da Boezio, fu il testo guida della logica per almeno un millennio dopo la morte del suo autore. Il testo venne scritto da Porfirio in Sicilia fra gli anni 268-270, ed inviato quindi nella città anatolica di Chrysaorium, secondo quanto riportato concordemente dagli storici antichi Ammonius, Elias, e David.

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