di Francesco G. Sacco

Della vita di Giovan Battista Amico si hanno notizie scarse e incerte. Se si escludono le informazioni che i vari studiosi riportano con ripetitiva uniformità, l’unica fonte certa riguardo all’astronomo cosentino è la sua stessa opera pubblicata a Venezia presso Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli nel 1536, il De motu corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicyclis. Al termine dell’opera, Amico dichiara di essere un cosentino, figlio postumo, dell’età di ventiquattro anni. Questo spinge a collocare la nascita a Cosenza nel 1512. Tuttavia, non pochi sono gli studiosi a propendere invece per il 1511. È difficile stabilire con certezza l’anno di nascita dell’Amico, anche perché non sappiamo in quale mese del 1536 l’opera venne pubblicata e a quale periodo risalga la stesura da parte dell’autore.

Le incertezze sulla vita di Amico non sono limitate alla sola nascita. Secondo quanto egli stesso afferma nel proemio dell’opera, i suoi maestri furono Vincenzo Maggi, Marcantonio Gènua e Federico Deflino, tutti professori a Padova negli anni precedenti l’opera.

Queste informazioni testimoniano l’appartenenza di Amico alla tradizione dell’Aristotelismo veneto del xvi secolo. Come ha osservato lo storico Charles Schmitt, la varietà degli approcci è la caratteristica principale della tradizione aristotelica veneta del Rinascimento. La stessa esistenza di una pluralità di stili e interpretazioni nella tradizioni aristotelica, che ne ha causato il lento ma inesorabile declino, è evidente nelle figure dei maestri richiamati da Amico. Il bresciano Vincenzo Maggi (c. 1498-1564) è stato prima professore di filosofia naturale a Padova dal 1528 al 1543, e poi a Ferrara dal 1543 al 1557. L’orientamento alessandrista del Maggi era ben noto, tanto da spingere Bernardino Telesio a sottoporgli nel 1563 il De natura iuxta propria principia, pubblicato due anni dopo a Roma. Di orientamento contrario era invece Marcantonio Passeri, detto il Gènua (1491-1563), incaricato dal 1517 dell’insegnamento di filosofia a Padova. Da convinto averroista, il Gènua nei commenti alla Fisica e al De Anima non aveva mancato di polemizzare con l’alessandrismo del suo collega bresciano. Federico Delfino (1477-1547), medico e professore di matematica a Padova dal 1520, oltre all’Amico annovera tra i suoi allievi importanti esponenti della tradizione aristotelica, quali Daniele Barbaro, Alessandro Piccolomini e Felice Accoramboni. Poco si conosce, invece, di Cipriano Pallavicini e Giovan Battista Aurio, che insieme al Delfino spinsero Amico a pubblicare il suo trattato.

Sembra, dunque, che il cosentino abbia frequentato i corsi dell’università di Padova, ma non ci sono notizie circa la sua laurea. Il suo nome, infatti, non compare negli Acta graduum academicorum gymnasii patavini ab anno 1501 ad annum 1550. Incerta è anche la sua partecipazione ai cenacoli intellettuali della sua città natale, Cosenza, cui secondo alcuni sembra aver preso parte prima della morte, avvenuta nel 1537. Quest’ultimo avvenimento, ha assunto nel tempo carattere leggendario. A quanto pare, il giovane astronomo è stato assassinato a Padova nel 1537. Tutte le fonti, infatti, concordano nel carattere cruento della morte di Amico e nella natura intellettuale delle ragioni dell’omicidio, anche se nessuna va oltre indicazioni vaghe e non comprovate da alcun documento.

Sarà bene, quindi, abbandonare leggende e congetture per tornare all’unica fonte certa di cui attualmente si dispone, il De motibus. L’opera ebbe un discreto successo iniziale. Alla prima edizione del 1536 seguì l’anno successivo una seconda edizione realizzata a Venezia, mentre una terza e ultima edizione venne stampata a Parigi nel 1540. La storia editoriale dell’opera fornisce indicazioni assai utili per comprenderne l’impatto sulla filosofia naturale e l’astronomia rinascimentale. Il fatto che nel breve volgere di quattro anni si susseguano ben tre edizioni e che dopo il 1540 l’opera scompare dal mercato editoriale, indica che il De motibus per un breve periodo è andato incontro al generale bisogno di riforma dell’astronomia tolemaica, ma anche che non ha indicato la risposta più efficace ai dubbi crescenti sul sistema tradizionale.

L’opera contribuisce alla tradizione dell’astronomia omocentrica che fiorisce intorno all’università di Padova nel xvi secolo, e alla quale danno contributi decisivi Alessandro Achillini (1463-1512) e Girolamo Fracastoro (c. 1476-1553). Poco si sa del padovano Giovan Battista Della Torre (†1534), se non quello che lo stesso Fracastoro afferma nella sua opera del 1638, gli Homocentrica. Sia il veronese Fracastoro che il bolognese Achillini erano legati alla tradizione aristotelica veneta. Il primo aveva ricoperto la cattedra di logica a Padova dal 1501 al 1508, mentre il secondo quella di filosofia naturale (in concorrenza con Pietro Pomponazzi) dal 1506 al 1508. L’appartenenza a una comune tradizione piuttosto che i contatti diretti potrebbero spiegare la presenza di significative similitudini tra le opere di Amico, Achillini e Fracastoro. Amico probabilmente era a conoscenza del De orbibus di Achillini, stampato a Bologna nel 1498, non degli Homocentrica di Fracastoro, la cui prima stesura risale al 1530, e che furono pubblicati solo nel 1538, dopo la morte di Amico. Inoltre, nel 1536 all’epoca della pubblicazione del De motibus, lo studioso veronese non era ancora a conoscenza del contenuto dell’opera. A differenza di Achillini, Fracastoro e Amico non si limitano a ribadire la necessità di tenere fede al principio di irrinunciabilità del moto circolare delle sfere celesti, ma cercano di dare al sistema omocentrico aristotelico una forma matematica adeguata ai dati osservativi dell’astronomia rinascimentale.

Entrambi mantengono l’ordine tradizionale dei pianeti, e portano il numero delle sfere necessarie a comporne i moti dalle 55 di Aristotele a 77. Nel sistema omocentrico, infatti, gli eccentrici ed epicicli non trovano posto. In nome della congiunzione tra indagine fisica e calcolo astronomico, Amico contrappone i sostenitori delle sfere omocentriche Eudosso, Callippo e Aristotele a Tolomeo, che ha fatto ricorso a enti immaginari, come gli eccentrici e gli epicicli, separando così l’astronomia dalla filosofia naturale.

Nei primi libri del De motibus Amico passa in rassegna i sistemi degli astronomi antichi Eudosso di Cnico e Callippo, a cui segue l’analisi della teoria omocentrica di Aristotele. Le fonti di Amico sono le opere di Aristotele e il commento di Simplicio al De coelo. Prima di illustrare il suo sistema omocentrico, Amico si sofferma sulla confutazione degli eccentrici e degli epicicli di Tolomeo, per poi fornire alcuni assunti preliminari allo sviluppo di una nuova versione dei sistema omocentrico. La costruzione astronomica di Amico è saldamente basata sulla struttura fisica del cosmo aristotelico. A parere di Amico enti ipotetici come gli eccentrici violano tale ordine. Al contrario, il sistema omocentrico è coerente con la fisica aristotelica, in quanto ammette solo sfere circolari concentriche, il cui movimento ha origine dal primo mobile e si trasmette dalla sfera delle stelle fisse a quella della Luna. Piuttosto che di sfere dei singoli pianeti, nel sistema di Amico sarebbe opportuno parlare di sistemi di sfere, poiché per dar conto dei movimenti complessi che si osservano nei pianeti, Amico è costretto a ricorrere a un numero complessivo di 77 sfere, ripartite per i diversi pianeti a seconda dei loro movimenti. In tal modo, l’esigenza di rifuggire le ipotesi matematiche di Tolomeo a favore di un modello più aderente alla realtà fisica, sfocia in una struttura farraginosa e complessa assai lontana dalla natura reale dei corpi celesti. È questa, in ultima analisi, la causa dell’insuccesso del sistema di Amico e di tutti i sistemi omocentrici del xvi secolo.

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