di Sandra Plastina

Agostino Doni «Consentinis, medicus et philosophus»: così l’autore stesso si presenta nel frontespizio della sua unica opera conosciuta, il De natura hominis (Basilea, 1581). Nato a Cosenza, molto probabilmente intorno alla metà del xvi secolo, dei suoi primi anni di vita, trascorsi in Calabria, possediamo le poche notizie che Doni ci fornisce nel suo epistolario.

L’intenso periodo dell’esilio trascorso da Doni a Basilea, i suoi contatti scientifici, i suoi rapporti con gli ambienti degli esuli italiani rifugiati oltralpe, sono documentati da quindici lettere autografe, conservate nella Biblioteca Universitaria di Basilea e pubblicate da Antonio Rotondò, Studi e ricerche di storia ereticale, Torino, Giappichelli, 1974, pp. 393-470, ora in Idem, Studi di storia ereticale del Cinquecento, 2 voll., Firenze, Olschki, 2008, vol. i, pp. 635-775. 

Prima degli studi di Rotondò, alcune notizie sul filosofo cosentino e la segnalazione di sei lettere di Doni si devono a Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze, Sansoni, 1967, p. 341.

In una lettera inviata da Ginevra a Theodor Zwinger nel 1580 (A. Rotondò, cit., p. 762), Agostino racconta che, ancora giovanissimo, per ben cinque anni, fu detenuto nelle carceri dell’Inquisizione «religiosis causa me habuit in carcere adolescentem per quinquennium». Rotondò, nella voce dedicata a Doni nel Dizionario Biografico degli Italiani (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 41, 1992, pp. 154-158), sostiene l’ipotesi, avanzata da L. De Franco (a cui si deve l’edizione moderna dei due libri del De natura hominis con traduzione e un ampio profilo in L’eretico Agostino Doni. Medico e filosofo cosentino del ’500; in appendice il De natura hominis con testo a fronte, Cosenza, Pellegrini, 1973, da cui citeremo), che l’episodio della detenzione vada fatto risalire alle persecuzioni subite in Calabria dai Valdesi culminate con la strage di San Sisto e di Guardia Piemontese nel 1561. La lettera di Doni ci permette di presumere che egli sia nato verso la fine della seconda metà degli anni Quaranta del xvi secolo, e che la sua prima formazione filosofica sia grosso modo coeva (in un arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta) a quella di molti altri intellettuali cosentini, come Sertorio Quattromani (1541-1603), Giovan Paolo d’Aquino (ca. 1550-1612), Iacopo di Gaeta (fl. 1588-1591), Giulio Cavalcanti, Giovanni Battista Vecchietti (1552-1619), che ricevettero i rudimenti della filosofia telesiana dalle pubbliche lezioni tenute da Bernardino Telesio (1509-1588) in Cosenza.

Agostino Doni fu considerato da Francesco Bacone un discepolo di Telesio: «Bernardinus Telesius et discipulus eius Augustinus Donius» (F. Bacone, De dignitate et augmentis scientiarum, iv, 3) e ritenuto dai più un suo seguace, fu di certo una tra le figure più sfuggenti e inquiete tra quelle riconducibili al milieu telesiano, esponente di un naturalismo coerente e radicale e convinto assertore della libertà della ricerca filosofica.

Fuggito dall’Italia alla fine degli anni ’70, esule per motivi religiosi, dopo anni di persecuzioni e difficoltà e un imprecisato soggiorno a Padova e a Ferrara, il filosofo calabrese, errante per l’Europa e «in terra Germaniae», arrivò a Basilea nel 1579. Accolto nella città svizzera dal dotto naturalista Theodor Zwinger (1533-1588), decano del Collegio dei medici e da Pietro Caio, decano del Prytaneum dell’Università di Basilea, grazie ad un sussidio tratto dai fondi dell’eredità di Erasmo, e concessogli dal Rettore dell’Università, Basilio Amerbach (1495-1562), Doni fu in grado di dedicarsi agli studi e conseguire, l’anno successivo, il dottorato in medicina. Cfr. D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze-Chicago, Sansoni-Newberry Library, 1970, p. 238.

Accolto come «ob religionem profugus», stimato «homo doctus», e sostentuto e aiutato in quanto «Calaber, pauper», come è nominato nei documenti universitari che ne attestano la presenza e la frequentazione, egli entrò nell’alveo tradizionale degli esuli italiani giunti a Basilea: ottenne ospitalità in casa di Francesco Betti (1521-1590) e lavoro presso lo stampatore lucchese Pietro Perna (1557-1582). Tranne un breve periodo di allontanamento a causa di gravi accuse, formulate contro di lui, e in seguito rivelatesi infondate, Doni si fermò nella città svizzera fino alla pubblicazione del De natura hominis, che uscì nel 1581, grazie all’interessamento di Zwinger, per i tipi del prestigioso editore Hyeronimus Froben, con il titolo A. Donii consentini medici et philosophi, De natura hominis libri duo, in quibus discussa tum medicorum tum philosophorum antea probatissimorum caligine, tandem quid sit homo naturali ratione ostenditur. Ad Stephanum Serenissimum Regem Poloniae, Basileae, apud Frobenium, 1581.

Le concitate vicende dei mesi successivi alla pubblicazione della sua opera restano avvolte dal mistero: il filosofo cosentino lasciò precipitosamente Basilea per recarsi in Polonia, intenzione evidentemente coltivata da qualche tempo, come dimostrano le due dedicatorie al sovrano polacco Stefano Bathory (1533-1586) e le dichiarazioni contenute nella peroratio con cui l’opera si chiude. Prima di giungere a Cracovia, meta del suo viaggio, apprendiamo da uno scambio di lettere tra il diplomatico Andreas Dudith-Sbardellati (1533-1589) e il medico imperiale Johannes Crato von Crafftheim (1519-1585), di una breve permanenza del filosofo a Breslavia. Qui Doni era giunto, quasi nudo, senza denaro e senza lettere di presentazione, munito solo delle copie del De natura hominis con l’intenzione di offrire l’opera a Dudith e ai suoi dotti amici e di farla circolare in quell’ambiente caratterizzato da un atteggiamento di tolleranza religiosa e da un forte interesse scientifico.

A questo punto del suo inquieto peregrinare, diventa difficile ricostruire le vicende dell’ultima parte della vita del medico cosentino: alcune testimonianze riportano di duri scontri e accese polemiche religiose con alcuni intellettuali italiani esuli a Cracovia, in particolare con lo storico veneto Gian Michele Bruto (1517-1592) e di un probabile riavvicinamento alla Chiesa cattolica. Le difficoltà, l’isolamento e lo «humor malinconico» spinsero Doni molto probabilmente ad abbandonare la città polacca, come apprendiamo dalle ultime notizie trasmesse dal nunzio Alberto Bolognetti (1538-1585) nel 1583.

«Quell’Agostino Donio, che si credeva fusse stato ucciso da quelli eretici, si è trovato vivo, et la sua fuga così segreta fu effetto (com’intendo) d’humor malinconico» (D. Caccamo, Eretici italiani, cit., p. 117).

L’ultimo dispaccio di Bolognetti, in cui si fa menzione di Doni, è datato 23 aprile 1583, da quel momento si perdono le sue tracce.

Rimangono, dunque, avvolte dal mistero non solo la sua formazione filosofica giovanile e la sua partecipazione al dibattito antiaristotelico prima dell’esilio, ma anche le ragioni profonde dei suoi dissensi con l’ambiente degli esuli italiani e i motivi delle sue precipitose fughe. Di certo la lontananza dalla patria non rappresentò per il medico cosentino un taglio netto con quei circoli culturali con il quale aveva stretto rapporti di scambio e di solidarietà.

Fiorentino non mancava di notare che né Doni ricorda mai alcuno dei suoi maestri né mai il nome di Doni ricorre in scritti coevi, in cui sono frequenti le notizie sulla cerchia di discepoli, seguaci e ammiratori di Telesio (cfr. F. Fiorentino, Bernardino Telesio, ossia studi storici su l’idea di natura nel Risorgimento italiano, 2 voll. Firenze, Le Monnier, 1872-1874, vol. i, pp. 116-118).

Ma l’assenza di espliciti riferimenti, «questo reciproco ignorarsi da parte dell’uno e degli altri», può essere messo in relazione con ben altre ragioni che non siano il dissenso o la presa di distanza. Seguendo il buon senso e le osservazioni di Rotondò possiamo concludere che, più probabilmente, ignorarsi era una misura di cautela, da parte di un uomo che era stato costretto a lasciare l’Italia per motivi religiosi dopo un quinquennio di detenzione in carcere, nei confronti dello stesso Telesio e dei suoi allievi e seguaci, già impegnati in una difficile battaglia di rinnovamento culturale.

Ripercorrendo le documentate pagine dello storico possiamo individuare due fattori, a nostro avviso determinanti, per inquadrare il rapporto tra l’esule cosentino e l’ambiente dei novatores a cui senza dubbio la sua opera si ispira. Innanzitutto all’assenza di espliciti riferimenti si sostituisce «la corrispondenza segreta lungo il tramite, esile ma pur ininterrotto e significativo, dello scambio di informazioni scientifiche e del commercio librario» (ampiamente documentato anche nel saggio di De Franco). A tale proposito sono interessanti le testimonianze del rapporto tra Doni e Francesco Patrizi (1529-1597), probabilmente instauratosi a Ferrara alla fine degli anni ’70, che valse al medico cosentino le credenziali per l’accoglienza presso Zwinger.

Come infatti apprendiamo da uno scambio epistolare tra i due, Patrizi da Ferrara si rivolgeva allo Zwinger, nel 1580, facendo riferimento ad una richiesta del naturalista pervenutagli in una lettera inviatagli da Doni: «Augustinus Donius scripserat ad me cupere te nescio quas amoris definitiones, quas apud me viderat» (A. Rotondò, Studi di storia ereticale del Cinquecento, cit., app. xiii, p. 780).

Nel luglio del 1581 Doni, impaziente di ricevere copia delle Discussiones di Patrizi, stampate dal Perna, scrive a Zwinger: «Si acceperis a Perna aliquod exemplar Discussionum Patricii mei, velim per hos dies mihi commodares» (ivi, app. x, p. 768).

Sono gli anni ferraresi di Patrizi, contrassegnati dall’elaborazione di una nuova concezione della natura e della difesa delle sue posizioni fortemente critiche nei confronti di Aristotele e dei suoi seguaci. Posizioni che il filosofo di Cherso aveva esposto nel primo tomo delle Discussiones peripateticae, pubblicato nel 1571 e che successivamente confluiranno nell’edizione definitiva dell’opera, in quattro tomi, del 1581. Come è noto la prima reazione all’opera di Patrizi fu quella di Teodoro Angelucci (1549-1600), un oscuro filosofo e medico che nel suo scritto Quod metaphysica sint eadem quae physica nova sententia, nel proporre una sua interpretazione dei libri metafisici di Aristotele, attaccò con violenza le tesi esposte dal Chersino. A Francesco Muti, un giovane calabrese, seguace di Telesio, Patrizi affidò il compito di difendere le sue idee, argomentandole e chiarendole.

La polemica è ampiamente ricostruita da Maria Muccillo, Un dibattito sui libri metafisici di Aristotele fra platonici, aristotelici e telesiani (con qualche complicazione ermetica): Patrizi, Angelucci e Muti sul soggetto della metafisica, «Medioevo», xxxiv, 2009, pp. 221-304. Lo stesso Muti invierà gli opuscoli telesiani ad Antonio Persio (ca. 1550-ca. 1610), che nella dedica a Patrizi del De mari (1590), lo ringrazierà salutandolo come amico e familiare, illustre difensore del Patrizi stesso e dell’ingegno di Telesio.

L’altro fattore determinante per provare a meglio inquadrare il rapporto tra l’opera di Doni e l’ingente lavoro telesiano è senz’altro il lungo processo di maturazione del pensiero di Telesio: oggi più che mai è possibile leggere il confronto tra l’opera di Telesio e quella dell’esule cosentino, alla luce della complessa e ventennale elaborazione dei libri del De rerum natura, che nel 1581, anno della pubblicazione del De natura hominis, non era ancora approdatati alla loro redazione definitiva.

In linea con i presupposti più ‘rivoluzionari’ dell’insegnamento di Telesio, fin dall’esordio il medico cosentino si mostra pienamente consapevole del carattere innovatore della sua opera: un atteggiamento coraggioso gli fa rifiutare ogni limitazione imposta dall’autorità al libero svolgersi del pensiero filosofico. Doni galvanizzato dalla dura battaglia ingaggiata con i grandi pensatori dell’antichità, Ippocrate, Platone, Aristotele e Galeno, enuncia il suo dovere di buon cittadino della repubblica delle lettere: studiare i maggiori ma non approvare acriticamente ogni loro  affermazione senza averla prima vagliata ed esaminata attentamente.

Nella prefazione al secondo libro dell’opera ribadirà con decisione la distinzione tra indagine scientifica e problemi teologici, riaffermando il valore della ricerca di chi osserva tutte le cose e con retta ragione le conosce (cfr. A. Doni, De natura hominis, p. 303).

Il filosofo chiarisce il tema centrale del suo studio: indagare la natura umana significa analizzare la vera natura dello spirito attraverso le sue operazioni: Sostanza del tutto corporea, racchiusa nel seme, che continuamente si produce e si rinnova, lo spirito si forma in tutto il corpo, trasportato dal sangue che ne costituisce la sua materia: «la materia dello spirito è il fiore del sangue, cioè alito e vapore, vi è mescolata anche l’aria […] la quale è tanto  veloce; ed è proprio per questa mescolanza con l’aria che la materia in un istante riesce ad arrivare sino alle estremità dei vasi attraverso ciascun anfratto» (ivi, p. 325).

Colui che ora vorrà trattare della natura umana non potrà che trattare dello spirito, la principale e propriamente l’unica natura dell’uomo. Come leggiamo nel capitolo viii del libro secondo del De natura hominis, questa nostra vita e la vita di tutti gli esseri in natura appartiene allo spirito e ad esso soltanto risalgono tutte le operazioni vitali, prime tra tutte il moto e il senso.

Nel secondo libro, che costituisce la pars construens dell’opera, Doni racchiude il nucleo vitale del suo pensiero filosofico: «Omne quod natura constat vim sentiendi habet et sine ea esse non potest» (ivi, p. 332). Lo spiritus-sensus, unico principio vitale, operante all’interno della natura, equivale alla ragione, in un ininterrotto processo conoscitivo: il senso sarà esso stesso ragione, anzi «il senso sarà tanto più nobile e più prestante dell’intelligenza di quanto le cose solide lo sono rispetto alle ombre oppure le cose reali rispetto alle finte» (ivi, p. 397). Conseguente nelle sue argomentazioni, Doni sviluppa i presupposti del suo naturalismo radicale, unendo in un nesso sostanziale il sentire dell’uomo al sentire delle cose e dell’intera natura, stabilendo un’identità tra i principi della conoscenza umana e principi della conoscenza animale.

Mentre Telesio attribuisce le funzioni psicologiche ad una entità corporea, lo spiritus, comune a uomini ed animali, Doni non esita ad attribuire la facoltà di intendere anche a quella parte degli enti di natura che paiono il più lontano possibile dal nostro essere: «anche le pietre devono intendere», dal momento che se tutto sente, tutto allo stesso modo intende: nessuna natura tuttavia deve essere privata del tutto della facoltà di intendere, cioè di apprendere e di conoscere quelle cose che toccano e che avvisano di sé, ciascuna cosa seguendo una precisa gradualità (ivi, pp. 397-399).

Lo spirito vitale, l’artefice della grande varietà della natura, ne è anche il principio unificatore, che assicura l’omogeneità primigenia di tutti i fatti naturali di cui l’uomo è parte integrante. Il medico cosentino accusa Galeno di grave miopia nel non aver attribuito «non solo all’anima umana, ma ad ogni essere senziente anche la facoltà di intendere e ragionare, e se non nella stessa misura in cui la possediamo noi, almeno per un poco» (ivi, p. 284). È vano pensare che la mescolanza di un’originaria pluralità di elementi primi basti a spiegare come da elementi insensibili possano emergere vita e senso. L’errore è quello di aver fatto dipendere il principio della vita dalle teoria della mescolanza e del temperamento e nella critica condotta da Doni, nel primo libro del De natura hominis, all’inutile moltiplicarsi delle facoltà, sono presenti molte delle argomentazioni che costituiscono l’ossatura del Quod animal universum, l’opuscolo antigalenico di Telesio.

Il medico cosentino non rimase estraneo al fervore di studi ed interpretazioni dei testi di Ippocrate e di Galeno, seguite all’editio princeps aldina del Corpus Galenicum (1525) e del Corpus Hippocraticum (1526). Rinveniamo infatti nella sua opera tracce del dibattito contemporaneo sugli scritti dei due grandi medici dell’antichità, e non è da trascurare il fatto che Francesco Betti, suo ospite a Basilea, sia l’autore di una versione in volgare dell’opera di Galeno, Del modo da conoscere et medicare le proprie passioni dell’animopubblicata a Basilea nel 1587. All’esule cosentino, tra l’altro, era stata affidata da Perna, la correzione degli scritti del medico di corte Giulio Alessandrini (1506-1590), divulgatore dell’opera di Galeno e amico di Crato von Crafftheim. Proprio rivolgendosi a quest’ultimo, noto sostenitore della filosofia dello Stagirita, Andreas Dudith-Sbardellati presenterà quella di Doni come una filosofia «nova quadam et absurda». Con accenti simili si era espresso scrivendo all’aristotelico Niccolò Taurello, due giorni dopo la partenza dell’esule calabrese da casa sua, avvenuta nel 1581: «è modesto, acuto, dotto; il libro però è pieno di una certa filosofia nuova per questa età, ma non inusitata per quegli antichi famosi filosofi della sua gente, come un Pitagora, un Archita, un Parmenide».

Alla lettera, riportata da D. Caccamo, op. cit., p. 238, fa riferimento anche E. Garin, Telesiani minori, «Rivista critica di storia della filosofia», xxvi, 1971, pp. 199-204, qui p. 199. Scrive Dudith:

«Venit ad me ante hoc biduum Augustinus Donius, Cosentinus, Calabre, Basilea, et librum excussum De natura hominis attulit. In Poloniam, nescio qua spe infatuatus, avolare cogitat; ubi profeto omnia spe et expectatione sua reperite minora. Modestus, acutus, doctus est; liber autem nova quidam huic aetati philosophia refertus est, sed veteribus illis suae gentis philosophis Pythagorae, Archytae, Parmenidi, non inusitata».

Non è un caso che una via per penetrare nel nuovo edificio della filosofia telesiana sembrò a Patrizi quella del raffronto con il naturalismo presocratico; la stessa via tentata, pochi anni dopo, da Andreas Dudith per intendere un così inconsueto modo di costruire un sistema naturale quale quello di Agostino Doni.

Bibliografia

Fonti e studi

L’epistolario di Agostino Doni è conservato presso la Universitätsbibliothek di Basilea, Fr. Gr. II.4, nn. 70-71; II.27, nn. 61-66; 37, nn. 45, 48; C.VIª. 35, nn. 92, 93, 96, 97; C.VIª. 35/II, n. 83; G.II.16, n. 261. Le quindici lettere del Doni sono citate in A. Rotondò, Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento, pp. 531-545.

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