di Sandra Plastina

Figlia di Giulia Quattromani e di Sebastiano della Valle, nipote dell’erudito calabrese Sertorio Quattromani (1541-1603), la poetessa Lucrezia della Valle andò sposa a Giambattista Sambiasi, da cui, secondo alcune testimonianze, ebbe sei figli.

Non si conosce la sua data di nascita; tuttavia, sulla base di alcune lettere del carteggio dello zio Sertorio (il quale, in particolare in una lettera del 1597 che leggiamo in S. Quattromani, Lettere, Napoli, Lazzaro Scoriggio, 1624, p. 79, indirizzata a Celsio Mollo, riguardo a una rissa che aveva visto coinvolto, a Napoli, Teseo Sambiasi, figlio di Lucrezia, invita l’amico cosentino a tranquillizzare la madre, evidentemente preoccupata per l’eccessiva esuberanza del giovane: «Sia dalla Signora Lucrezia e persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza»), si può con una certa plausibilità formulare l’ipotesi che Lucrezia, con un figlio ‘fanciullo’ nel 1597, possa essere nata non più tardi della metà/fine degli anni sessanta del xvi secolo.

Con certezza sappiamo, invece, che morì il 26 settembre del 1622 e che fu sepolta nel Duomo di Cosenza, come leggiamo in un volume dedicato alla storia degli edifici sacri di Cosenza (C. Minicucci, Cosenza sacra, 1933, p. 23). La testimonianza è riportata anche da Carlo De Frede, che ricorda i frequenti riferimenti alla nipote – escludendo che si tratti di un’omonimia – presenti nella corrispondenza di Quattromani, da cui apprendiamo che Lucrezia era donna colta e di talento, sposata e madre di sei figli (C. De Frede, I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, 1999, pp. 8-22, in part. p. 15).

A lungo storici e biografi hanno riportato come data della morte di Lucrezia l’anno 1602, facendo riferimento a quanto scrive lo zio Sertorio Quattromani nella lettera x del primo libro della sua corrispondenza indirizzata nel luglio 1602 a Francesco Mauro, in cui compiange la morte di una nipote, identificata poi erroneamente con Lucrezia (S. Quattromani, Lettere diverse, Napoli, Felice Mosca, 1714, pp. 16-17). Anche il sonetto composto da Fabrizio Marotta, in cui l’amico consola il letterato cosentino per la perdita di una donna di nome Olimpia, è stato letto sempre in riferimento alla presunta morte della nipote Lucrezia, identificata con Olimpia nelle ricostruzioni settecentesche delle vicende dell’Accademia cosentina.

La trascrizione – e la successiva pubblicazione da parte di Luigi de Franco – del testamento di Quattromani, datato 13 ottobre 1603, e di quello di poco posteriore del 19 novembre dello stesso anno, redatto un mese prima della sua morte (già indicato da M. Borretti, «Brutium», xix, 1935, p. 66, e trascritto da F. Cozzetto, Aspetti della vita e inventario della biblioteca di S. Quattromani attraverso un documento cosentino del Seicento, «Periferia», xxvii, 1986, pp. 31-53) sono stati decisivi per la corretta datazione della morte. Entrambi i documenti, conservati nell’Archivio di Stato di Cosenza, e soprattutto l’ultimo – comprendente l’elenco dei beni di Quattromani e il lascito alla nipote Lucrezia, destinataria dei suoi averi –, hanno dissipato ogni dubbio, sgomberando il campo da equivoci. In effetti, oltre queste poche notizie certe, ben poco si conosce della vita di Lucrezia della Valle, e gli unici riferimenti diretti alla sua opera poetica si leggono nell’opera di Salvatore Spiriti (1713-1776), cui hanno attinto tutti gli storici posteriori. Il giureconsulto e storico cosentino fornisce, infatti, una serie di informazioni preziose riguardo alla vita della poetessa cosentina (S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, 1750, pp. 102-104, in part. p. 103 nota 3).

Si deve a Spiriti la notizia che Lucrezia («nepos et alumna Sertorii») era accademica cosentina con il nome di Olimpia («Olympia dicta inter Constantes», cioè tra i membri dell’Accademia cosentina, ribattezzata Accademia dei Costanti in onore di Giovan Battista Costanzo, arcivescovo di Cosenza negli anni 1591-1617) e che un suo volume di poesie manoscritte («scripsit librum carminum Italicorum»), conservato presso l’erudito Giacomo de Fabriciis, andò poi disperso. Ancora Spiriti attesta che la raccolta conteneva quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo intorno alla natura di amore assai dotto e di chiara ispirazione platonica, tutte composizioni indice di un ingegno assai coltivato. Lucrezia compose inoltre uno scritto, anch’esso andato perduto, sulle eleganze della lingua latina dal titolo De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis, e forse un altro sull’arte poetica.

Spiriti trascrive soltanto il sonetto proemiale del canzoniere d’amore di Lucrezia, che riportiamo:

Non con la fiamma dell’impura face,
non con lo stral che le vili alme fere,
il cor mi punse, e accesemi il pensiere
l’altero Dio ch’ogni durezza sface.
Ma con quel foco suo dolce e vivace
che tolse in pria dalle celesti sfere,
e con quella saetta, il cui potere
anche ai spirti gentil diletta e piace.
Quindi egli avvien che dall’acceso petto
escon le voci mie legate in rima
per far palese la sua gi(o)ja altrui.
Santo Amor, deh non far, ch’ove diletto
ebbi nel farmi a te ligia da prima,
dica in fin, lassa me! Qual son, qual fui!

Seguendo le indicazioni del poligrafo napoletano Pietro Napoli Signorelli (1731-1815) che, nelle sue Vicende della coltura nelle due Sicilie, invita a una certa cautela nei confronti del profilo biografico che Spiriti tratteggia della poetessa cosentina («congettura lo Spiriti ch’ella fosse accademica cosentina e portasse il nome di Olimpia», Vicende della coltura nelle due Sicilie, 1810, vol. iv, p. 473), possiamo concludere che le ‘congetture’ di Spiriti contribuirono in modo decisivo a creare l’immagine della poetessa Lucrezia della Valle, nipote di Sertorio, nota tra gli Accademici con il nome di Olimpia e morta prematuramente nel 1602.

Si deve infatti allo Spiriti, influenzato dalla storiografia di Ludovico Muratori, il generoso ma fallimentare tentativo di far circolare – a metà del Settecento – nuova linfa nell’Accademia cosentina, pubblicando le Memorie. Al rientro a Cosenza da Napoli, Spiriti si impegnò a rilanciare l’istituzione culturale cittadina: valorizzandone le nobili origini, ripercorrendone la storia e ponendo in debito risalto l’attività intellettuale dei letterati che l’avevano animata. In nome del suo progetto culturale, Spiriti ‘costruisce’ la figura dell’umanista e poetessa Lucrezia, l’accademica Olimpia, voce lirica al femminile della cultura meridionale da affiancare alle più note Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Laura Terracina. Non a caso, la sua sintetica ricostruzione comincia con l’evidenziare che «Non mancarono alla città nostra quei pregi, che le Colonne, le Gambare, le Terracine ed altre illustri Donne a molte città d’Italia col loro sapere arrecarono» (S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, pp. 102-103). Di sicuro non può essere sottovaluta l’importanza del contesto familiare nella formazione culturale di Lucrezia, così come il vivace ambiente intellettuale cosentino alla fine del ’500 di certo contribuì a incoraggiare le sue aspirazioni letterarie e la sua creatività. Come leggiamo infatti nelle note biografiche a lei dedicate, ella ricevette la stessa educazione umanistica impartita al fratello Fabrizio, anch’egli letterato, morto prematuramente a Roma nel 1595 (ivi, pp. 101-102).

Per quanto riguarda il suo stile poetico, non pochi critici hanno avvicinato Lucrezia a Vittoria Colonna, per il suo canzoniere d’amore d’ispirazione neoplatonica (V. Cox, The prodigious Muse, 2011, p. 51), ma l’unico sonetto della poetessa cosentina che ci è pervenuto non pare collocarsi sulla scia delle liriche d’amore coniugale scritte dalla marchesa di Pescara. Nei versi di Lucrezia è assente l’ansia di purificazione o di salvezza che caratterizza il canzoniere di Colonna, in cui l’amore si presenta come un’esperienza propedeutica alla riflessione religiosa e teologica.

La poesia amorosa di Lucrezia della Valle non è strumento per la manifestazione del divino, attraverso quel codice lirico petrarchesco di cui si serve chi sia dotato di «gentile core». Gli «spirti gentili» – evocati nel sonetto – si dilettano, riscaldati dal fuoco d’amore, dolce e vivace, quello stesso fuoco che anima i versi della poetessa: «escon le voci mie legate in rima per far palese la sua gi(o)ja altrui». A conclusione del sonetto, Lucrezia esprime il timore che amore, rompendo ogni accordo con la ragione, possa divampare nel suo petto come forza tirannica e dolorosa, diventando un consumarsi dentro, in versi che echeggiano i toni chiaroscurali delle None Rime della poetessa napoletana Laura Terracina nel sonetto «E ch’amor mi consuma e mi distrugge», che leggiamo nell’antologia delle None rime inedite (pubblicate in appendice al saggio di L. Montella, Una poetessa del Rinascimento: Laura Terracina, 2001, p. 107).

Bibliografia essenziale

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V. Cox, The prodigious Muse, Baltimore, John Hopkins University Press, 2011.

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F. Cozzetto, Aspetti della vita e inventario della biblioteca di S. Quattromani attraverso un documento cosentino del Seicento, «Periferia», xxvii, 1986, pp. 31-53.

L. De Franco, La biblioteca di un letterato del tardo Rinascimento: S. Quattromani, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», xxxviii, 1996, pp. 49-77.

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C. De Frede, I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, Napoli, Accademia Pontaniana, 1999.

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P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, 8 voll., Napoli, presso V. Flauto, 1810-1811.

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V. Napolillo, Fabrizio della Valle nelle lettere e nel profilo storico del Quattromani, «Calabria Letteraria», xlx, 1997, pp. 82-84.

A. Piromalli, Dal Quattrocento al Novecento: saggi critici, Firenze, Olschki, 1965 (rist. 1997), p. 188.

S. Quattromani, Lettere di Sertorio Quattromani, gentil’huomo et accademico cosentino. Divise in due libri. Et la tradottione del quarto dell’Eneide di Virgilio, Napoli, Lazzaro Scoriggio, 1624.

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