di Sandra Plastina

ca. 1550

Le informazioni più precise sulla vita e l’opera di Muti le dobbiamo alla ricerca documentaria di P. Donazzolo, che nel suo studio su Francesco Patrizi da Cherso (Francesco Patrizi da Cherso. Erudito del secolo decimosesto (1529-1597), «Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria», xxviii, 1912, pp. 90-93) lo presenta come calabrese, nato attorno al 1550 ad Aprigliano, uno dei casali di Cosenza, e morto certamente non prima del 25 aprile del 1628, data di una sua lettera scritta da Vitriola (Modena) al Duca di quella città, Cesare d’Este o Alfonso III d’Este (Modena, Archivio di Stato, Letterati. Busta 49). «In questo documento si elencano una serie di scritti che il Muti dice di avere compiti, o quasi, ma non ancora pubblicati: alcuni sono di argomento religioso ed ecclesiastico, altri riguardano la prisca theologia di Zoroastro, Mercurio Trismegisto, le Sibille di cui si sono raccolti i frammenti; altri ancora la teologia di Seneca e di Aristotele. Di tali opere non vi e traccia nell’Iter Italicum del Kristeller» (cfr. M. Muccillo, Un dibattito sui libri metafisici di Aristotele fra platonici, aristotelici e telesiani (con qualche complicazione ermetica): Patrizi, Angelucci e Muti sul soggetto della metafisica, «Medioevo», 2009, xxxiv, p. 290). Dallo stesso documento si può desumere che Muti trascorse presso la corte dei duchi d’Este la maggior parte della sua vita e della sua attività scientifica.

Delle vicende biografiche di Francesco Muti, seguace di Bernardino Telesio e sostenitore della causa dei novatores, possediamo le scarne notizie che provengono dai «vecchi eruditi del Seicento e del Settecento (Toppi, Tafuri, Spiriti, Zavarrone, Chioccarello) ripetute dal Minieri-Riccio, dall’Accattatis e dall’Aliquò-Lenzi», come scriveva Luigi Firpo, introducendo la figura di questo «minore, ma non oscuro banditore della nuova filosofia […] seguace fervente delle dottrine di Bernardino Telesio», nelle pagine della Filosofia italiana e Controriforma. II. La condanna di Patrizi («Rivista di Filosofia»,  xli, 1950, pp. 150-173).

A differenza degli altri eruditi, elencati dallo storico, Salvatore Spiriti è, in verità, l’unico che, nelle Memorie degli Scrittori Cosentini (Napoli, Stamperia de’ Muzi, 1750, pp. 118-119), dà rilievo a quell’aspetto, strettamente legato alla formazione e alla ‘militanza’ telesiana di Muti, che contribuirà a caratterizzarne l’opera nell’ambito del dibattito filosofico del tardo Cinquecento: la difesa della libertas philosophandi. Spiriti fa riferimento, infatti, alle accorate parole pronunciate, negli anni Ottanta del Seicento, da Leonardo di Capua (1617-1695), già membro dell’Accademia degli Investiganti, nel tentativo di recuperare la memoria di Telesio e dei suoi seguaci, sostenitori, appunto, della libertà di pensiero e fieri oppositori dell’autoritarismo intellettuale, esercitato dagli aristotelici:

«Chi è di voi, che non sappia, che qui Bernardino Telesio, cui diede il cuore innanzi ad ogni altro di fronteggiare i maggiori tiranni della filosofia, che quella avevano a vile e a durissimo servaggio condotta, compose e diè fuora que’ suoi pregiatissimi libri della natura delle cose? Chi è di voi, che non sappia, che qui parimente poi Sertorio Quattromani, Antonio Persio, Latino Tancredi, Tomaso Campanella, Vincenzo e Giovan Battista della Porta, Col’Antonio Stigliola, Francesco Muti, e altri egregi filosofanti scossero virilmente il giogo imposto alle scuole dall’autorità degli antichi maestri?» (L. di Capua, Parere... divisato in otto ragionamenti, Napoli, Bulifon, 1681, p. 58).

1581-1588

Muti è ricordato soprattutto per aver fornito il suo generoso aiuto in difesa di Francesco Patrizi (1527-1597), legando il suo nome alla pubblicazione delle Disceptationum Libri V. contra calumnias Theodori Angelutii in maximum philosophum Franciscum Patricium, in quibus pene universa Aristotelis philosophia in examen adducitur, Ferrariae, apud Vincentium Galduram, 1588. Il filosofo platonico, infatti, con la pubblicazione del ii e del iii tomo delle Discussiones Peripateticae aveva proseguito nella sua opera di critica all’impianto filosofico e scientifico del sistema di Aristotele, cominciata nel 1571 con il i tomo, individuando le gravi carenze e contraddizioni implicite nella dottrina fisica dello Stagirita, e guardando con attenzione ai tentativi da parte di Telesio e dei telesiani di proporre un progetto culturale in alternativa alla concezione aristotelica della natura e del suo funzionamento. Nel terzo tomo delle Discussiones (edito a Basilea nel 1581), Patrizi arrivava anche ad esprimere i suoi dubbi sull’autenticità di quasi tutti i libri di Aristotele pervenuti, e soprattutto dei libri della Metafisica, inficiando quel primato attribuito da Averroè allo Stagirita che lo riconosceva inventore della scienza teologica. Il serrato lavoro di critica filologica che Patrizi conduce sul corpus aristotelico ha l’obiettivo di dimostrare l’esistenza di una precedente e ben più antica speculazione sulla stessa materia, una sapientia teologica che affonda le sue radici in un passato lontanissimo. In effetti tutta la teologia di Aristotele, polemizza Patrizi, sfrutta la precedente speculazione su Dio elaborata soprattutto dai prisci theologi Caldei, Egizi, Ebrei e Greci, ma anche dagli Eleati e da Platone (cfr. F. Patricii Discussionum peripateticarum, Basileae, Perna, 1581, t. i, l. iii, p. 23).

La reazione aristotelica a questo duro attacco non si fece attendere e nel 1584 il medico marchigiano Teodoro Angelucci (1549-1600), diede alle stampe il Quod metaphysica sint eadem quae physica nova sententia (Venetiis, Franciscum Zilettum, 1584), in cui, fin dal titolo promette una nuova sententia sui libri metafisici di Aristotele e contesta le posizioni assunte dal filosofo platonico. Lo scritto si proponeva di esporre nella forma di una densa e serrata dissertazione la Sententia de instituto Aristotelis in libris Metaphysicorum, una sententia nova che sarebbe risultata priva di ogni fondamento se fossero risultate vere le osservazioni che a proposito di questi stessi libri aveva effettuato Francesco Patrizi.

La polemica aveva ormai preso fuoco: Patrizi ribatté alle accuse scrivendo un’Apologia, con dedica all’aristotelico Cesare Cremonini, e contrattaccò a sua volta le posizioni di Angelucci (F. Patricii Apologia contra calumnias Theodori Angelutii eiusque nova sententia quod metaphysica eadem sint, quae physica eversio, Ferrariae, apud Dominicum Mamarellum, 1584).

Nella sua autodifesa, il filosofo di Cherso, presentando la sua opera, rivendica la libertà di pensiero contro i sostenitori dell’autorità di Aristotele e, riprende qui, in forma più sintetica e discorsiva, molte delle argomentazioni utilizzate nel secondo tomo delle sue Discussiones, dove aveva sviluppato il tema dei debiti o plagi (concordia) di Aristotele con i suoi predecessori nelle varie discipline filosofiche.

La mossa di Patrizi non mancò di provocare immediatamente la risposta dell’aristotelico, che passò al contrattacco con uno scritto più breve del precedente e molto più chiaramente organizzato dal titolo: Exercitationum... cum Francisco Patritio, questa volta esclusivamente concentrato sul problema storico-filologico relativo all’autore, intitolazione e disposizione dei libri della Metafisica, non senza una riaffermazione della propria nova sententia. L’opera fu pubblicata nel 1585 (Exercitationum Theodori Angelutii cum Francisco Patritio. Liber primus. In quo de Metaphysicorum authore, appellatione, et dispositione disputatur. Et quod metaphysica sint eadem quae physica iterum asseritur, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1585).

Ma quello che di veramente interessante appare in questa replica di Angelucci non riguarda tanto il tema su cui fin qui si era concentrata la polemica, quanto l’apertura di un altro fronte, assai pericoloso, perché riguardava il fondamento stesso dell’assai fortunata tradizione ermetica, a cui si richiamavano molti autori rinascimentali, a partire dal Ficino che l’aveva rilanciata nel Quattrocento, fino al Patrizi stesso che stava gia da alcuni anni lavorando a una sua riproposizione, su basi filologiche e storiche più sicure e su un più ampio corredo di fonti documentarie e testuali.

Nel ritorcere infatti l’accusa che Patrizi gli aveva mosso, di considerare, senza poter avere le prove, Aristotele come il più dotto dei filosofi antichi, senza tenere conto dell’apporto dell’antichissima speculazione caldaica, ermetica, pitagorica, Angelucci esprime tutta una serie di opinioni in cui si riflette un dibattito che si era sviluppato in quegli anni, soprattutto fuori d’Italia, fra studiosi di discipline non propriamente filosofiche, come la cronologia e l’etimologia, in merito al problema dell’autenticità del Corpus Hermeticum.

Le affermazioni di Angelucci, come si accennava, aprirono un acceso dibattito all’interno del gruppo di studiosi che frequentavano la cerchia di Guilandino a Padova, determinando, dopo l’appassionata scesa in campo di Muti, in difesa di Patrizi, l’imbarazzato coinvolgimento del telesiano Antonio Persio (1542-1612), amico di entrambi i contendenti, che venne sollecitato da Angelucci a prendere posizione in proposito in uno scambio di lettere che sono ora pubblicate nella miscellanea curata da M. Mulsow sulla fine dell’ermetismo (Teodoro Angelucci ad Antonio Persio, Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. Linceo 1, fol. 131r-138r, pubblicata in Das Ende des Hermetismus, pp. 353-366).

Nelle Disceptationes, che Muti dedica a Bernardino Telesio, il filosofo, ricorda l’incontro con il maestro a Roma, durante il pontificato di Gregorio xiii (quindi prima del 1585, anno della morte del pontefice) e afferma di essere stato fra coloro cui il filosofo aveva rivelato «naturae arcana divino ore». Telesio è qui visto come un restauratore della filosofia «ab antiquioribus, et ab Aristotele praecipue laceratam, membratimque discerptam, sophismatibus, cavillationibus, fallaciis, nugisque obvolutam, foedatamque», da lui ricondotta all’originaria chiarezza, restituita alla sua naturale dignità, e perfezionata col portare alla luce quanto restava ancora nascosto nel grembo della natura. Con l’opera che ora gli dedicava forniva al suo maestro una prima testimonianza della sua devozione, con il difendere un suo amico ed estimatore.

Muti sottolinea innanzi tutto che il discorso di Patrizi si limita ad affermare l’anteriorità di Ermete rispetto ad Aristotele, senza scendere sul piano della cronologia, su cui lo trascina Angelucci, sulla scorta di Genebrard. In secondo luogo, che le obiezioni dell’autore francese non sono risolutive.

Che lo scritto di Muti voglia essere anche espressione delle nuove idee circolanti negli ambienti dei novatores è dimostrato, oltre che dalla sua appassionata difesa della libertà di pensiero, che si collega al tema della infinita potenza e della liberta divina, dal lungo excursus di carattere naturalistico che trae spunto dalle affermazioni elogiative di Angelucci nei confronti della filosofia di Aristotele intesa come una filosofia basata sul senso, fonte prima e indispensabile per ogni tipo di conoscenza. La verità di questa asserzione viene subito da Muti contestata attraverso una lunga lezione in cui egli espone, per cosi dire, le sue concezioni epistemologiche e metodologiche. Di fronte a una filosofia del senso rozzamente intesa, e cioè limitata alla conoscenza soltanto della mera manifestazione empirica, egli propone una metodologia più articolata, basata sull’impiego integrato di senso e ragione, di induzione e deduzione, passando quindi da ciò che della natura delle cose il senso necessariamente ci manifesta a ciò che non si manifesta e che deve essere per via razionale ricavato da quella prima apparenza. L’indagine dei fenomeni naturali cosi correttamente impostata non porta certamente, come dimostra Muti con un esempio, alle conclusioni esposte nella dottrina aristotelica dei quattro elementi, bensì all’ammissione di due soli principi, il caldo e il freddo, in grado di spiegare una grande molteplicità, anzi la totalità, dei fenomeni naturali. In tal modo la ‘difesa’ del Muti si trasforma sempre più in una polemica che coinvolge direttamente Aristotele e le sue teorie, e a lui finisce poi più frequentemente col rivolgersi. Muti, seguace della nuova filosofia della natura, individua le fonti a cui Angelucci attinge per sostanziare la sua polemica: la fonte antica è Pietro Auriol e la seconda, più recente, è ravvisata in Antonio Bernardi della Mirandola che, a suo avviso, aveva esposta un’analoga sentenza nelle sue Disputationes del 1562.

A conclusione della sua serrata critica Muti giunge ad affermare tra l’altro il diritto di andare oltre Aristotele e, seguendo la traccia dell’infinita potenza divina, arriva all’ipotesi di nuovi mondi e nuove terre da scoprire: «Visne nobis philosophandi libertatem adimere? Visne libera humana ingenia in Aristotelis servitutem adigere? Cur nos, quod in latis naturae campis libere versemur, calcibus etiam insultas?», Disceptationum, II, ff. 28r e 29r-v).

Nell’ultimo libro delle Disceptationes, il nostro autore, impegnato a difendere l’idea della natura di Telesio, polemizza contro la dottrina dei principi della realtà naturale aristotelica, e ne mette in luce la scarsa corrispondenza con i dati del senso e le deduzioni della ragione. Nella serrata disamina del problema della metafisica, Muti non solo rileva, seguendo il ragionamento di Patrizi, che la sententia di Angelucci non è né nuova né peripatetica, ma provvede ad arricchire le argomentazioni già formulate da Patrizi nella sua Apologia contro le assertiones che Angelucci aveva posto a fondamento della sua nova sententia. In particolare, Muti si dilunga nella confutazione della tesi sostenuta dall’aristotelico dell’impossibilità di una scienza basata sull’univocità dell’ente, che era appunto la concezione posta da Patrizi alla base della sua interpretazione del soggetto della metafisica. Come suo solito, egli travalica col suo discorso i termini della mera polemica per impegnarsi in una sorta di dissertazione sul problema dell’univocità, dell’analogia e dell’equivocità dell’essere, da cui far risultare la solo superficiale preparazione dell’avversario su queste tematiche, facendo invece risaltare le sue conoscenze nel campo della filosofia medioevale e in particolare delle dottrine scotistiche.

Analogamente le altre assertiones di Angelucci vengono da lui soprattutto utilizzate per parlare delle nuove soluzioni che si vanno prospettando nel campo della filosofia naturale, ed è assai interessante che egli citi, aderendovi convintamente, le innovative dottrine elaborate da Patrizi sullo spazio fisico e sullo spazio matematico, nel suo De rerum natura pubblicato a Ferrara appena un anno prima (De rerum natura libri II.Alter De spacio physico, alter De spacio matematico, Ferrariae, Victorius Baldinus) e con cui il filosofo di Cherso aveva cominciato a rendere pubblici i principi basilari della sua nuova filosofia della natura:

«Porro si datur vacuum (quod nos dari supra contendimus) et doctissimus Bernardinus Tilesius docuit, et praeclarissime scribit Patricius, dubio procul in eo inani spatio omnes quantitatis species actu sine materia cernere licet. Quare pulcherrime, et novissime (quod a nemine scriptum reperio) luce clarius docuit idem Patricius eo libello, quem edidit de spacio physico, proprium, primumque quantitatis subiectum esse spacium ipsum. Huic igitur ratione mathematicus abstrahit a materia, quia re ipsa, quantitas sine materia consistere reperitur, et non quod abstrahentium non sit mendacium? Semper mendaces nos sumus in abstrahendo, si re ipsa abstractio fieri nequit» (F. Muti, Disceptationum, V, ff. 101v-102r).

1589

Lettore ordinario presso l’università di Ferrara, Muti pubblica un’opera dal titolo De pulchritudine (Theses Francisci Muti Consentini tergeminorum academiae lectoris ordinarii, de pulchritudine, Ferrariae, Victorius Baldinus, 1589). Già membro dell’Accademia letteraria dei Tergemini, Muti frequenta l'Accademia Ferrarese che prese a riunirsi presso la casa di Ercole Varano, e che contava tra i suoi membri più illustri Torquato Tasso (1544-1595) e Giambattista Aleotti (1546-1636).

1628

Francesco Muti muore dopo il 1628, come risulta da una lettera scritta al Duca d’Este, datata 25 aprile 1628 (Modena, Archivio di Stato, Letterati. Busta 49).

 

Bibliografia

L. di Capua, Parere... divisato in otto ragionamenti, Napoli, Bulifon, 1681.

P. Donazzolo, Francesco Patrizi da Cherso. Erudito del secolo decimosesto (1529-1597), «Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria», XXVIII, 1912, pp. 90-93.

L. Firpo, Filosofia italiana e Controriforma. II. La condanna di Patrizi, «Rivista di Filosofia», XLI, 1950, pp. 150-173.

M. Muccillo, Plotino nel tardo Rinascimento, «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», LXI, 1994, pp. 37-137, in part. pp. 95-109.

M. Muccillo, Un dibattito sui libri metafisici di Aristotele fra platonici, aristotelici e telesiani (con qualche complicazione ermetica): Patrizi, Angelucci e Muti sul soggetto della metafisica, «Medioevo», XXXIV, 2009, pp. 221-304.

M. Mulsow, Reaktionärer Hermetismus vor 1600? Zum Kontext der venezianischen Debatte über die Datierung von Hermes Trismegistos, in Das Ende des Hermetismus. Historische Kritik und neue Naturphilosophie in der Spätrenaissance. Dokumentation und Analyse der Debatte um die Datierung der hermetischen Schriften von Genebrard bis Casaubon (1567-1614), a cura di M. Mulsow, Tübingen, Mohr Siebeck, 2002, pp. 161-85.

M. Mulsow, Ambiguites of the Prisca Sapientia in late Renaissance Humanism, «Journal of the History of Ideas», LXV, 2004, 1, pp. 1-13.

F. Muti, Disceptationum libri V contra calumnias Theodori Angelutii, in maximum philosophum Franciscum Patricium, in quibus pene universa Aristotelis philosophia in examen adducitur, Ferrariae, apud Vincentium Galduram, 1588.

F. Muti, Theses… de pulchritudine, Ferrariae, Victorius Baldinus, 1589.

F. Purnell Jr., Francesco Patrizi and the Critics of Hermes Trismegistus, «The Journal of Medieval and Renaissance Studies», 6, 1976, pp.155-78.

F. Purnell Jr., A Contribution to Renaissance Anti-Hermeticism: The Angelucci-Persio Exchange, in Das Ende des Hermetismus, a cura di M. Mulsow, cit., pp. 127- 160.

S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, Napoli, Stamperia de’ Muzi, 1750.