Tommaso Campanella, Lettere, n. 25

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A MONSIGNOR ANTONIO QUERENGHI IN ROMA

Napoli, 8 luglio 1607

Al signor Antonio Querengo.
Cortese signore,

l’angelo mio Scioppio – a cui Dominedio donò sagace spirito di discrezione,
che fra le folte tenebre dell’anticristianesmo scernesse la vera luce
dell’eterna Sapienza, e poi fra gli abissi sotterranei, dove io abito, acutissimo
occhio di pietà donolli a conoscer quello ardente desiderio ch’ho, ed ebbi
sempre io, delle virtù celesti, quantunque come animal grosso a quelle
non m’abbia potuto mai ben alzare – mi scrive che fra molti prìncipi e generosi
spiriti, che presero la mia protezione a sua istanza, secondo la grazia
che l’Altissimo li porge a tutte meravigliose imprese, ci sia Vostra Signoria,
così dicendo: «Sed et Antonius Quaerengus Patavinus, cubicularius pontificius,
de cuius doctrina et iudicio summa hic est existimatio, promisit mihi
se a cardinali Burghesio eiusdem argumenti literas ad eundem Proregis filium
impetraturum. Mirifice enim te aestimare coepit, teque inter naturae
miracula super Picum Mirandulanum numerat; adeoque nihil sibi esse ait
antiquius quam te videre et audire posse. Confido itaque eum tibi non defuturum.
Idem Aquavivae iam mentem mutavit, tibique benevolentem reddidit.
Posses itaque tribus verbis ei gratias agere et, ut in ea mente perseveret,
rogare» ecc.

Or, perché ogni sua parola mi deve esser precetto, avendomilo dato
l’Omnipotente per novo redentore, mentre io com’Elia li dimandava morte
per finir tante miserie, vengo a far l’officio che mi dice, ringraziando Vostra
Signoria più presto per obedienza che per necessità, sapendo io certo ch’in
mente picciola non può capir concetto tanto generoso e grande di favorir un
meschino condannato dall’opinione popolare e di prìncipi come il più empio
e malvagio che fosse mai stato nel mondo; e per natura gli uomini che
s’accommodano a questi gridi son d’animo volgare. Talché son sicuro che
non cessarà in Vostra Signoria quel pensiero nobile a dimostrarsi in tutte
l’occasioni sollecito di metter a fine l’impresa della mia salute; ché, se ben
io son indegno di tanto difensore, Vostra Signoria non è indegna di tanta
misericordiosa e ardua azione; e credo bene ch’ella consideri come ne’ magni
articoli di tempi tutti gran filosofi e profeti e apostoli e Giesù Dio nostro
ancora siano morti sotto questi titoli di eresia e ribellione.

Querela antica, dicon Platone e Senofonte nell’Apologia di Socrate, contra
i sapienti chi tirano il mondo errante alla vera maniera di vita beata; e
perché la dottrina loro vien d’animo degno di comandare, sono tenuti
per usurpatori di quelli regni chi cercano migliorare. Ma sempre achitofellisti
e macchiavellisti saranno chi interpretano ambizion di Stato esser maestra
delle dottrine e verità sacre, perch’essi tutto drizzano a questo fine e,
con gli occhiali loro mirando l’azioni altrui, al modo loro se le fanno apparire.
Però si legge: «Morte moriatur Ieremias, quare prophetavit» ecc.; e:
«Odi eum» di Michea, «quia non prophetat mihi bona»; e d’Amos: «Rebellat
Amos, o rex Ieroboam»; e d’altri: «Benedixit Deo et regi»; e finalmente:
«Blasphemat» ecc., «Samaritanus est» ecc., «Contradicit Caesari» ecc., «Se
regem facit». Cose simili a Socrate, a Seneca, a Lucano, ad Anassagora, a
Pitagora son venute nella sapienza naturale.

Queste considerazioni avran fatto pensare Vostra Signoria ch’io forsi potessi
essere simile a qualcuno di questi, al che il volgo non può mirare. E io
le dico che mi basta essere stato desideroso d’assomigliarmi a loro; e credo
ch’i libri miei, e particolarmente quelli dove mostro gli ultimi sintomi della
morte dell’universo, ne diano qualche saggio; nel che ho in favore tutt’i santi
dottori e san Pietro, chi mi spinse a considerarli e ad estirpar l’anticristianesmo
di filosofi e astronomi e teologi in parte venduti ad oscurar il Vangelio,
e porre agli occhi umani quella nebbia, che dal pozzo dell’abisso con li
campioni dell’Anticristo copiosamente svapora. Nel che desidero che Vostra
Signoria sospenda il giudicio ch’ha di me in questa materia e in tutte
l’altre scienze, fin a tanto che mi darà l’Altissimo di poter a bocca io comunicarli
l’anima mia; perché di lontano le cose nove non recano soddisfazione
se non a spiriti assai puri, ch’in nulla altra primera opinione si lasciano
ostinare, se non è vera a tutti sensi e confirmata da celeste avviso: e allora
non opinione, ma testimonianza si dicerà, imparata nel libro di Dio, ch’è
l’universo, e letta con tutti li sentimenti e di più certificata da maestro d’indubitata
fede, ch’è quello che «solus est verax» ecc.

Dunque la ringrazio di tanto affetto e ne la riprego che segua a favorirmi,
ch’esca presto da questo antro prima che moia; ché già il petto e la testa son
tanto offesi che poco posso sperar salute, sendo stato quattro anni sotterra,
con ferri sempre, sopra un fracido e bagnato stramazzo e con pane e acqua
di tribulazione, senza veder mai cielo, né luce, né persona umana, in luoco
sempre bagnato, che stilla d’ogni muro acqua continuamente, talché continua
notte e inverno io sento, altro che tre ore di luce la sera, quando queste
scrivo di nascosto, e il giorno un poco a ventidue ore per dire l’officio. E pur
mi concede Dio fra nemici tanta grazia di poter communicar occultamente
con l’Angelo mio e con altri ch’operano la mia salute: sia sempre lodato!
Né credo che ci voglian molte preghiere con Vostra Signoria, perché, facendo
ella quel ch’è natural a persona eccellente, li sarà gioconda questa impresa
e dilettevole, procedendo dall’altissima virtù della beneficienza, di carità
sopranaturale avvivata. E sendosi Vostra Signoria mossa così facilmente, mi
par vedere in lei quella purità ch’io cerco nelli spiriti umani, che devono esser
atti ad ogni scienza e non ostinarsi in nulla opinione.

Il giudicio che fa di me, ch’io sia sopra Pico o qual Pico, è troppo alto
per me; e credo che ella mi misuri con misura della sua perfezione. Io, signor
mio, non ebbi mai li favori e grazie singulari di Pico, che fu nobilissimo
e ricchissimo, ed ebbe libri a copia e maestri assai, e comodità di filosofare,
e vita tranquilla: le quali cose fan fruttar mirabilmente un fecondo ingegno.
Ma io in bassa fortuna nacqui e dalli ventitré anni di mia vita sin ad ora,
che n’ho trentanove da finir a settembre, sempre fui persequitato e calunniato,
da che scrissi contra Aristotile di diciotto anni; ma il colmo cominciò
a ventitré con questo titolo: «QQQqQuomodo literas scit, cum non didicerit?»
Son otto anni continui che sto in man di nemici, e per sapientiam
et per stultitiam
sette volte dalla presentissima morte il Senno eterno mi liberò;
e inanti a questi otto anni stetti in carceri più volte, che non posso numerar
un mese di vera lìbertà, se non di relegazione; ebbi tormenti inusitati
e li più spantosi del mondo cinque fiate, e sempre in timori e dolori.

Nella gioventù mia non ebbi maestri se non di grammatica, e dui anni
di logica e fisica d’Aristotile, la qual subito rinegai come sofistica; e studiai
solo tutte scienze da per me, e scrissi cose non volgari, e caminai per
tutte le sette antiche e moderne di filosofi, di medici, di matematici, di legislatori
e d’altri scienziati, nelle arti parlatrici e operatrici e conoscitrici e
sacre e profane d’ogni maniera; e nelle tribulazioni sempre più imparai e
trovai vero:«Patientia probat viri doctrinam». E mi rallegro in quello
che dice l’Ecclesiastico che fa la sapienza a’ suoi seguaci: «Timorem et metum
et probationem inducet super eum, et cruciabit eum in tribulatione
doctrinae suae, donec tentet eum in cogitationibus suis et credat animae
illius». Questo io n’ho visto e parte di quel che segue: «et firmabit illum,
et iter adducet directum ad illum, et laetificabit illum, et denudabit absconsa
sua illi, et thesaurizabit super illum scientiam et intellectum iustitiae»:
il che voglia Dio.

Ecco dunque il diverso filosofar mio da quel di Pico; e io imparo più dall’anatomia
d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo mirabilissima)
che non da tutti li libri che sono scritti dal principio di secoli sin a mo,
dopo ch’imparai a filosofare e legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo
i libri umani malamente copiati e a capriccio, e non secondo sta nell’universo,
libro originale. E questo m’ha fatto legger tutti autori con facilità e
tenerli a memoria, della quale assai dono mi fe’ l’Altissimo; ma più insegnandomi
a giudicarli col riscontro del suo originale. Veramente Pico fu ingegno
nobile e dotto; ma filosofò più sopra le parole altrui che nella natura,
donde quasi niente apprese; e dannò gli astrologi per non aver mirato all’esperienze.
E io li dannai quando ero di diciannove anni, e poi vidi altissima
sapienza intra molta stoltizia loro albergare, e lo dimostrai in un libro proprio
di questo e in Metafisica nova, ché quella d’Aristotile è parte logica,
parte impietà nefanda; solo Parmenide in questa seppe qualche cosa. Pico
ancora nelle cose morali e politiche fu scarsissimo, e tutto si diede alla nomandia
dello ebraismo e a voltar libri; ma se non moria così presto, diventava
grande eroe della vera sapienza; ché già avea la selva congregato e non
fatto la scelta di lavori ecc.

Io lo stimo più grande uomo per quello che dovea tosto fare che per
quello ch’ha fatto. Se ben io cedo non solo a lui, ma ad ogni altro ingegno
che mi sia testimoniante di quel che s’impara nella scola della natura e dell’arte,
in quanto accordano alla prima Idea e Verbo, onde elle pendono; ma
quando gli uomini parlano come opinanti nelle scole umane, li stimo equali
e senza sequela; poiché sant’Agostino e Lattanzio negâro gli antipodi per
argomenti e per opinione, e un marinaro gli ha fatti bugiardi col testimoniar
de visu. Se ben tra gli opinanti più a quelli assentisco – quando parte di
testimonianza non li fa diseguali – i quali son più pii e non soggetti a paura e
ambizione, che fa l’uomo mentire. Questo modo di filosofar m’ha consolato
l’animo; ché, fatta essamina di tutte le sette e religioni che fûro e sono nel
mondo, ho, come spero, assicurato più me stesso e tutti gli uomini delle verità
cristiane e della testimonianza apostolica, e vendicato il Cristianesmo e
liberato quasi dal macchiavellismo e dall’infiniti dubii che pungeno gli cuori
umani in questo secolo oscuro, dove tutti – filosofi e sofisti, religione, empietà
e superstizione – hanno equal regno e paion d’un colore. Tanto ch’al
Boccaccio par che non si possa discernere per sillogismo qual sia più vera
legge tra la cristiana e macometana ed ebraica; e tutti scrittori vacillano
sopra l’empietà aristoteliche; e le scole parlano con dubio e mussitando:
e di questo Vostra Signoria n’averà qualche saggio nel libro intitulato all’Angelo
mio, ché la forza sua si vedrà nella Metafisica.

Pertanto segua Vostra Signoria a favorirmi, ch’io l’assicuro che favorisce
la causa di Dio. Duoleme che fui scelerato peccatore nel mondo e ch’abusai
gli ammirabili doni del Creatore; e però, come servo e contumace, m’ha fatto
suo per tanti flaggelli. Io non li voglio dire quel di Salomone: «Vidi iustos
quibus mala proveniunt tanquam opera egerint impiorum, malos autem qui
ita securi sunt ac si bene egissent», perché io non mi conosco giusto; ma
ben l’assicuro coram Deo che io non sono eretico né ribello e che mai per
ostinata volontà ho errato, quantunque il poco intelletto mi avesse trasportato
fuor di strada: il che non credo. Perdonimi, ch’io non son cortegiano e
non so con che titoli si scrive a Vostra Signoria, né come si parla, ché son
otto anni che non parlo in lingua mia, né con persona del mondo a senno.
Però gradisca con alto animo quel che la mia bassezza fa in ringraziarla e
pregarla che mi faccia venire alla luce che il Padre celeste spande sopra i
buoni e i mali: e io solo, che tanto investigai il cielo, ne son privo, tanto
ch’invidio alle mosche e a’ serpi questa mirabile grazia e veramente di divinità
apparenza mirabilissima.

E s’io vaglio a qualche cosa, m’offero con quella prontezza grata che si
deve a tanta beneficienza da chi non volgarmente ha le virtù cercato, filosofando
in fatti e in parole. La supplico ch’aiuti l’Angelo mio in questo, e veda
«ne angelus regni Persarum resistat illi quadraginta diebus» ecc., perché
sto quasi morendo. Ma Vostra Signoria, sicut Michaël princeps in populo
Dei, adsit angelo meo
ecc. So quanto val la sua lingua appo Sua Beatitudine
e signori nepoti. Dunque ecc. Mi par errare in avvisando a chi tanto sa
ecc. Ma, per l’amor di Dio, taccia di questa lettera fin tanto ch’io muto stanza;
perché, se si sapesse ch’io scrivo, la ruina saria di qualch’anima giusta
che mi è pietosa, e a me ferri sopra ferri e maniglie non mancariano ecc.
Fra tanto prego l’Omnipotente, che m’ha fatto sentinella di questo secolo,
che doni a Vostra Signoria grado tale, che possa a tutti buoni mostrar la sua
cortesia più largamente sempre; il che devo augurare e sperare ecc.

Dal profondo Caucaso, agli 8 di luglio 1607.

Un che la ringrazia e supplica.

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