Biografia

1585 - 1614

1585    Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Terra d’Otranto, presumibilmente nella notte tra il 19 e il 20 gennaio da Giovanni Battista, sovrintendente dei Gattinara-Lignana, duchi di Taurisano, e da Beatrice Lopez de Noguera, figlia dell’arrendatore delle regie dogane per la Puglia e la Basilicata. Entrambe le famiglie dei genitori sono benestanti e dispongono di cospicue rendite.

I primi rudimenti del sapere sono impartiti a Giulio Cesare, sotto la guida del padre, personalità di spicco, dotata di ampia cultura classica, e di qualche precettore, forse carmelitano, proveniente da uno dei conventi limitrofi al territorio di Taurisano.

1601    Si stabilisce a Napoli per seguire i corsi accademici di diritto civile e canonico. Risale presumibilmente a tale anno la composizione dei Physici Commentarii, una delle sue opere giovanili perdute, nota a noi solo attraverso le frammentarie citazioni dello stesso Vanini.

1603    Entra nel chiostro del Carmine Maggiore di Napoli, ove è ancora vivo il ricordo di Paolo Antonio Foscarini e del suo insegnamento filocopernicano. In religione assume, forse in onore di uno zio materno, il nome di Gabriele.

Scrive due opuscoletti perduti, il De generatione et corruptione e il De contemnenda gloria, probabilmente di ispirazione platonico-agostiniana.

1604    Concluso il noviziato, punta all’attività di predicatore. La sua formazione religiosa è scandita dagli orientamenti culturali dell’ordine carmelitano e si sviluppa sui testi di John Baconthorp, il celebre Doctor Resolutus, caposcuola dei carmelitani, e di Tommaso d’Aquino.

Intanto nello Studio partenopeo segue verosimilmente le lezioni dei legisti Giovan Lorenzo di Rogerio, Francesco Antonio Buonaiuto, Agazio Assanti di Squillace, ma forse entra anche in contatto con Giovan Battista dello Grugno, l’avvocato di Tommaso Campanella, e con Francesco Fenice, assai attivo nelle polemiche scientifiche del primo Seicento.

Non è escluso che la sua naturale curiosità lo abbia indotto a seguire i corsi filosofici di intellettuali particolarmente in vista, come Latino Tancredi, Francesco Antonio Vivolo, noto averroista, Giulio Longo e Giacomo Marotta.

1605    Inizia la sua attività di predicatore, sulla quale, però, non siamo sufficientemente informati.

1606    Tra gennaio e febbraio il padre Giovanni Battista muore ab intestato, ovvero senza lasciare testamento. Giulio Cesare rientra per breve tempo a Taurisano, forse per assistere il padre morente, si fa rilasciare dalla curia taurisanese il decreto di tutela per il fratello minore e, ritornato a Napoli, firma presso il Banco di Bonaguri il decreto di preambolo per il riconoscimento della successione.

Il 1° giugno si laurea in utroque iure presso il Collegio dei Dottori.

Il 20 giugno sottoscrive, davanti al notaio napoletano Giovanni Angelo de Angrisano, una procura a favore di Pomponio Scarciglia per la gestione del patrimonio.

1607    Il 12 settembre con una nuova procura affida allo zio materno Gabriele Lopez de Noguera la gestione del patrimonio.

Da un albarano, firmato il 26 ottobre in Ugento, si deduce che l’eredità paterna è stata divisa tra i due fratelli, tant’è che Giulio Cesare può vendere ad Annibale Gaballo una casa, toccatagli in proprietà.

Sulla sua formazione intellettuale la cultura napoletana incide almeno in quattro direzioni fondamentali: quella classica e letteraria, con una discreta conoscenza di Omero e di Luciano, ma soprattutto della letteratura latina, anche cristiana, e, in ambito moderno, con una forte ammirazione per la poesia del Tasso e di Battista Guarini; quella giuridica, connessa ai corsi seguiti presso lo Studium partenopeo; quella filosofica, prevalentemente aristotelica, con una cospicua influenza del pensiero di Giovanni Gioviano Pontano, centrato sui temi delle vicissitudini, della varietas e della fortuna, con tracce della filosofia di Scipione Capece o di Agostino Nifo e con una forte accentuazione del materialismo alessandristico derivante da Simone Porzio; infine, quella religiosa, con una solida preparazione scritturistica, una discreta padronanza delle fonti patristiche, del tomismo e della teologica carmelitana, da Baconthorp a Thomas Walden, a Michele Aiguani e a Guido Terrena; su tale sostrato più tradizionale si innestano interessi più vicini alla sensibilità moderna a contatto forse con ambienti influenzati dalla religiosità di Juan de Valdés o di più spregiudicata apertura verso tendenze eretiche.

1608    Prepara il suo trasferimento a Padova e, con due atti notarili, datati 16 maggio e 20 giugno, vende tutti i suoi beni.

Nel corso dell’anno entra in contatto con i confratelli Giovanni Maria Ginocchio e Bartolomeo Argotti, scesi rispettivamente da Genova e da Cremona per un breve soggiorno nel chiostro napoletano del Carmine Maggiore. Ginocchio dedica alcuni distici encomiastici alla stampa del Tempio Eremitano di Ambrogio Staibano da Taranto e degli Elogia di Giulio Cesare Capaccio.

Argotti visita il Museo naturale di Ferrante Imperato in compagnia del Vanini, il quale, nell’ultimo scorcio del soggiorno napoletano, entra forse in contatto con Giovan Battista Della Porta e con altri esponenti dei Lincei napoletani.

Scrive il Liber physico-magicus, anch’esso perduto.

In ottobre si trasferisce a Padova nel convento del Carmine e inizia gli studi filosofici e teologici presso lo Studium Generale dei carmelitani.

1609-1611 L’influenza padovana sulla sua formazione intellettuale è decisiva e si estende da una più approfondita conoscenza dell’aristotelismo alessandrino, ai filosofi arabi e alla lettura dei testi medici da Ippocrate a Galeno, da Pietro d’Abano a Girolamo Fracastoro e a Levino Lemnio. Girolamo Cardano e Pietro Pomponazzi sono i suoi autori preferiti. È difficile credere che nello Studium patavino abbia seguito le lezioni di Galileo Galilei; è più probabile che sia stato attratto dalla fama di Cesare Cremonini.

Scrive in questo periodo l’Apologia pro Mosaica et Christiana Lege, altra opera perduta.

1611    In occasione della quaresima, per incarico dell’Ordine, predica con buon successo in una chiesa veneziana.

Sotto l’influenza di Argotti si schiera verosimilmente dalla parte dei confratelli che contestano in vario modo la riconferma di Enrico Silvio a generale dell’Ordine, poiché ritengono che la sua candidatura sia in contrasto con il divieto di rieleggibilità sancito dalle Costituzioni carmelitane.

1612    Il 28 gennaio un provvedimento disciplinare di Enrico Silvio stabilisce che Vanini deve essere relegato in uno sperduto convento in Terra del Lavoro e l’amico Ginocchio deve essere confinato in un convento pisano. In tutta fretta i due frati decidono di prendere contatto con l’ambasciatore inglese a Venezia, Dudley Carleton, e, chiedendo di poter riparare in terra britannica, promettono di impegnarsi in un’opera di propaganda anticattolica e di confutazione delle tesi bellarminiane.

Il 17 febbraio Carleton trasmette la loro petizione a George Abbot, arcivescovo di Canterbury, Primate d’Inghilterra, e a Robert Cecil, Lord of Salisbury, tesoriere del regno. In attesa di una risposta dai vertici del potere politico e religioso, l’ambasciatore li fa trasferire a Bologna, per aver modo di sbandierare, al momento opportuno, che la loro fuga è avvenuta dalle legazioni pontificie. Il 18 marzo Abbot acconsente a ospitarli in Inghilterra; anzi, ne è entusiasta e vuole che essi raggiungano la sua sede con «ali di aquila».

Il 9 maggio Carleton mette in atto il piano della fuga e consegna ai due frati una lettera di raccomandazione per l’amico John Chamberlain, con la preghiera di assisterli al momento del loro arrivo sul suolo inglese e di indirizzarli alla sede arcivescovile di Lambeth Palace. La partenza subisce un lieve ritardo a causa dello stato di salute cagionevole di Ginocchio.

Il 25 maggio l’ambasciatore inglese informa Abbot che i due frati hanno lasciato Bologna e si sono imbarcati sui Navigli a Milano per risalire lungo il lago di Como, attraversare la valle dei Grigioni e imbarcarsi sul Reno all’altezza di Basilea.

Lungo il corso del Reno essi fanno sosta a Strasburgo, ove Vanini afferma di aver dato alle stampe elegantissimis typis gli Astronomici Commentarii, che però risultano sconosciuti ai più provetti bibliofili. All’altezza di Magonza dedidono di fare una deviazione per Francoforte, ove visitano le celebri nundinae alla ricerca del De immortalitate animae di Pomponazzi. Infine, approdano a Amsterdam, ove prendono un vascello per l’attraversamento della Manica. Il 20 giugno giungono finalmente a Londra, ma non trovano il Chamberlain, che è momentaneamente fuori città. Decidono di raggiungere da soli Lambeth Palace, ove ricevono una calorosa accoglienza da parte di Abbot.

Una lettera di Chamberlain, datata 27 giugno, ci fa sapere che Giacomo I ha deciso che Vanini deve rimanere ospite in Lambeth Palace e che Ginocchio deve raggiungere la sede di York, per essere affidato alle cure dell’arcivescovo Tobias Matthew.

L’8 luglio, nella Mercers Chapel, i due frati pronunciano l’abiura del cattolicesimo e abbracciano formalmente la religione anglicana in una solenne cerimonia, alla presenza di Lord Francis Bacon, in veste di Sollicitor.

Il 6 agosto Ginocchio si trasferisce nella sede di York, mentre Vanini si reca con Abbot a Croydon per trascorrere le vacanze estive.

Nei primi giorni di agosto cominciano a trapelare negli ambienti ecclesiastici le prime notizie sulla loro fuga e si vocifera altresì della imminente fuga di un vescovo (Marco Antonio De Dominis). Le informative passano dai nunzi apostolici di Francia e di Fiandra, Roberto Ubaldini e Guido Bentivoglio, al cardinale Scipione Caffarelli Borghese, segretario di Stato.

Il 20 dicembre Ubaldini, per il tramite del Segretario di Stato, Nicolas de Villeroy, e dell’ambasciatore francese a Londra, ha informazioni più puntuali sui due transfughi e addirittura conosce il contenuto – a suo dire filocattolico - di certe prediche vaniniane tenute nella Cappella dei Merciai.

1613    Nei primi giorni di gennaio Vanini si reca dal Chamberlain, lamentando non solo la scarsa disponibilità di danaro, ma anche una serie di disservizi che gli rendono poco agevole il soggiorno londinese. In realtà Abbot, preso dai preparativi delle nozze regali del Conte Palatino e di Lady Elisabetta, e occupato nei suoi tentativi di stabilire con le potenze protestanti una forte lega anticattolica, non avverte lo stato di disagio del suo povero ospite.

Il 14 febbraio, nello sfarzo di Whitehall, si celebrano le nozze di Federico V del Palatinato con Elisabetta Stuart. Per l’occasione Ginocchio dà alle stampe un epitalamio latino con lo pseudonimo di Johannes Maria de Franchis.

L’11 aprile giunge all’esame della Congregazione del Sant’Uffizio un memoriale dei due frati, i quali chiedono: l’assoluzione in foro fori per tutti i reati commessi, lo scioglimento dal voto di fedeltà alla religione carmelitana e la facoltà di indossare l’abito di preti secolari. Il pontefice Paolo V respinge la richiesta, lasciando loro la possibilità di presentarsi ut sponte comparentes davanti a uno dei due nunzi apostolici, Bentivoglio o Ulbaldini.

Paradossalmente il 17 giugno negli Stationers’ Registers viene registrato il permesso di stampare la versione inglese dell’epitalamio di Ginocchio.

Il 9 e il 10 luglio i due frati rinnovano, ciascuno per proprio conto, la loro petizione al pontefice. Il nuovo memoriale giunge all’esame del Sant’Uffizio il 14 agosto. Nella tornata successiva del 22 agosto esso è esaminato coram Sanctissimum. Paolo V riconferma la sua volontà: i due apostati debbono presentarsi a uno dei due Nunzi apostolici e debbono abiurare in segreto l’anglicanesimo con la promessa che non saranno trattati da eretici e che potranno vivere in abito secolare. Il 10 settembre la volontà del pontefice è trasmessa dall’inquisitore romano, Giovanni Garzia Millini, all’ambasciatore spagnolo a Londra, Don Alonso de Velasco. Questi, però, è alla scadenza del suo mandato; ha appena il tempo di comunicare ai due frati il perdono papale e, certo di un positivo esito dell’affaire, lascia tutto l’incartamento nelle mani del suo successore, Diego Sarmiento de Acuña. Sfortunatamente il nuovo ambasciatore tarda a raggiungere la sua sede diplomatica. Ciò complica la situazione, già assai precaria, dei due frati.

In dicembre le notizie provenienti da Chamberlain sono sconfortanti: i due ex-carmelitani sono ridotti in misero stato e sono entrambi ammalati. Ginocchio dichiara che l’aria di York nuoce alla sua salute e chiede di essere trasferito a Londra. Giacomo I dispone che egli sia ospitato dal vescovo John King, il quale però afferma di poterlo accogliere solo dopo essersi liberato di John Dalston, un gesuita inglese convertito all’anglicanesimo. A Chamberlain Vanini dichiara di essere costretto a elemosinare a destra e a manca per la propria sopravvivenza e per apprestare le necessarie cure al confratello ammalato. Nella rappresentazione di un così drammatico scenario egli ha forse solo l’obiettivo di assicurarsi che l’amico Ginocchio sia trasferito da York a Londra, in modo da poter predisporre in termini di maggiore sicurezza il piano di fuga dall’Inghilterra.

Nella seconda metà di dicembre, poco prima di Natale, ottiene dall’arcivescovo il permesso di visitare Cambridge.

1613-1614      Ai due anni trascorsi in Inghilterra deve farsi risalire la composizione del De vera sapientia e dei Philosophici Commentarii, entrambi perduti.

Non è facile definire l’influenza esercitata dall’ambiente londinese sulla formazione intellettuale di Vanini. Non sappiamo quali furono i precisi contorni della sua eventuale amicizia con Bacon, conosciuto in occasione dell’abiura. Più sicuri rapporti egli stabilì con lo scozzese Thomas Dempster, storico e letterato, con l’entourage del Chamberlain, frequentato dagli intellettuali più in vista nella capitale inglese, e con Isaac Casaubon, che era frequentatore più o meno assiduo di Lambeth Palace. Il filologo ginevrino fu certamente il tramite che lo mise in contatto con Jacob Barnet, ovvero con quel Giacomo l’ebreo (Jacob the Jew), citato nell’Amphitheatrum. Ma l’influenza più decisiva, sia pure in negativo, fu esercitata dallo stesso Abbot, o meglio dal suo intransigente puritanesimo e dal suo ossessivo rigorismo etico che verosimilmente indussero il Salentino a abbandonare progressivamente gli schemi del pensiero religioso. Va altresì tenuto presente che il Vanini concordò con le autorità religiose e politiche britanniche una ‘missione segreta’, con la quale si impegnava a scrivere «de malo Statu Romanae ecclesiae» e ad attaccare i princìpi del Concilio Tridentino, in una fase storica in cui l’azione giurisdizionalistica di Paolo Sarpi sembrava ristagnare. Ciò induce a supporre che la prima versione dell’Apologia pro Concilio Tridentino, stilata a Londra, era assai diversa da quella esibita al Nunzio di Francia, poiché doveva presentarsi con un impianto marcatamente anticattolico.

1614    Dal 19 al 30 gennaio Abbot gli consente di visitare Oxford, ma gli mette alle calcagna degli emissari segreti con il compito di venire a capo dei suoi progetti di fuga. Vanini ha forse dei contatti con Richard Sheldon e, reputandolo un buon cattolico, gli confida la sua decisione di lasciare l’Inghilterra. La confessione gli è fatale, perché Sheldon si era nel frattempo convertito all’anglicanesimo. Rientrato a Londra, il 2 febbraio, tiene una predica nella solita Cappella dei Merciai. Ma al termine della cerimonia Abbot sottopone i due frati a un primo interrogatorio in celle separate: entrambi negano di aver preso contatti con Roma ai fini di un ritorno in seno al cattolicesimo. Il giorno successivo, 3 febbraio, in una second exemination, il Salentino confessa di voler abbandonare il suolo inglese con il consenso del re e dell’arcivescovo cantuariense. Ad Abbot non resta che disporre l’immediato arresto dei due frati, che vengono tenuti prigionieri all’interno dello stesso Palazzo Lambeth. Il 4 febbraio l’arcivescovo dà dell’accaduto una versione distorta a James Montagu, Bishop of Bath and Wells, e Thomas Lake, nella sua veste di segretario di Stato, provvede a trasmetterne una copia a Dudley Carleton.

Intanto tra il 4 e il 7 febbraio l’ambasciatore Sarmiento prende finalmente visione degli incartamenti lasciatigli dal Velasco e si affretta a scrivere all’inquisitore Millini, assicurando il proprio impegno per l’immediato recupero dei due apostati, ma ignora che essi sono sotto stretta sorveglianza nella sede di Lambeth.

Nella notte tra 13 e il 14 febbraio, servendosi di un paio di lenzuola intrecciate, Ginocchio riesce a fuggire da una finestra di Palazzo Lambeth e a rifugiarsi presso l’ambasciata spagnola. Abbot va su tutte le furie e fa immediatamente trasferire Vanini nelle carceri pubbliche della Gatehouse, in Westminster. Il 15 febbraio lo conduce davanti alla High Commission, da lui presieduta e composta da John King, Bishop of London, James Montagu, Bishop of Bath and Wells, Richard Neile, Bishop of Coventry and Lichfield, e Lancelot Andrewes, Bishop of Ely. Lo obbliga a sottoscrivere la second examination, da lui già acquisita agli atti il 3 febbraio precedente. Dal canto suo Vanini firma in sua difesa una declaratio, in cui si proclama di fede cattolica e assicura di non aver mai svolto attività di proselitismo antianglicano, di avere in alta considerazione gli «honestissimos mores omnium Anglorum» e di volersi ritirare in Italia con il consenso delle autorità britanniche. Nei 49 giorni di prigionia, dal 3 febbraio al 23 marzo, il suo morale è bassissimo e si sente destinato a concludere la sua vita come martire cattolico.

Nella seconda metà di febbraio si mette in moto la formidabile macchina diplomatica di Sarmiento, il quale, operando su più piani, ottiene da una parte un segreto accordo con il sovrano, interessato a riagganciare più solidi legami con la Spagna, e dall’altra, non senza un cospicuo esborso di denaro, la connivenza dei secondini. Il 23 marzo Vanini riesce a fuggire dalla Gatehouse e si reca all’ambasciata spagnola, dalla quale, nel giro di poche ore, è spedito alla volta di Amsterdam. Da qui si imbarca per Flessinga e, attaverso tappe interne, Middelburg, Berg-op-Zoom, Anversa e Machelen, si dirige a Bruxelles.

Il 3 aprile arriva a Bruxelles, ove è accolto dapprima dall’ambasciatore spagnolo, Felipe Cardona, marchese di Guadaleste, e poi dal nunzio apostolico Guido Bentivoglio.

Da Bruxelles, tempestata da un’epidemia di febbre maligna, il Nunzio si sposta a Anversa. Qui, però, sorge un intoppo: i due frati si rifiutano di sottoporsi all’abiura, convinti che essa implichi l’ammissione di un reato in foro conscientiae, sotto il quale profilo si dichiarano innocenti. A metà maggio Bentivoglio li invita a riprendere la via del ritorno in Italia. Ginocchio raggiunge la nativa Chiavari. Vanini, invece, preferisce recarsi a Parigi da Ubaldini, portando con sé l’Apologia pro Concilio Tridentino, cui nel frattempo andava apportando sostanziali modifiche, per trasformare l’iniziale impianto, ambiguamente anticattolico, in un nuovo, non meno ambiguo, progetto in funzione antiprotestante. Fino a tutto agosto egli si ferma presso la nunziatura di Francia, ove, concluso il lavoro dell’Apologia, chiede di poter poter scrivere al Millini al fine di ottenere il consenso alla sua pubblicazione. Ubaldini non lo ostacola, ma suggerisce al Millini di invitarlo a rientrare in Italia per tenerlo sotto più rigido controllo.

Tra la fine d’agosto e la metà di ottobre Vanini si sposta da una parte all’altra della Francia, dalla costa bretone a Marsiglia, con brevi tappe a Nizza e Lione e forse con una breve escursione a Ginevra.

Il 28 agosto la proposta della stampa dell’Apologia giunge all’esame del Sant’Uffizio e Paolo V ordina che gli sia mandato un esemplare del testo e che l’autore sia invitato a rientrare in Italia. Il 14 ottobre Vanini è di nuovo a Parigi da Ubaldini per conoscere la risposta di Millini e del Sant’Uffizio. Il Nunzio gli comunica la decisione del papa e per convincerlo a rientrare a Roma gli consegna una lettera di raccomandazione da presentare all’inquisitore romano, insieme con una copia dell’Apologia. Vanini si guarda bene dall’ottemperare all’invito del Nunzio e preferisce fermarsi a Genova, ove, grazie all’amicizia di Ginocchio, gode dell’appoggio di potenti famiglie, come i Doria. Impartisce lezioni private di filosofia al giovane Giacomo, figlio di Scipione Doria e mette mano, o comunque, porta avanti il lavoro di composizione dell’Amphitheatrum.

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