Testimonianze

i. autorevolezza e attendibilità delle fonti letterarie

I testi, pubblicati nel primo trentennio successivo al rogo tolosano, condizionano tutta la successiva storia della fortuna di Vanini ed hanno l’autorevolezza derivante dall’essere fonti di prima mano, prodotte da autori che del Salentino ci danno una testimonianza diretta o indiretta per averlo conosciuto personalmente o per averne avuto notizie da persone – a loro dire – degne di fede.

La loro attendibilità, tuttavia, va criticamente vagliata, non solo perché sulla tragica fine di Vanini esse ci appaiono non meno reticenti degli atti processuali, ma anche perché si rivelano per lo più espressione di posizioni partigiane e di pregiudiziale avversione nei confronti di un pensatore che era additato come un campione dell’ateismo. Tra l’altro nel tessuto della loro narrazione la specificità della vicenda vaniniana è non di rado incastonata entro le maglie di un cliché più o meno standardizzato della figura dell’ateo, quale si era venuto elaborando nella apologetica del tardo Cinquecento e dei primi del Seicento. Secondo tale schema preconcetto l’ateo è immorale, blasfemo, privo di scrupoli, corruttore dei giovani, nemico della fede, strumento di Satana, esperto di magia o di stregoneria o di astrologia, più prossimo alla natura delle bestie che a quella degli uomini. Non meno standardizzate sono le dottrine che gli vengono attribuite e che sono desunte per lo più dall’aristotelismo e dall’averroismo, da pensatori antichi, come Epicuro, Plinio e Cicerone, o anticristiani come Celso e Giuliano. Opportunamente nascoste in pubblico e professate con una certa cautela in privato tra persone fidate, esse riguardano l’eternità del mondo, la negazione della creazione, della provvidenza, dell’immortalità dell’anima, della trinità, della divinità di Cristo, della verginità della Madonna, della divina ispirazione dei testi sacri e così via.

ii.  particolare rilevanza delle fonti del 1619

Tra le testimonianze hanno ovviamente particolare rilievo quelle più immediate, risalenti allo stesso anno del rogo. Pur tra le inevitabili reticenze e ambiguità, esse sopperiscono almeno parzialmente alla scarna informazione fornita dall’Arrêt de mort  (doc. clxxxix) e dalla Chronique di Nicolas de Saint-Pierre (doc. cxc), che sono gli unici atti ufficiali, dai quali dipende la nostra conoscenza del processo vaniniano.

La prima testimonianza ha per titolo Histoire véritable de tout ce qui s’est fait et passé depuis le premier janvier 1619 ed è un anonimo canard prodotto nel maggio del 1619 negli ambienti cattolico-tradizionalisti di Tolosa i quali puntano a sollevare un gran polverone sulla figura del conte di Cramail e sul suo entourage aristocratico-culturale sotto il cui scudo protettivo si era rifugiato l’innominato italiano mandato al rogo con l’accusa di ateismo. Per quanto tenti di lasciare in ombra lo sventurato italiano, l’Histoire non può fare a meno di riconoscergli la dignità di «filosofo estremamente dotto» e di farci sapere che egli propinò le sue «false dottrine» in privato ai suoi «auditeurs particuliers» e le difese strenuamente davanti ad un Parlamento «sbalordito», affrontando con fermezza e costanza il patibolo. L’anonimo è evidentemente portavoce di un disagio ampiamente avvertito nella capitale occitana, vera e propria roccaforte di un cattolicesimo ultraconservatore, restio a misurarsi non solo con i nuovi fermenti culturali, ma anche con i riformati cui il recente editto di Nantes aveva riconosciuto diritto di cittadinanza. Egli funge da cassa di risonanza di una serie di dicerie che circolavano nella città a proposito delle propensioni libertine del Cramail. Dai Mémoires di Richelieu sappiamo che il primo presidente del Parlamento, Gilles Le Masuyer, nutriva il deliberato proposito di processarlo come compagnon di Lucilio. Alla fine del mese di giugno o ai primi di luglio 1619, il Mercure François, organo di Stato, riprodusse più o meno testualmente la versione dell’Histoire véritable e collegò la vicenda dell’anonimo ateo, arso nella passata quaresima, al primo processo del Viau, voluto dallo stesso Luigi XIII con lettera patente del 13 maggio 1619. Si intuisce, perciò, facilmente come il proditorio pamphlet mettesse in allarme il gruppo degli intellettuali che frequentavano l’Hotel di rue de Jouxtaigues.

Nello stesso mese di giugno, all’interno della cerchia del Cramail si mette mano ad un secondo canard, l’Histoire véritable de l’exécrable docteur Vanini, che vuol essere una risposta al primo e insieme una strenua difesa del conte. Ne è autore un anonimo intellettuale che, per essere legato allo stesso ambiente culturale frequentato da Vanini, ne ha conoscenza diretta e non ha difficoltà a rivelarne l’identità con l’oscuro Lucilio e a indicare nell’aristotelismo bolognese e padovano le matrici filosofiche del suo pensiero. A suo dire il Salentino si sarebbe accostato in Spagna alla magia nera e all’astrologia e successivamente sarebbe approdato all’ateismo, sostenendo che le storie veterotestamentarie del Genesi e dell’Esodo sono favole paragonabili a quelle delle Metamorfosi ovidiane e che le religioni sono strumenti di potere che hanno la loro origine nella impostura. Per la difesa del conte l’anonimo adotta una strategia che consiste nel rammentare ai cattolici intransigenti che le responsabilità di aver accolto e dato credito ad un ateo non vanno addebitate solo al Cramail, ma anche a giovani gentiluomini, a consiglieri del parlamento, a docenti dell’Università e persino al primo presidente del Parlamento. Come dire che non conveniva sollevare polveroni sugli eventuali protettori del Salentino, perché lo scandalo si sarebbe allargato a macchia d’olio e avrebbe coinvolto quasi tutti i centri del potere cittadino. Il Conte – prosegue l’anonimo – fu soggiogato come tanti altri dal fascino intellettuale del filosofo italiano, tant’è che gli affidò l’educazione di un nipote. Ma egli era persona di «giudizio non soggetta ad inganno» ed aveva per «natura e maneggio degli affari» «conoscenza di ogni cosa»; perciò trovò il mezzo per sondare le più intime convinzioni del Salentino e, quando si rese conto di che pasta egli fosse, lo avrebbe denunziato ai Capitouls, se non fosse stato da essi preceduto. Il canard si chiude con un breve resoconto sulla inchiesta di Terlon o di Bertrand, nel corso della quale Vanini avrebbe affermato l’eternità del mondo, avrebbe negato l’esistenza e la provvidenza di Dio, riconfermato il carattere fabuloso delle storie testamentarie e ricondotto ad impostura la stessa azione redentrice del Cristo.

A distanza di qualche mese, nell’agosto del 1619, François Rosset riproduce come quinta della sue Histoires mémorables l’anonimo canard, ma vi aggiunge di suo alcuni dati che gli derivano dalla sua personale frequentazione del Salentino in ambito parigino. Lo si evince dal fatto che egli conosce i percorsi seguiti dal Vanini per introdursi «nelle case dei magnati della Corte». Veniamo, infatti, a sapere che il Salentino fu presentato da uno scozzese, che oggi sappiamo essere Thomas Dempster, all’abate di Redon, Arthur d’Espinay de Saint-Luc, il quale lo ospitò nella propria maison e lo introdusse nell’entourage del Bassompierre. Rosset si sofferma altresì sulle straordinarie abilità dissimulatorie del filosofo e sulla prudenza con cui professava il suo ateismo, ma riferisce anche che egli predicò in S. Paul sull’incipit del vangelo giovanneo con punte di eterodossia forse sulla figura del Cristo e sul mistero della Trinità. L’Histoire v va ben oltre le timide rivelazioni del secondo canard e mette a nudo verità scomode che i poteri giudiziari tolosani avevano tentato di far passare sotto silenzio. Essa, infatti, ci svela che Vanini altri non era che l’autore del De admirandis, dedicato a Bassompierre, e che il suo programma filosofico era quello di dare «alla natura ciò che propriamente appartiene al creatore dell’universo». Quindi aggiunge che la Sorbona era intervenuta contro il libro con un decreto di condanna che lo aveva consegnato alle fiamme. La strategia del Rosset è evidente: egli intende mettere in chiaro che l’accusa di ateismo mossa al Vanini non era fondata su generiche ed imprecise affermazioni o su vaghi discorsi tenuti in privato, ma aveva un inequivocabile supporto in testi scritti e pubblicati e già esaminati dalla Facoltà teologica parigina. Tale strategia metteva in un certo senso il Parlamento tolosano sulla graticola, perché lo esponeva all’implicita accusa di aver processato un filosofo per le sue idee. Che tale scomoda verità serpeggiasse negli stessi ambienti della Cour ce ne fanno fede talune fonti letterarie, dal secondo canard a Jacques Gaultier e allo stesso François Garasse, il quale è costretto ad ammettere obtorto collo che alcuni magistrati erano contrari a pronunciarsi su materie filosofiche e che la sentenza fu votata a maggioranza.

D’altra parte Rosset, dopo aver fatto dichiarazioni così compromettenti, capisce bene che non è il caso di urtare eccessivamente la suscettibilità del Parlamento tolosano e che non conviene calcare la mano sull’altra spinosa questione relativa all’insufficienza delle prove. Lo si intuisce dal fatto che in chiusura della sua Histoire egli si sforza di blandire la Cour, affermando che Vanini sarebbe stato reo confesso e che nel processo non sarebbero mancate le testimonianze del nipote del Cramail, dei due gentiluomini incontrati dal Salentino a due leghe da Tolosa e di «parecchie personalità onorevoli». Il Parlamento, anzi, si sarebbe persino preoccupato della salvezza della sua anima e avrebbe richiesto l’intervento di predicatori e teologi che lo visitassero in carcere e ne sondassero le più intime convinzioni. Ma Vanini, che era uno strumento di Satana, si rifiutò di fare ammenda a Dio, al re e alla giustizia e inveì contro Cristo, indicandolo come causa della sua tragica fine. Ma queste pseudo-invettive contro il filosofo non debbono trarre in inganno come non debbono ingannare certi pseudo-scrupoli del Rosset quando scrive che al solo pensiero di dover accennare alle dottrine sacrileghe dell’ateo la penna gli trema nelle mani o quando finge di non poterne parlare, ma poi le espone senza alcuna reticenza. In realtà egli è della stessa tempra del Vanini e il suo obiettivo è quello di dare risonanza alla filosofia censurata da un iniquo Parlamento. La sua quinta Histoire dovette procurargli non pochi fastidi ed è significativo che essa fu sistematicamente espunta nelle numerose edizioni successive delle Histoires Mémorables.

Questo è quanto ci è dato sapere dalle primissime testimonianze. Se proviamo a riassumere gli apporti da esse forniti rispetto alle fonti documentarie i risultati sono i seguenti:

1 Resta del tutto oscura la causa scatenante del processo. Sappiamo dalla Chronique di Saint-Pierre che ci fu una denuncia, ma ne ignoriamo la natura e la provenienza e, purtroppo, le testimonianze più immediate su questo punto, di capitale importanza, tacciono clamorosamente oppure ricorrono al solito cliché dell’ateo che professa in privato dottrine, le quali – non si sa come – giungono all’«evidence» e «à la cognoissance de la Cour».

2 Restano assai vaghe e generiche le informazioni sui testimoni del processo. L’arrêt de mort parla di capi d’accusa, informazioni, udienze, confronti, obiezioni contro i testimoni e altre produzioni, ma il tutto è contenuto in una formula scheletrica, se non in vero e proprio canovaccio, che ci lascia del tutto all’oscuro sul procedimento seguito. Le fonti letterarie tentano di riempire il vuoto, ma lo fanno in modo non del tutto convincente. I due canards e il Mercure François sembrano concordare sul fatto che il Salentino fu reo confesso e che sostenne le sue allegations véritables davanti al Parlamento. La prima Histoire véritable chiama in causa Pierre Coton, che avrebbe «visitato» il Salentino e avrebbe attestato il carattere blasfemo delle sue idee, ma essa per ragioni storiche non può riferirsi che ad un incontro che il gesuita ebbe con il Vanini in carcere. Rosset, dal canto suo, almeno su questo punto non sembra essere molto affidabile, poiché nel dare per scontata la testimonianza del nipote di Cramail e di due anonimi gentiluomini sembra procedere per logica deduzione dal racconto del secondo canard. Garasse vuol farci credere che il teste decisivo del processo fu un nobile rampollo dei Francon, eroicamente morto nella battaglia di Montauban. Egli potrebbe avere l’autorevolezza di una fonte di prima mano, perché aveva dimestichezza con gli ambienti tolosani ed era in corrispondenza con Monsignor D’Oignon, legato da vincoli di parentela con il primo presidente Masuyer, ma l’attendibilità della sua versione è nulla sia perché in sé contraddittoria (Francon sarebbe nello stesso tempo il promotore dell’azione giudiziaria contro Vanini e il teste conclusivo del processo), sia perché in contrasto con le vicende storiche cui fa riferimento (l’incontro tra Vanini e Francon si sarebbe svolto nel novembre 1618, quando già il filosofo marciva nelle prigioni della Conciergerie du Palais). D’altro canto le altre fonti coeve sembrano ignorare che Francon avesse testimoniato al processo vaniniano. Non ne fanno, infatti, alcun accenno né il Mercure François del 1621, né Scipion Dupleix nella Histoire de Louis le Juste XIII, né la Historia rebellionis, edita da Gabriel Barthélemy de Gramond nel 1623, allorché si occupano della sua eroica morte sul campo di battaglia di Montauban. Gramond, tra l’altro, che si dice ed è testimone oculare dei fatti che narra, riproduce nella Historia Galliae del 1643 lo stesso passo relativo alla morte di Francon, pubblicato nel 1623, ma vi aggiunge il dettaglio della testimonianza che nel frattempo era stato suggerito da Garasse. Insomma anche sulla questione della insufficienza delle prove testimoniali siamo di fronte ad una ridda di contraddizioni e di omissioni tra le quali è difficile districarsi.

3 L’assenza di testimoni potrebbe in realtà essere un indizio che nel processo gli scritti vaniniani ebbero una parte decisiva. La Chronique di Saint-Pierre ci informa che al momento dell’arresto Vanini si dichiarò filosofo e teologo e che in suo possesso furono trovati Plusieurs siens escritz qui ne marquoient que de questions de philosophie et de théologie. Un Parlamento che si richiamava al diritto romano e che era chiamato a pronunciarsi su un delitto di difficile accertamento, quale era quello dell’ateismo, non poteva non tener conto di quegli scritti. L’insistenza delle prime fonti sulle dottrine professate dal Salentino, sulla sua natura di filosofo estremamente dotto, sembrano confermarlo. Il primo canard vuole che Vanini sostenesse con buona fondatezza le sue dottrine davanti al tribunale e che da Castres fossero chiamati i teologi protestanti per stabilire se esse erano conformi alle loro posizioni teologiche. Rispetto ad altri processi per blasfemia ed ateismo celebrati tra la seconda metà del Cinquecento e i primi del Seicento, le accuse contro Vanini non si fondano su singole e generiche dichiarazioni, ma fanno riferimento ad un complesso di dottrine che trovano piena corrispondenza nei testi vaniniani. Se il secondo canard accenna timidamente al fatto che Vanini «inondava di scritti le case dei magnati», Rosset lo dichiara esplicitamente autore del De admirandis. Guillaume de Catel, storico di gran vaglia, non ha difficoltà ad ammettere di essersi trovato di fronte ad un filosofo e medico che reputa «il più bello e il più maligno spirito» che avesse mai conosciuto. Il Gaultier e Garasse, pur nella loro pregiudiziale avversione per il Salentino, si lasciano sfuggire che nel Parlamento si pose la questione della legittimità di sostenere in sede filosofica le dottrine contestate. Forse le stesse difficoltà e lungaggini del processo si giustificano proprio perché quei testi vaniniani erano, con le loro tecniche dissimulatorie, un vero e proprio ginepraio difficilmente districabile persino da parte dei più esperti teologi come Coton. Insomma, tutto induce a pensare, contrariamente a quanto fino ad oggi si è sostenuto, che gli scritti vaniniani giocarono un ruolo non secondario nella formulazione dell’accusa di ateismo.

iii  le fonti apologetiche

A differenza di altri processi per blasfemia e ateismo, quello vaniniano acquista nel giro di tre o quattro anni una risonanza di vastissime proporzioni, paragonabile solo ai roghi di Bruno e di Serveto. Ma se Bruno e Serveto sono accusati di eresia, con Vanini per la prima volta nella storia del mondo cristiano l’ateismo ha un referente storicamente oggettivo. È questo un punto su cui l’apologetica mersenniana e garassiana si differenzia nettamente da quella tardo-cinquecentesca e sul quale è opportuno fare chiarezza sia pure in termini molto schematici.

L’apologetica della seconda metà del Cinquecento si era alimentata sul terreno della crisi religiosa acuitasi in una Francia devastata dagli aspri conflitti di religione. Le sue radici vanno individuate anche nella grave frammentazione del quadro dogmatico-teologico del cristianesimo che, dopo la prima frattura prodotta da Lutero, si era disarticolato in una miriade di posizioni ideologiche fortemente conflittuali. La crisi del sentimento religioso era aggravata, oltre che da fattori interni al cristianesimo, dalla coesistenza di potenti fattori esterni che fungevano da catalizzatori. Tali erano per un verso il confronto con altre culture non cristiane come quella ebraica e quella musulmana e, per un altro verso, la rinascita della cultura classica che riportava alla luce un mondo precristiano, che aveva costruito sulla base della sola ragione naturale la propria visione della vita ed era stato sfiorato talvolta da forme dei ateismo. La presenza in Francia dei marrani, cacciati dalla Spagna, aveva rimesso in questione problematiche che erano state al centro delle polemiche origeniane e ciriliane rispettivamente contro Celso e contro Giuliano l’Apostata.

D’altro canto il clima di forti contrapposizioni ideologiche produceva una relativa libertà ideologica e legittimava le possibili scelte di campo in ambito religioso. Non a caso nella sua Instruction chrestienne Pierre Viret individua nel principio della libertà la matrice dell’indifferentismo religioso[1]. Quel che stupisce in questa prima ondata di apologeti è che la loro battaglia ideologica sembra essere priva di puntuali referenti storici; i loro bersagli sono generici, imprecisati, riferibili più a potenziali tendenze o a possibili deviazioni o ad intere categorie di persone o di classi sociali che a soggetti storicamente individuabili. Non meno vaghi e indefiniti sono anche i contorni dottrinali delle forme di empietà da essi combattute. È vero che si può presumere che lo scrupolo religioso impedisse loro di sviscerare e di mettere a nudo le tanto esecrate dottrine ateistiche, ma non si può escludere che in mancanza di reali referenti storici gli apologeti tendessero a delineare i contorni dell’ateismo contemporaneo sulla base di quello antico, con particolare riferimento a Epicuro e a Luciano, ma anche a Plinio e al De natura deorum ciceroniano.

L’impressione complessiva è che la prima apologetica sia più il frutto di un allarme di credenti in buona fede che agitano lo spettro dell’ateismo o per un eccesso di timori e di paure incontrollabili o forse per indurre il potere politico a rafforzare i controlli in materia di religione e ad introdurre in Francia i canoni del Concilio tridentino. Si possono persino seguire le tappe di tale progressiva costruzione dell’ateismo. Charles de Bourgueville e Gentian Hervet si limitano ad una esplicitazione del significato etimologico: ateo è colui che ignora o non riconosce o nega Dio[2]. Jean de Neufville nel suo De pulchritudine animi (1556), scritto in Epicureos et atheos huius seculi in realtà polemizza contro Aristotele, Averroè e l’Afrodisio per poi aggiungere che gli atei negano la divinità come Diagora Melio e Teodoro di Cirene e l’immortalità dell’anima come Dicearco ed Aristosseno[3]. Aristosseno è un punto di riferimento anche per l’Athéomachie di Bourgueville[4]. Viret teme riviviscenze del pitagorismo e dell’epicureismo o comunque influenze pliniane, lucreziane e lucianesche[5]. In ogni caso il ricorso al pensiero antico è una costante. François Le Picard e Guy Le Fèvre de la Boderie identificano l’ateismo con la negazione della provvidenza probabilmente sulla scorta di Cicerone e di Averroè[6]. Gabriel Dupréau-Pratéolus e François de Foix si richiamano all’epicureismo e al lucianesimo per asserire che i cardini dell’ateismo sono il disconoscimento della provvidenza e il declassamento della religione a favole e ad imposture[7].

Talvolta le denunce degli apologeti sono incontrollabili e somigliano più a dicerie circolanti che a circostanze seriamente accertate o accertabili. Dupréau-Prateolus parla della setta degli atei non per averne conoscenza diretta, ma per averne sentito parlare in termini confidenziali da qualcuno che a sua volta è portatore di versioni indirette[8]. Henri Estienne collega l’ateismo alla negazione della divinità di Cristo, tenendo probabilmente presenti le polemiche di Celso e di Giuliano[9]. Più spesso l’ateismo è associato alla depravazione morale, alla magia, alla stregoneria, al satanismo e persino al sapere medico. Per Melchior de Flavin la diffusione dell’empietà rientra nelle strategie di Satana, l’eterno deuteragonista di Dio[10]. Per Johann Brenz Satana è responsabile della negazione dell’immortalità dell’anima[11]. Per Noel du Fail l’«artifice de Satan» consiste invece nella negazione della divinità di Cristo da parte dell’ateo, dell’ebreo, del pagano e del musulmano[12]. Talvolta il confine tra l’apologetica e la caccia alle streghe diventa quasi impercettibile. I fautori di tale caccia, da Jean Bodin a Nicolas Rémi, da Lambert Daneau ad Ambroise Paré, ad Henri Boguet, ne parlano in termini trionfali. Per Pierre Le Loyer la stregoneria è una delle tappe intermedie che conducono all’ateismo[13].

Il mito, accettato da Minois[14], di una borghesia razionalista, illuminata, pronta a scollarsi di dosso il fardello delle credenze religiose, crolla non appena si rifletta sul fatto che essa è asserragliata nei parlamenti e nei tribunali che fanno strage di streghe e di maghi. Emmanuel Le Roy Ladurie[15] vuole che il xvi secolo sia caratterizzato dalla tendenza a perdere la credenza in Dio e a conservare quella nel diavolo. In realtà il satanismo è, quanto l’ateismo, una delle ossessioni da cui si rivela attanagliata una mentalità religiosa fanatica che si sente assediata dal male. Con l’approssimarsi della fine del secolo l’allarme sull’ateismo si fa sempre più insistente. François de La Noue nei suoi Discours politiques et militaires ingigantisce la cifra degli atei; tra essi egli include, nell’ottica di un’etica protestante intransigente, i lettori di Machiavelli o dei romanzi licenziosi o chiunque nelle città, tra le armate o a corte vive spensierato inseguendo le gioie della vita e respingendo gli umori della melanconia. Egli è il primo ad accennare esplicitamente all’atteggiamento nicodemistico o comunque ipocrita dei libertini e a tratti sembra fare riferimento al lathe biosas dell’età alessandrina[16].

Sui contenuti dell’ateismo sembrano convergere La Noue e Pierre de La Primaudaye per i quali l’ateismo coincide con il programma stoico-epicureo del vivere secondo natura o secondo ragione e con lo sconfinamento delle sacre scritture nel mito e nella favola[17]. Nel De l’ame di Pierre Crespet l’ateismo è ritenuto appannaggio dei militari, degli ambienti di corte e del mondo della cultura e le fonti di ispirazione sono individuate in Plinio e in Cicerone[18]. Per Philippe Du Plessis-Mornay, che ha spunti di tipo mistico o derivanti dalla teologia negativa, la matrice dell’ateismo è nei piaceri carnali e mondani e nel desiderio di affrancarsi dallo scrupolo etico-religioso. La sua strategia apologetica consiste nel respingere ogni velleità razionalistica trincerandosi dietro la inaccessibilità e la soprarazionalità del divino, nell’apprezzare l’ateismo antico, in particolare l’evemerismo, per aver confutato la religione pagana e nel piegare entro i limiti del possibile l’aristotelismo alle istanze della teologia cristiana. Nei capp. xxx-xxxii della sua Vérité de la religion chretienne risfodera tutto l’armamentario cirilliano e origeniano contro Celso e Giuliano e confuta le tesi anticristiane di origine pagana e quelle desumibili dal Talmud e dal Corano[19]. Pierre Charron riconosce dal canto suo che l’ateismo puro è estremamente raro e richiede, se non è un atteggiamento passeggero, una notevole forza d’animo[20]. E con il canonico teologale di Condom siamo forse ricondotti alle reali dimensioni del problema. Sicché l’apologetica del Cinquecento, con le sue esagerazioni e le sue artificiose costruzioni, sembra essere il prodotto di spiriti religiosi, cattolici o protestanti, sinceramente credenti i quali sentono vacillare le proprie tradizionali certezze. Ma anche così intesa essa resta il segno di una profonda crisi della fede.

Il processo vaniniano rappresenta una svolta decisiva. La crisi religiosa a lungo paventata prende ora corpo e consistenza. L’ateismo non è più uno spettro, non più un potenziale pericolo, ma ha in Vanini un referente storico oggettivo. L’ateismo antico rivive e riesplode in forme moderne. Non è solo un complesso di dottrine religiose ad essere messo in crisi, ma sono altresì intaccati gli strumenti concettuali e le stesse strategie intellettuali e logico-argomentative della teologia cristiana. Via via che i nuovi apologeti approfondiscono l’affaire Vanini scoprono che i capisaldi della fede, dalla creazione all’immortalità dell’anima, dalla esistenza e provvidenza di Dio alla salvezza eterna, cadono sotto i colpi della spregiudicatezza intellettuale di un filosofo che si pone esclusivamente nell’ottica della ragione naturale. Il suo razionalismo radicale non risparmia neppure i testi sacri. E l’allarme è tanto più grave quanto più ci si accorge che Vanini non è un intellettuale isolato, ma è a stretto contatto con circoli culturali forse lionesi, certamente parigini e tolosani, in cui è presumibile che le sue idee abbiano fatto proseliti. Le protezioni di alto rango godute a Parigi e a Tolosa e le influenze esercitate sui poeti della cerchia del Viau, sugli autori del Parnasse satirique, sul Sorel dell’Histoire comique, fanno pensare ad un fenomeno di dimensioni più ampie e forse difficilmente contenibile. Garasse non esita a parlare di una «banda di ateisti» appena formatasi intorno a Vanini.

Quella crisi della coscienza europea che per quasi un secolo era stata solo latente, ora si manifesta in tutta la sua gravità. Ne sono allarmati gli ordini religiosi. I vertici dell’Ordine dei Minimi incaricano Mersenne di imbracciare le armi intellettuali. Questi si mette subito all’opera e raccoglie fin dal 1619 i materiali utili per la sua battaglia che, dalle Quaestiones in genesim (1623) all’Impiété des deistes (1624) e alla Verité des sciences (1625), si estende progressivamente da Vanini ad altri pensatori, come Machiavelli, Charron, Campanella, Fludd, l’anonimo autore dell’anti-Bigot e Bruno.

L’apologetica mersenniana ha insieme punti di contatto e di divergenza con quella dei decenni precedenti. Ha in comune l’abuso del termine ateo o ateismo, applicato in modo da rendere uniformi e convergenti posizioni ideologiche diversissime, fino a confondere in un unico calderone empietà, blasfemia, eresia, agnosticismo, panteismo, forme disparate di ateismo, e persino credenze religiose diverse dalla cattolica. Comune è anche l’esagerazione dei dati relativi alla diffusione dell’ateismo: in una città come Parigi che contava all’incirca 500.000 abitanti il Minimo calcola 50.000 atei e addirittura ritiene che talvolta sia possibile trovarne una dozzina in un’unica famiglia. Anche per la pars construens egli è in gran parte in debito verso le sue fonti, poiché da esse sono desunte in gran parte le sue argomentazioni a favore della creazione, della provvidenza e della immortalità. Né meno risoluto e intransigente dei suoi predecessori si mostra Mersenne verso pensatori come Vanini e Machiavelli, che sono ai suoi occhi i Diagora e i Teodoro del suo tempo da sottoporre ai «dovuti supplizi» per essere consegnati al boia non senza aver destinato i loro libri «alla totale distruzione».

Due, invece, gli elementi di novità. Il primo, di grande rilevanza, è rappresentato dal suo tentativo di conciliare la teologia e la scienza. Ciò che fa del Minimo un intellettuale aperto alle istanze del mondo moderno ed uno dei punti focali della circolazione e della trasmissione della cultura europea della prima metà del Seicento. Il secondo elemento è dato dalla scrupolosità e minuziosità dell’analisi delle dottrine confutate. Tutta la prima Quaestio, che si dilunga per circa 674 densissime colonne è in gran parte volta alla demolizione delle dottrine vaniniane con ampia citazione dei testi che raggiungono quasi un quarto dell’intera produzione vaniniana a noi pervenuta. Mersenne mostra di avere una conoscenza puntuale tanto dell’Amphitheatrum quanto del De admirandis e individua la loro pericolosità nella strategia dissimulatoria adottata dal Salentino; il veleno dell’ateismo vi è propinato entro contesti protettivi, nella finzione di un discorso apologetico, in cui gli atei anziché essere confutati ne escono vincitori; e viceversa le più consolidate argomentazioni della tradizione teologica sono indebolite tanto da non reggere il confronto con le obiezioni ateistiche che invece sono solidamente puntellate e fiaccamente respinte.

A differenza di Mersenne, l’apologetica garassiana è di natura prettamente polemica. Il gesuita non si preoccupa di rifondare il sapere teologico, ma intende solo demolire le perniciose dottrine degli esprits forts. Per la verità né Mersenne, né Garasse sembrano essere vincenti nella loro battaglia ideologica: le loro confutazioni sono quasi sempre poco efficaci e produttive o comunque sono tali da non intaccare la trama argomentativa del Vanini. Se le strategie di Mersenne sono, come dire, di repertorio, quelle di Garasse ricorrono all’offesa, al dileggio, al sarcasmo, alla denigrazione e, talvolta persino, alla menzogna. Ma sia nell’uno che nell’altro caso non può assolutamente sorgere il dubbio che l’ateismo vaniniano sia un artificioso prodotto della loro apologetica. Essi non inventano nulla; anzi, l’abbondanza delle citazioni dei testi vaniniani è tale da escludere come assolutamente arbitraria e antistorica una ipotesi di tal genere. Il bersaglio principe di Garasse è il De admirandis. Le poche citazioni dell’Amphitheatrum riguardano quella che egli chiama prefazione, ma che è in realtà l’epistola al candido lettore, che è, ai suoi occhi, zeppa di ipocrisia (p. 311, 972, 1015). A p. 1007 dà l’impressione di ritenere che l’Amphitheatrum abbia un impianto apologetico perché dice che Vanini lo scrisse nelle vesti di un cattolico, ma a distanza di qualche pagina precisa che si tratta di una strategia dissimulatoria perché l’opera, pur sembrando scritta contro gli atei, è in realtà un’introduzione all’ateismo (p. 1009). Nessuna incertezza invece sul De admirandis. Garasse coglie, forse più e meglio di Mersenne, il carattere eversivo dei dialoghi vaniniani sulla resurrezione dei morti, sugli oracoli, sulla prima generazione dell’uomo, sugli indemoniati, sugli auguri, sulle apparizioni e sulla religione dei pagani.

Certo è che Mersenne e Garasse hanno consegnato – loro malgrado – Vanini alla storia. Anziché sconfiggerlo e far cadere su di lui il silenzio, smascherandone le strategie, ne hanno amplificato la fama ed hanno finito col dare più ampia risonanza al suo pensiero. Sicché quei testi che già circolavano, come ci fa sapere Garasse, sotto la tonaca continuano da un lato ad essere oggetto di attenzione da parte dell’apologetica di Loyac, di Grenaille, di Silhon, di D’Abillon, di Coton, di Zacharie di Lisieux e di Raynaud, e dall’altro esercitano la loro influenza su pensatori come Naudé, Cyrano de Bergerac e La Mothe le Vayer e sulla letteratura clandestina dal Theophrastus redivivus al De tribus impostoribus, per riafforare alla piena luce del sole nella vasta temperie culturale dell’Illuminismo.  

iv. Vanini emblema del dissimulatore nelle battaglie teologiche

Vittima del processo di normalizzazione politica inaugurato da Luigi XIII e dal Richelieu, Vanini diventa il bersaglio principe di quella Renaissance catholique che puntò a ristabilire le verità della fede, l’esistenza e la provvidenza di Dio e l’immortalità dell’anima, che erano state demolite dal Salentino. Gli attributi che gli vengono assegnati come campione di ateismo si sprecano. Egli è di volta in volta il Capaneo, il Cesare, il patriarca, l’aquila, l’apostolo dell’ateismo. In lui si vuole che siano confluite tutte le più perniciose deviazioni delle eresie tardo-cinquecentesche. Egli è, per dirla con Garasse, l’abrégé di ogni forma di miscredenza e a lui, come campione delle tecniche dissimulatorie, fanno ricorso i libertins érudits. La lettura dei suoi libri è per lo più clandestina. Coloro che li leggono evitano di parlarne in pubblico per il timore di incorrere nelle maglie della legge. Buchel segnala l’Amphitheatrum a van Baerle, il quale ne dà conto per lettera. Mersenne non si dà pace finché Vanini non sia stato adeguatamente confutato. Non contento forse degli esiti da lui conseguiti nelle Quaestiones, mette in allarme altri intellettuali, come Descartes e Voetius. Secondo Schwelling egli avrebbe addirittura suggerito a Descartes di scrivere le Meditationes per demolire i cardini dell’ateismo vaniniano. Grandissimo, fino a sfiorare l’ossessione, è soprattutto il timore che le sue tecniche dissimulatorie possano essere un utile strumento per far passare dottrine perniciose. Nella Querelle d’Utrecht, che vede coinvolti Descartes, Gisbert e Paul Voet, Martin Schoock e Samuel Desmarets, Vanini è lo spettro intorno a cui si agitano tutte le accuse: dall’una e dall’altra parte si avanza il sospetto della dissimulazione; gli uni e gli altri avrebbero, come Vanini, propagandato l’ateismo, fingendo di combatterlo. Descartes è sospettato di essere alter Vaninus. L’ombra del pensatore taurisanese pesa su chiunque scriva di ateismo. Descartes non esita a segnalare che siffatti sospetti finiscono col renderne rischiosa e persino impossibile la confutazione. Le medesime accuse erano state rivolte da Théophile de Viau a Garasse ed erano state al centro delle polemiche tra Garasse, Louis Guez de Balzac e François Ogier. La realtà è che la Renaissance catholique del Grand siècle o del Siècle des saints fu resa possibile solo nella misura in cui si respinse –con Mersenne e Descartes - il razionalismo radicale del quale l’ateismo vaniniano rappresentava la punta più estrema e nella misura in cui lo si arginò facendolo scorrere nel terreno underground della letteratura clandestina o entro i confini di una libertà puramente privata come accadde nel conservatorismo politico dei libertins érudits.

Indice

(l’ordine cronologico, almeno per alcuni testi, si riferisce alla data di produzione e non di pubblicazione)

1619

1- Histoire Véritable de tout ce qui s’est fait et passé depuis le premier janvier 1619, Paris, Alexandre, 1619.

2- Mercure François, t. v, Paris, Richer, 1619.

3- D’Autreville, Inventaire général des affaires de France, Paris, Ian Petit-Pas, 1620.

4- C. Malingre, Histoire générale des derniers troubles, Paris, Ian Petit-Pas, 1622.

5- Histoire véritable de l’exécrable docteur Vanini, Paris, Soubron, 1619.

6- F. De Rosset, Les Histoire mémorables et tragiques, Histoire v, Paris, Chevalier, 1619.

7- G. de Catel, Lettera a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc del febbraio 1619.

1621

8- J. Gaultier, Table chronographique de l’Estat du Christianisme, Lyon, Rigaud, 1621.

1622

9- M. A. De Dominis, Lettera a Giacomo I d’Inghilterra dell’11 febbraio 1622.

1623

10- M. Mersenne, Quaestiones in Genesim, Paris, Cramoisy, 1623.

11- Ch. Sorel, Histoire comique de Francion, Paris, Billaine, 1623.

12- Effroyables pactions faictes entre le diable et le pretendus Invisibles, 1623.

13- G. Naudé, Instruction à la France, Paris, Iulliot, 1623.

14- F. Garasse, La doctrine curieuse, Paris, Chapelet, 1623.

15- F. Ogier, Iugement et censure du livre de la doctrine curieuse, Paris, 1623.

16- F. Garasse, Lettres justificative del 6 novembre 1623.

17- M. Molé, Mémoires, t. i, Paris, Renouard, 1855.

1624

18- F. Garasse, Apologie, Paris, Chappelet, 1624.

19- J. de Silhon, Lettre à l’evesque de Nantes, 1624.

20- M. Mersenne, L’Impiété des Déistes, t. i, Paris, Bilaine, 1624.

21- M. Mersenne, L’Impiété des Déistes, t. ii, Paris, Bilaine, 1624.

22- Théophile de Viau, Apologie, 1624.

23- A. Remy, Deffence pour Estienne Pasquier, Paris, Ruelle, 1624.

24- F. Garasse, Epistre à Monsieur d’Oignon, Paris, Quesnel, 1625.

1625

25- F. Garasse, La somme théologique, Paris, Chappelet, 1625.

26- Ch. Besold, Dissertatio politioco-juridica de Majestate, Argentorati, Zetzner, 1625.

1626

27- J. de Silhon, Les deux vérités, Paris, Sonnius, 1626.

1628

28- R. Burton, The anatomy of melancholy, London, Crips, 1628.

29- Von dess Doctoris Julii Caesaris Vanini, sonsten Luciolus genandt, erschröcklicher gottloser Lehr, in M. Zeiller, Theatrum tragicum, Tübingen, Brunn, 1628.

1629

30- Ch. Cotin, Discours à Theopompe, 1629.

31- R. Fludd, Sophia cum Moria certamen, Frankfurt, Rötel, 1629.

1630

32- E. Richer, Vindiciae doctrinae, Coloniae, Egmond, 1683.

33- R. Descartes, Lettera del 17 ottobre 1630.

34- M. Mersenne, Questions rares et curieuses, Paris, Billaine, 1630.

1632

35- G. Franzosi, De divinatione per somnium, Francofurti, Beyer, 1632.

1634

36- J. de Silhon, De l’immortalité de l’ame, Paris, Billaine, 1634.

1635

37- C. Clemens, Musei, sive Bibliothecae, Lugduni, Prost, 1635

38- J. J. De Loyac, Le libertin converty, Paris, Toussainct du Bray, 1635.

39- J. A. de Richelieu, Mémoire, mss.

40- J. Gaches, Mémoires mss.

41- S. Dupleix, Histoire de Louis le Juste XIII, Paris, Sonnius, 1635.

1637

42- J. Cluver, Historiarum totius mundi Epitome, Lugduni Batavorum, Marcus, 1637.

43- F. de la Mothe le Vayer, Petit discours de l’immortalité de l’ame, Paris, Courbé, 1637.

1639

44- G. Voet, De atheismo, Utrecht, Roman, 1639.

1641

45- H. Sponde, Annalium Emin.mi Card. Caes. Baronii continuatio, Lutetiae, La Noue, 1641.

46- A. D’Abillon, La divinité defendue, Paris, Iosse, 1641

47- M. Ruar, Lettre à Mersenne del 13 settembre 1641

48- M. Mersenne, Lettre à Ruar del 1° dicembre 1641.

1642

49- F. Grenaille, La mode ou le charactère de la religion, Paris, Gasse, 1642.

1643

50- G. Patin, Lettre à Ch. Spon del 16 novembre 1643.

51- G. B. de Gramond, Historiarum Galliae, Toloae, Colomerius, 1643.

52- M. Schoock, Admiranda methodus, Utrecht, Waesberge, 1643.

53- R. Descartes, Epistola ad cel. virum Gisbertum Voetium, Amsterdam, Elzevir, 1643.

1645

54- R. Descartes, lettera del 16 giugno 1645.

55- S. Desmarets, Ultima patientia, Groningae, Nicolai, 1645.

1646

56- M. Schoock, Necessaria et modesta defensio, Groningae, Nicolai, 1646.

57- S. Desmarets, Bonae fidei sacrum, Groningae, Nicolai, 1646.

1647

58- C. van Baerle, Epistolarum liber, Amsterdam, Blaev, 1647.

1650

59- Naudaeana et patiniana, Paris, Delaulne, 1701.

60- Patiniana, ms. 7071 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna.

1653

61- Zacharie de Lisieux, Saeculi genius, Paris, Cramoisy, 1653.

62- Th. Raynaud, Erotemata de malis ac bonis libris, Lugduni, 1653.

1655

63- Ch. Sorel, La science universelle, t. iv, Paris, Le Gras, 1655.

1657

64- L. Guez de Balzac, Socrate chrestien, Paris, Courbé, 1657.

65- G. Tallemant des Reaux, Historiettes, t. i, Paris, Levavasseur, 1834.

1690

66- J. E. Schwelling, Exercitationes cathedrariae, Bremae, Brauer, 1690.