Miguel A. Granada

"BLASPHEMIA VERO EST FACERE DEUM ALIUM A DEO".
LA POLEMICA DI BRUNO CON L'ARISTOTELISMO
A PROPOSITO DELLA POTENZA DI DIO

Presentazione dell'intervento

Neque distinctionem potentiae in absolutam et ordinatam, vel ordinariam introducamus illo [i. e. Deo], ubi non libertatem protestetur, sed implicet apertam contradictionem. Est perfectio in nobis (si ita placet) ut possimus multa facere quae non facimus: blasphemia vero est facere Deum alium a Deo: voluntatem eius aliam atque aliam, unam quae currit cum potentia, aliam quae abhorreat a potentia, in melius contradictoriorum alterum, vel deterius (De immenso, III,1).

Agens [Deus] aut erit vis eius, sicut posse eius, et posse eius, sicut voluntas eius, et voluntas eius, sicut sapientia eius; aut erit vis debilior ipso posse, et posse debilius voluntate, et voluntas debilior sapientia. Et si aliqua harum potentiarum fuerit debilior alia, tunc causa prima absque dubio, non erit inter eam et nos aliqua differentia, et sequeretur ei diminutio, sicut sequitur nobis. Et hoc est nimium inconveniens (Averroè, Destructio destructionum, trad. di Calo Calonymos, disp. 3).

Il cosidetto 'postillatore napoletano', in nota allo Spaccio de la bestia trionfante, indicava la concezione di Dio e del mondo sostenuta da Bruno come la "theologia ben cattiva del Nolano". Si esprimeva così, in questo lettore di fede riformata, la rottura di Bruno con la teologia cristiana. Come risulta anche dalle annotazioni critiche dello stesso postillatore al De l'infinito, in questo dialogo Bruno stabilisce la necessità di una produzione infinita di Dio, sia sul piano dello spazio che su quello del tempo (l'universo infinito è omogeneo nello spazio e nel tempo, quindi eterno), mediante la negazione della celebre distinzione scolastica (propria del pensiero teologico cristiano dal sec. XIII in poi) tra potentia absoluta e ordinata di Dio. Secondo questa distinzione, come conseguenza della libera volontà del creatore, l'universo fisico non è l'attuazione di tutta la sua infinita potenza, ma un mondo finito e unico: quello descritto da Aristotele.

Nel De immenso et innumerabilibus del 1591 (in particolare nei due primi libri), Bruno ritorna, in maniera più estesa ed articolata, sulla dottrina esposta nel De l'infinito. Il rifiuto della distinzione scolastica, nel De immenso, è connesso alla rivendicazione dell'unità e semplicità di Dio, che implicano un'identica estensione dei suoi attributi, per cui nella divinità la potenza non può essere più ampia che la volontà ad extra; questo rifiuto va inoltre ricondotto all'esigenza di una adeguata concezione della libertà divina, identica alla necessità e scevra da ogni deformazione antropomorfica ("sed illius generis est libertas [Dei], quae idem est quod ipsa necessitas", De immenso, I,12).

Questa concezione filosofica di Dio - fatta eccezione per il dato fondamentale dell'infinità del cosmo in essa implicato - non è poi molto diversa da quella dell'averroismo, e va ricondotta all'adozione da parte di Bruno del principio platonico della pienezza e della necessaria diffusione del bene divino: ciò comporta, nella prospettiva del Nolano, che l'universo corporeo, infinito in atto, non sia soltanto possibile, ma sia anzi l'effetto necessario della bontà e della potenza divine. In questo modo, la rappresentazione bruniana dell'universo e del suo rapporto con la causa prima è dominata dai principi fondamentali dell'infinito e della sua necessità. Bruno fornisce così un fondamento metafisico-teologico alla sua sostanziale interpretazione in senso infinitista della cosmologia copernicana e svolge una critica sistematica della concezione aristotelica di un cosmo finito e gerarchizzato.

Accettando il principio teologico cristiano dell'infinità di Dio e di tutti i suoi attributi, Bruno giunge ad una critica radicale della tradizione aristotelica, nelle due correnti (d'altra parte contrapposte fra loro) dell'aristotelismo filosofico (averroismo) - che sostenendo il moto intensivamente finito trasmesso al mondo (finito e unico), veniva a negare l'infinità di Dio e della sua potenza - e dell'aristotelismo teologico (la teologia scolastica) che, per difendere un'erronea concezione della libertà divina nonché il mondo unico e finito dello Stagirita, introduceva una frattura insanabile tra la potenza e la volontà di Dio, rendendo contraddittoria la stessa nozione del divino e sconfinando nell'empietà (blasphemia).

Il conflitto tra queste due correnti - e il superamento bruniano di entrambe nella prospettiva della necessaria produzione divina di un effetto infinito - si fa evidente nell'ambito della problematica concezione della potenza divina intensiva. La questione, discussa nel basso Medioevo, era stata oggetto di un'aspra polemica tra filosofi averroisti e teologi negli ultimi anni del Quattrocento e all'inizio del Cinquecento. Gli averroisti sostenevano infatti la potenza intensiva finita di Dio, partendo dalla necessaria correlazione tra causa ed effetto e dalla constatazione che il moto intensivo causato da Dio è appunto finito (il moto quotidiano del mondo); i teologi, invece, affermavano l'infinita potenza intensiva di Dio e spiegavano l'effetto finito come una manifestazione della libertà divina moderatrice dell'infinita potenza. Comune a entrambi era il principio della contradittorietà e quindi l'impossibiltà assoluta di un moto intensivo infinito, cioè della velocità infinita o moto in instanti.

Al contario, Bruno afferma sia l'infinità estensiva ed intensiva della potenza divina (con i teologi), sia la necessità di una correlazione tra potenza e volontà, causa e effetto in Dio (con gli averroisti). In questo modo egli può sostenere contro questi ultimi l'infinità di Dio e dell'universo, e con essi rifiutare ogni distinzione nella potenza divina, affermando, contro tutti gli aristotelici, la necessità di un effetto sempre infinito di essa.

In opposizione ai filosofi averroisti Bruno sostiene quindi l'infinità della potenza intensiva di Dio, ma nel rifiutare l'appello dei teologi alla sua libera scelta e alla volontaria 'limitazione' della sua potenza, egli deve riconoscere che Dio produce (con l'universo estensivamente infinito) anche un moto intensivo infinito. In questo modo, un problema di tradizione secolare veniva superato, sulla base della constatazione che i moti sono sempre moti di corpi particolari e l'infinito è necessariamente immobile. Ciò nonostante il Nolano - nell'intento di rifiutare in modo definitivo e radicale le posizioni aristoteliche - accetta la conseguenza del moto intensivo infinito dell'universo e quindi lo 'scandalo' del moto istantaneo o velocità infinita.

Bruno, facendo proprio il motivo cusaniano della coincidentia oppositorum, ritiene che questo moto intensivo infinito del tutto sia la stessa cosa che la quiete: "il principio infinito è quello che insieme muove et ha mosso; onde secondo quella raggione il corpo mobile non meno è stabilissimo che mobilissimo [...]. In conclusione questi corpi [gli astri] essere mossi da vertù infinita, è medesimo che non esser mossi; per che movere in istante et non movere è tutto medesimo et uno" (De l'infinito, I).

In questo modo, le pagine conclusive del primo dialogo del De l'infinito, che hanno sempre suscitato perplessità fra gli interpreti, e sono state spesso considerate 'superflue' se non addirittura assurde, vengono restituite come pienamente pertinenti alla discussione sull'infinita potenza divina e alla dimostrazione a priori (cioè dall'"attiva potenza de l'efficiente") della necessità di un universo infinito. Con quella conclusione Bruno ha sottratto agli aristotelici teologi ogni possibilità di recuperare la distinzione fra potentia absoluta e ordinata di Dio e quindi di 'bestemmiarlo' doppiamente: prima affermando l'universo finito, poi col "facere Deum alium a Deo".

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Nicoletta Tirinnanzi

IL CANTICO DEI CANTICI NEL DE UMBRIS IDEARUM

Presentazione dell'intervento

Studi recenti hanno sottolineato l'importanza di un testo quale il Cantico dei cantici nella riflessione di Bruno: si tratta, per molti versi, di una lettura fondamentale, destinata a segnare in profondità il filosofo di Nola, che già nel 1582 introduce la prima e più densa sezione del De umbris idearum ricordando - con toni altamente positivi - il poema del "sapientissimus Hebraeorum". Non molto tempo dopo, negli Eroici furori, i versi del Cantico (un'opera che - è utile ricordarlo - era assai letta e commentata nell'Inghilterra di quegli anni) ricorrono di nuovo, a illustrare passi di grande portata speculativa; del resto, a confermare la fitta trama di rapporti tra i due testi, l'autore stesso nota che il dialogo, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto chiamarsi Cantica. Ancora: nel De monade, all'interno di una analisi dai toni schiettamente platonici, incentrata sulla tensione tra lux e tenebrae, le battute della Sulamita fanno da contrappunto alle dottrine vane di quanti hanno visto nell'ombra nient'altro che il "prope nihil" in cui si estenua la pienezza dell'essere.

Dagli scritti parigini fino ai poemi francofortesi, dunque, il Cantico dei cantici continua ad agire a vari livelli sul pensiero di Bruno. E' infatti chiaro che i riferimenti al poema di Salomone si intrecciano, nelle singole opere, a tematiche diverse, ed assumono un senso specifico in relazione agli obiettivi che, volta per volta, emergono: e tuttavia, a ben vedere, è possibile scorgere un tratto comune, pur nella molteplicità dei toni. Nel De umbris, i versi del Cantico alludono allo scarto tra essere assoluto ed essere comunicato; nei Furori, esprimono la consapevolezza di una vicenda interiore straordinaria, che può rivelarsi solo sotto i veli dell'esperienza amorosa. Con accenti non dissimili, nel De monade, le parole di Salomone portano in primo piano la centralità dell'ombra, nodo tra temporale ed eterno, in cui si comunica una luce altrimenti inaccessibile. Già da questi rapidi sondaggi è forse possibile notare come il Cantico dei cantici, nell'interpretazione di Bruno, diventi archetipo della dissimmetria tra finito e infinito: nei versi del poema sono dunque delineate in forma icastica le tappe del percorso - arduo, difficile e mai perfettamente concluso -, per cui l'uomo si sottrae alla vanitas e riafferra, sia pur in modo umbratile, il "primo vero e bene".

Non si tratta, in questo senso, di temi originali: a partire da Origene, tesi simili erano già state sviluppate con vigore particolari dai Padri della Chiesa, che nella loro esegesi del Cantico avevano intrecciato le vicende narrate nel poema con il motivo, platonico e neoplatonico, dell'ombra. In questa prospettiva teorica, l'immagine biblica della Sulamita seduta nell'ombra dell'amato, era posta a sigillo della condizione strutturalmente umbratile in cui versa l'uomo nel corso della sua vita terrena; ma allo stesso tempo, in quanto figura dell'Incarnazione, la "sessio sub umbra" poteva essere interpretata anche come emblema della forma suprema di comunicazione tra umano e divino. Sono suggestioni che percorrono le opere dei commentatori: da Origene a Gregorio di Nissa, da Agostino a Gregorio Magno, a Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry.

Una tradizione antica, dunque, che Bruno poteva avere ben presente: non solo i commenti al Cantico dei cantici circolavano largamente, ma anche l'edizione curata da Erasmo delle opere di Girolamo conteneva, tra l'altro, la versione latina delle due prediche e dell'ampio commento di Origene al Cantico, commento che lo stesso Girolamo aveva tradotto in forma di omelie separate.

Non stupisce, pertanto, che il ragionamento svolto da Bruno nella prima opera parigina si arricchisca di termini e concetti propri dell'esegesi del Cantico: quello che interessa, piuttosto, è notare come tra le numerose suggestioni che sono offerte dal poema - e che troveranno espressione in seguito negli Eroici furori -, una sola sia l'immagine che si impone fin dall'inizio. Nel De umbris idearum, infatti, l'attenzione di Bruno è tutta concentrata su un unico verso del Cantico: "sub umbra eius quem desideraveram sedi". E' a partire da questo spunto teorico - destinato a tornare, a distanza di poche pagine, in passi di grande rilievo - che Bruno elabora il duplice motivo dell'ombra come limite costitutivo e come luogo di una esperienza 'eccezionale'. Non solo: accanto a richiami generici, è possibile leggere nella filigrana del testo di Bruno richiami espliciti alle opere di due grandi commentatori del Cantico. Nella riflessione svolta in quest'opera, il Nolano impiega a più riprese materiale tratto dagli scritti di Origene e di Bernardo - un autore che, a sua volta, era stato attento lettore del filosofo alessandrino, soprattutto in relazione al tema cruciale dell'ombra.

Attraverso un confronto testuale tra la prima sezione del De umbris idearum - in particolare, le Intentiones I, VI, XV e XVI -, il terzo libro del commento origeniano al Cantico e i Sermones XXI e LXVIII Super Cantica di Bernardo, la relazione tenterà dunque di delineare il rapporto di Bruno con questi autori, la cui influenza, riscontrabile in tutta la parte iniziale dell'opera, si fa fortissima nell'Intentio XV e nell'Intentio XVI, dove il confronto si articola intorno a parole chiave come umbra e fides e investe direttamente la coppia di termini nudum / involutum.

Una influenza netta, ma che agisce a livelli dissimili: si va infatti da suggestioni o echi di lettura, a citazioni criptiche o parafrasi di porzioni di testo, che si alternano secondo un gioco continuo di avvicinamento e di allontanamento dalla fonte. Eppure, anche in presenza di veri e propri calchi lessicali, Bruno è sostanzialmente 'infedele' alle fonti cui si ispira, e che confluiscono in un quadro teorico profondamente mutato. A tale riguardo, è sintomatico che nell'analisi di Bruno sia del tutto assente un motivo canonico, collegato originalmente, e presente con forza particolare negli scritti di Bernardo, secondo cui l'immagine della Sulamita nell'ombra dello sposo esprime una condizione certo eccezionale, ma non ancora perfetta. Grado intermedio di un processo destinato a concludersi nella luce piena, la "sessio sub umbra" trova il suo compimento nella fruizione dell'amato: di conseguenza, come ricorda Origene e come sottolinea esplicitamente Bernardo, il verso "sub umbra eius quem desideraveram sedi" non può essere scisso dalle battute che lo accompagnano - e lo completano -: "et fructus eius dulcis gutturi meo". Anche secondo Bruno, la Sulamita è simbolo di una esperienza straordinaria: tuttavia - e questo marca tutta la distanza che separa il Nolano dagli autori cui fa riferimento, sia pure in modo implicito - nel De umbris è proprio la capacità di sedere nell'ombra che costituisce la forma unica di perfezione cui l'uomo può aspirare. Su questo punto, la posizione di Bruno è netta già in apertura del De umbris: il migliore stato che l'uomo può conquistare in questo mondo è, in ogni caso, un'esperienza 'suprema' dell'ombra. In tale prospettiva, anche il motivo - sotteso a tutte le interpretazioni del Cantico di matrice origeniana - della coincidenza fra umbra e fides viene rielaborato in forme più complesse: espresso in termini assai vicini a quelli di Bernardo, il nodo che stringe insieme ombra e fede è posto da Bruno esclusivamente sul piano gnoseologico. Costretto nell'orizzonte dell'umbra e della vanitas, l'uomo può infatti riafferrare la verità solo sotto il velo delle rappresentazioni sensibili e delle congetture elaborate dalla ragione: solo in questo senso, dunque, la fides è presupposto necessario di una conoscenza sempre offuscata dall'ombra. Individuando nella fides il carattere costitutivo di ogni conoscenza, Bruno introduce un elemento del tutto nuovo nell'interpretazione della Sulamita: in quanto emblema di una conoscenza non ordinaria, la "sessio sub umbra" deve essere del tutto estranea ad ogni forma di fides. Sfuma così il motivo - ricorrente nei commentatori - della Sulamita come figura dell'umanità redenta: a giudizio di Bruno, infatti, la virago cantata da Salomone adombra una vicenda squisitamente individuale, che non si radica sulla fides, né ha origine dal dono gratuito di una divinità che accetta di rivelarsi, ma nasce dalla tensione - dall'"appulsus in mentem" - per cui l'uomo, in un tempo brevissimo, riesce a cogliere, oltre le ombre labili della vanitas, l'ombra stabile che si comunica all'intelletto e nella quale si cela il "primo vero" e il "bene soprannaturale e metafisico".

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Sandra Plastina

LEGGE E "VIRTÙ CIVILI" IN PATRIZI E BRUNO.
UN CONFRONTO TRA I DIALOGHI DELLA HISTORIA
E LO SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

Presentazione dell'intervento

Nel dialogo V Della Historia di Francesco Patrizi si affaccia il tema del disinteressamento morale e materiale della divinità nei confronti degli uomini. Tra gli dèi e gli uomini si instaura una sorta di dipendenza a rovescio: gli dèi paiono paradossalmente "versare nel medesimo teatro e rappresentare la medesima condizione, quia contraria versantur circa idem", parafrasando le parole che Momo nel dialogo II dello Spaccio bruniano pronuncia all'indirizzo della Povertà e della Ricchezza.

La visione amara e disincantata, delineata da Patrizi, del vasto teatro universale della storia, dove anche gli dèi si trovano a recitare una parte, è legata strutturalmente al tema dell'imitazione, che produce apparenze ingannevoli. Il rapporto uomo-divinità non può, infatti, stabilirsi al di fuori di una autentica ed efficace dimensione comunicativa. Le condizioni ideali di questo rapporto si erano realizzate nell'antichità del mondo, nel tempo mitico dei sapientissimi Persiani, degli Egizi e dei Traci - di cui Patrizi racconta nel primo dialogo della Retorica -, in cui gli uomini possedevano tutte le verità e tutte le virtù, e conoscevano il vero linguaggio e "per lo mezo di così fatto parlare, opravano le meraviglie e i miracoli". Il criterio dell'operatività del sapere e dell'efficacia delle azioni può essere la chiave di lettura per intendere, sia in queste pagine di Patrizi, sia nello Spaccio bruniano, il riferimento ai tempi in cui quegli antichi savi conoscevano "dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura".

Per Patrizi l'età felice, in cui voce naturale e voce divina erano fuse, non può esserci resa indietro; ma se non è possibile auspicare un ritorno, c'è ancora tempo per una riforma; sulle modalità e i tempi di questa riforma Patrizi si sofferma nei dialoghi centrali della Historia. Filosofia e storia, verità ed utile convergono, infatti, nella proposta patriziana di un sapere che sia operativo e veramente capace di tradurre "la lettione in attione". La storia, memoria universale del genere umano, e la filosofia, ricerca incessante della verità, congiuntamente, nel decimo dialogo della Historia, si propongono come mezzi per realizzare la "ratio beate vivendi", aprendo la strada alla realizzazione di un governo secondo i criteri della ragione. Entrambe promuovono le buone leggi e le "civili creanze", affinché si possa vivere in società e la comunità degli uomini ritrovi equilibrio nei valori e sicurezza nella pace, raggiungendo quella felicità umana che ottenuta, grazie alla virtù e alla "ragion pratica", merita la definizione di divina e beata.

Gli uomini, costretti a vivere nell'apparenza e nell'ombra, non possono che cercare di creare un nuovo equilibrio promuovendo le condizioni che permettono loro di vivere in comunità: le leggi e le "civili creanze" sono ciò che lega la città, impedendo la sua degenerazione nella violenza e nella paura. Dal momento che è preclusa agli uomini la sapienza profonda delle cose e la felicità perfetta ed ingenua dello stato di natura, alla sapienza è succeduta la legge "sua figlia, e per essa quella vuole oprare, e per questa lei vuole essere adoperata; per questa gli principi regnano e li regni e repubbliche si mantengono" - come afferma Bruno nello Spaccio. Uomini e dèi parlano, comunicano, dunque, non solo sul piano naturale, ma anche su quello civile. Nel primo caso attraverso le voci naturali, nel secondo attraverso le leggi. Esse sono le voci con cui gli dèi si rivolgono agli uomini. E lo fanno per puro amore dell'ordine e dello sviluppo umani. Gli dèi del IX dialogo della Historia, che provano piacere osservando le disgrazie degli uomini come in un teatro, sono il versante spietato e duro della divinità; ma la comunità degli uomini che vive seguendo le leggi e virtù civili conosce solo il dio giusto e potente.

Come in Patrizi anche nel dialogo bruniano la Sofia umana s'adopera per il ristabilimento della giustizia, inteso innanzitutto come ripristino di un corretto rapporto tra mondo umano e mondo divino. Le leggi, nella loro duplice accezione religiosa e politica, sono concepite come i canali privilegiati di comunicazione, e la divinità provvede all'uomo attraverso di esse, abdicando in qualche modo, nell'ambito civile, alla sua assolutezza. Dal momento che il fine proprio del mondo umano è quello di ritrovarsi all'interno della civile conversazione e dell'"umano convitto" a cui sono ordinate tutte le leggi, è necessario restituire alla legge il suo autentico significato. Bruno, infatti, si riferisce ad una legge insieme naturale e divina, intesa come legge superiore, a cui occorre rivolgersi affinché su di essa si regoli quella civile. Alla legge superiore, nel suo doppio significato religioso e civile è affidata la potestà di legare: "Questa, adattandosi alla complessione e costumi di popoli e genti, reprime l'audacia con il timore... Giove l'ha riposta in cielo ed essaltata con questa condizione, che faccia che gli potenti per la lor preminenza e forza non sieno sicuri; ma referendo il tutto a maggior provvidenza e legge superiore (per cui, come divina e naturale, si regole la civile) faccia intendere, che per coloro ch'esceno dalle tele d'aragne, sono ordinate le reti... Appresso gli ha ordinato ed imposto, che massimamente verse e vegna rigorosa circa le cose alle quali da principio e prima e principal causa è stata ordinata: cioè circa quel quel tanto ch'appartiene alla communione de gli uomini, alla civile conversazione".

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Paul Richard Blum

"SAPER TRAR IL CONTRARIO DOPO AVER TROVATO IL PUNTO DE L'UNIONE".
BRUNO, CUSANO E IL PLATONISMO

Presentazione dell'intervento

Il titolo di questa 'lettura' prende spunto dal celebre passo con cui Bruno chiude la sua esposizione della metafisica dell'Uno-Tutto nel quinto dialogo del De la causa. Il momento più alto della ricerca filosofica viene qui indicato nella capacità di rintracciare "il contrario dopo aver trovato il punto de l'unione" e non viceversa, nel cercare l'unità nelle diversità, come Bruno aveva sostenuto poco prima e come appare nella speculazione di stampo neoplatonico. Esaminata più attentamente, questo motto sugella l'interpretazione bruniana di Niccolò Cusano, che segue all'esposizione critica di Aristotele e Platone. L'intero dialogo può essere infatti interpretato sia come l'esposizione più completa della filosofia bruniana dell'Uno-Tutto, sia come l'espressione della volontà da parte dell'autore di proclamarsi come il vero filosofo, la cui speculazione è in qualche modo preparata da tutta la filosofia precedente. Questo motto può dunque essere assunto come chiave interpretativa della stessa 'retorica' con la quale Bruno rilegge l'intera storia della filosofia in funzione della sua speculazione. Conviene, dunque, tentare di capire quale uso - a prescindere dalle fonti filologicamente individuabili - Bruno faccia di autori come Platone o Cusano a conferma delle proprie posizioni.

Non c'è dubbio infatti che il Nolano non sia un "fedel relatore" di opinioni altrui, né tantomeno un filologo. Tenendo conto della tendenza ad inquadrare la filosofia nolana nella storia (anzi nella perennità) di certe idee, sembra opportuno, dopo aver trovato precisi punti di riferimento nella storia della filosofia, cercare le ragioni per le quali Bruno si richiami ad esempio a Cusano e a Platone. Nel caso di Aristotele questa esigenza è infatti ovvia: fino a tutto il Rinascimento, questi era ancora il Filosofo per antonomasia, con il quale era assolutamente necessario confrontarsi. Quanto a Platone - al quale Bruno non dedica esposizioni sistematiche come ad Aristotele - egli è citato solo raramente e a proposito di un numero ridotto di questioni. Spesso come accade per Ficino, che "è quasi sempre citazione occulta" (Rita Sturlese), anche Platone non è richiamato esplicitamente. Il Timeo sembra essere il testo platonico più citato nelle opere bruniane; l'occorrenza più frequente è quella relativa all'indissolubilità dei corpi celesti. In Ficino questo riferimento all'opinione di Platone non sembra implicare un preciso valore filosofico di rilievo, ma serve piuttosto a dedurre dall'immortalità degli astri quella dell'anima. Bruno, invece, si serve di questo concetto espresso nel Timeo a conferma della propria opinione circa la necessità che il mondo terreno, come tutti gli astri, abbia un'anima, che in qualità di primo 'efficiens' regge la materia. Questo richiamo sottintende il problema, connesso alla questione dell'immortalità delle anime create, se possa esserci una cosa creata che duri in eterno, posto che l'affermazione opposta (una cosa increata non eterna) è sicuramente insostenibile. Anche durante il processo romano Bruno ritorna, senza nominare Platone, sul problema della corruttibilità dei mondi (cioè gli astri). In questo caso, il Nolano sembra essere più vicino al pensiero platonico dello stesso Ficino, poiché indirizza l'attenzione del lettore verso la necessità teorico-scientifica di un principio di conservazione, mentre per Ficino - uno dei "Christiani Teologhi nutriti ne la disciplina platonica" - il testo del Timeo serve a confermare la realtà dell'anima del mondo.

Va osservato, del resto, che Bruno è talvolta critico severo di Platone, sia riguardo alla dottrina delle idee, sia in riferimento alla cosmologia geometrizzante del Timeo, fondata su un paradigma matematico della conoscenza. Nel terzo libro del De immenso, il Nolano intende 'smascherare' la circolarità e la regolarità del mondo platonico, indicandole come metafora e come modello teorico che si rivela non conforme alla realtà effettiva delle cose. Bruno ribadisce che qualsiasi teoria del mondo ha senso solo quando è in grado di comprendere tutto il reale, anche nelle sue particolarità e nelle sue prospettive non uniformi. Da questa interpretazione si deduce che il concetto di una natura geometrizzante è solo "fede e speranza".

Seguendo una serie di riferimenti interni nel De immenso, si osserva come essi riconducono direttamente al Cusano. Bruno rimanda infatti alla sua esposizione della dottrina cusaniana nel De la causa e alla sua "Inventione del minimo" (De minimo, III), ispirata al paradosso del minimo e del massimo del De docta ignorantia. Anche negli Articuli adversus mathematicos Bruno utilizza teoremi di ascendenza cusaniana per negare l'esistenza in natura di una sfera o di un circolo perfetti. Nel De minimo la composizione 'tecnica' (di raggio e circonferenza) del circolo conferma la sua composizione ontologica, cioè il fatto che il circolo non esista a prescindere dalla linea, mentre nella prospettiva platonica di un Ficino, il composto rinvia a una idea pura. Non meraviglia dunque il rifiuto bruniano dell'Idea platonica; egli attribuisce un senso alle idee solo nella prospettiva 'tecnica' dell'arte della memoria. A parte alcuni luoghi in cui Cusano viene elogiato esplicitamente, egli è comunque una fonte di primaria importanza anche in passaggi meno espliciti.

Il platonismo di Bruno non può dunque essere la scelta di una 'setta', di un'ideologia, di una scuola - o meglio, non di una sola. Prestando attenzione al modo in cui Bruno si richiama alla tradizione platonica e non alle singole dottrine specifiche, ci si rende conto che Platone, così come Cusano, rientra in qualche modo nello stesso sforzo operato da Bruno di integrare tutta la precedente tradizione filosofica nella 'filosofia', cioè quella nolana.

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Elisabetta Scapparone

RAPTUS E CONTRACTIO TRA FICINO E BRUNO

Presentazione dell'intervento

Le opere di Marsilio Ficino occupano certo un posto di rilievo nello 'scrittoio' di Giordano Bruno, nella biblioteca ideale che egli venne raccogliendo prima nel periodo del convento, a San Domenico Maggiore, quindi negli anni della lunga peregrinatio italiana ed europea. Si tratta di testi conosciuti in maniera puntuale e spesso a memoria, e utilizzati, dagli scritti parigini dei primi anni Ottanta alle ultime opere magiche, come arsenale di citazioni, allusioni, immagini suggestive, attraverso un confronto sempre serrato con l'interpretazione data da Ficino alle dottrine platoniche.

A partire da queste considerazioni, la relazione cercherà di indagare la ricorrenza e l'incidenza in Bruno di un nucleo tematico particolarmente rilevante all'interno della dottrina ficiniana. Intendo dire il nodo concettuale che ruota intorno al motivo della contractio, la forma suprema - e potente - di concentrazione intellettuale che l'anima acquista raccogliendosi in se stessa, e che coinvolge il tema - delicatissimo ed impervio - del rapporto fra corporeo ed incorporeo, della comunicazione fra Dio, uomo e natura.

Nel Sigillus sigillorum - sullo sfondo di un'analisi serrata del processo conoscitivo, di cui viene sottolineata con la massima energia anche polemica la sostanziale, profonda unità - la presentazione delle quindici specie di contractiones della mente umana è attinta in gran parte a quel libro XIII della Theologia Platonica, in cui Ficino intende mostrare l'esistenza di un potere eccezionale, di un dominium dell'anima sul corpo, testimonianza della sua origine divina e di un destino non mortale e transeunte. La caratterizzazione delle straordinarie possibilità che l'anima acquista contraendosi in se stessa, recuperando la sua unità originaria, è presentata da Ficino, coerentemente con la sua concezione della conoscenza, come liberazione dai vincoli stabiliti dalle facoltà inferiori, momentanea interruzione del contatto anima-corpo, che si attua, al suo grado supremo, nella divina abstractio dell'anima, secondo il modello altissimo del raptus paolino. Per Ficino, gli affectus rationis, ponendosi ad un livello superiore rispetto all'attività fantastica, rendono possibile la conoscenza di ciò che appartiene ad un ordine superiore a quello naturale, grazie alla comunicazione con le due series - mentium ed idolorum - che garantiscono l'inserimento della nostra anima nell'ordine universale. Ma l'azione - pure costante - di tali series sull'anima viene da essa percepita solo quando la ratio - luogo della percezione delle informazioni che fluiscono dai diversi livelli dell'essere - si rende disponibile a riceverli, abbandonando l'attività argomentatrice che le è propria. Da qui quella che Ficino chiama vacatio animi, la contrazione dell'anima in se stessa, volta a favorire, con la sospensione delle funzioni inferiori, l'accesso al mondo delle intelligenze superiori e la ricezione di influssi diversi, sia che essi coinvolgano, con l'idolum, la fantasia ed in genere la parte corporea dell'uomo, sia, con la mens, la sua parte più alta.

In tal modo, per Ficino, fatti comunemente ritenuti miracolosi possono essere ricondotti all'azione di cause, costantemente presenti, ma rese operanti solo qualora l'uomo si disponga ad esserne strumento. Ed egli insiste su questo processo, che implica per l'uomo di animo puro, non perturbato, la possibilità di cogliere gli impulsi superiori, sintonizzando su di essi il proprio istinto, così da "eadem velle ac nolle, quae cogitant superi".

Diversa, su questi temi, l'impostazione e la prospettiva bruniana, nonostante le corrispondenze tematiche e lessicali che stringono insieme Theologia ficiniana e Sigillus. Nelle pagine del Sigillus, dove ontologia, gnoseologia e prospettiva etica si intrecciano in nodi fittissimi, Bruno, pur utilizzando in maniera massiccia e sistematica queste pagine della Theologia Platonica, si muove in effetti in maniera decisamente originale. Il rifiuto di una concezione della conoscenza come scala gerarchica fondata sulla netta distinzione tra facoltà inferiori - legate al corporeo - e facoltà superiori - tese verso la mente divina - consente infatti a Bruno di unificare, naturalizzandole, sia le contractiones dovute ad affetti o timori che quelle legate ad esperienze mistico-ascetiche, ponendo all'origine di tutti questi fenomeni una causa comune, puramente naturale. D'altro canto, l'insistenza su una duplice specie di malinconia e la critica nei confronti di coloro che si lasciano dominare in maniera incontrollata dalla propria immaginazione apre la strada ad una critica aspra e serrata contro le forme degenerate dell'esperienza religiosa cristiana, sia nella versione cattolica che in quella riformata. A tali forme perverse si contrappone la contractio virtuosa, l'energia speculativa di Tommaso d'Aquino, così come la forza imperturbabile del filosofo, in grado di dominare e vincolare - grazie alla potenza dell'intelletto - la forza dell'immaginazione, fino a farsi "perfecte beatus".

Si tratta di temi rilevanti nel pensiero di Bruno, destinati a tornare - variamente declinati e ricomposti - sia nei dialoghi italiani che nelle opere magiche degli ultimi anni. Anzitutto, l'incidenza della teoria della contractio appare particolarmente significativa negli Eroici furori, dove la menzione esplicita del "libro De' trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazione" è collocata in un luogo strategico, precedendo immediatamente le celebri battute sull'identità tra facere e fieri al livello supremo del conoscere, "atteso che veder la divinità è l'esser visto da quella, come il vedere il sole concorre con l'esser visto dal sole". Un nesso, quello fra Sigillus e Furori, che - a partire dalle indicazioni di Felice Tocco - non è sfuggito all'attenzione della critica: e studiosi autorevoli hanno insistito con forza su questo punto anche in anni recenti. Ma non meno significativi appaiono i rapporti del Sigillus con altri testi di Bruno, dallo Spaccio alla Cabala alle opere magiche. In questi ultimi scritti - sui quali si insisterà in modo particolare - le problematiche gnoseologiche messe a fuoco già nella prima opera londinese si legano con la riflessione sui caratteri ed il primato operativo della magia, arte suprema, in grado di attivare le infinite potenzialità concentrate nell'anima mundi. E nella connessione fra ars magica e dottrina gnoseologica testimoniata con tanta chiarezza da questi scritti riveste un ruolo centrale la valutazione bruniana dell'immaginazione come luogo determinante sia per il destino della conoscenza sia per l'esito dell'operare magico.

La distinzione, delineata nel Sigillus, fra generi lodevoli e deteriori di contractio è quindi ripresa con precisione anche in alcuni passi del De magia e delle Theses, dove la costante polemica bruniana contro l'attesa e l'accettazione passiva di un contatto con la divinità viene coniugandosi - come già nel Sigillus - con la condanna della ricerca di un'unione con il divino che comporti la perdita del dominio di sé da parte dell'uomo, con l'esortazione a non essere schiavi, ma padroni e custodi dei poteri della propria immaginazione, con l'invito, insomma, a non collocarsi fra coloro "qui aguntur potius quam agant". Mentre la distinzione fra i diversi tipi di malinconia e le "più specie de furori", lungi dal tracciare un semplice percorso fra gli opposti estremi di follia e sapienza si lega in Bruno - in modo esplicito e diretto - alla individuazione e caratterizzazione di una sapienza deteriore intrinsecamente legata all'esperienza cristiana, soprattutto nella versione datane dalla Riforma.

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Barbara Amato

IL CONCETTO DI 'TERMINE' NEL DE MINIMO

Presentazione dell'intervento

Gli studi finora condotti sull'atomismo bruniano hanno rivolto la loro attenzione a ciò che costituisce il sostrato elementare di tale concezione, ovvero l'atomo, il minimo, il semen, riservando uno spazio poco più che marginale a ciò che è presentato da Bruno stesso come condizione di possibilità non solo dell'atomismo fisico, ma della genesi della grandezza in genere, che si ritiene costituita, in ambito fisico, geometrico ed aritmetico, da una struttura discreta. La rilevanza del 'termine', è ravvisabile a partire dall'Acrotismus Camoeracensis (Artic. XXXVI) laddove, accanto all'accezione di spazio contenente i corpi, si attribuisce al vuoto una ratio disterminandi, che lo rende atto a distinguere non solo fisicamente i corpi, ma anche rationaliter i numeri e gli enti matematici. Tuttavia è nel De minimo che si riconosce alla nozione di termine il ruolo di fondamento e si riserva pertanto ad essa un esame adeguato. Ciò è evidente sin dall'Epistola dedicatoria che, concepita da Bruno come introduzione all'intera trilogia, sebbene pubblicata successivamente al De minimo, dichiara quali elementi di quest'opera il 'termine', il 'minimo' e la 'grandezza'. La necessità della posizione del 'termine' nasce dall'esigenza di rendere inattaccabile la concezione discreta della quantità fisica e geometrica dalla persuasività degli argomenti a favore della divisibilità all'infinito del continuo "virtute vel actu", sostenuta in primo luogo da Aristotele. La matrice degli errori aristotelici consiste infatti per Bruno nel non aver distinto il 'minimo', che è la prima parte della grandezza, dal 'termine', sua estremità, grazie alla cui adimensionalità le parti si uniscono l'una all'altra e, nello stesso tempo, si distinguono reciprocamente, senza esser costrette a ridurre la loro mediazione ad un processo infinito. Di qui, l'argomentazione della tesi atomistica prende forma, nel poema francofortese, attraverso un assiduo susseguirsi di riflessioni sul 'termine', che non giungono tuttavia a determinare positivamente la sua natura, rivelando così la complessità, ma anche l'imprescindibilità di tale nozione. Tale è la dignità che assume il termine nell'intera trattazione del De minimo che la sua concepibilità diviene banco di prova della stessa concezione monadica che investe di sé il triplice livello contemplato dall'opera: fisico, geometrico, metafisico. Le difficoltà che si riscontrano nell'analisi della nozione di termine e le problematiche che ad essa si connettono coinvolgono infatti fondamenti concettuali comuni a tutta la riflessione bruniana. Le questioni relative al rapporto tra terminus e quantum, ovvero alla possibilità del darsi nel dimensionato di ciò che non ha dimensione, sono l'espressione fisico-geometrica della più generale relazione di identità-diversità. L'accidentalità del termine, con la quale Bruno cerca di rendere intelligibile tale rapporto, è sostenuta con molta cautela, dal momento che in base ad essa risulterebbe accidente del minimo il fondamento della sua individualità. In altri luoghi del poema Bruno afferma che il termine non appartiene né all'una né all'altra delle parti contigue, bensì è elemento indivisibile del vuoto interposto, il quale, in virtù della sua neutralità, può assumere la funzione di medio tra estremi differenti. Sotto altre spoglie viene così presentata la questione dell'indifferente nel suo rapporto con il differente, la stessa che soggiace alla concezione dell'Uno, sostanza indeterminata in cui hanno fondamento le molteplici determinazioni.

La trattazione del termine fornisce anche nuovi elementi per la comprensione del concetto bruniano di infinito, attraverso la dimostrazione dell'incompossibilità dell'uno con l'altro. La nozione di infinito, che esclude da sé non solo un termine esteriore, ma anche limiti interni - poiché l'infinito è uno, assoluto, indifferente, in atto - non trova rispondenza nell'infinito fisico-geometrico che può esser illimitato solo in direzione ascensiva: la divisione all'infinito della grandezza implicherebbe l'indifferenza di ogni quantità con l'altra perché ciascuna sarebbe la somma di un numero infinito di parti, ossia - per Bruno - una grandezza identicamente infinita.

L'impossibilità di determinare dei quanta avrebbe come immediata conseguenza la negazione di ogni possibilità alla scienza della misurazione. Il concetto di termine, importato senza alcuna modifica dalla fisica alla matematica, diviene, così, elemento determinante nella critica bruniana alla geometria contemporanea, che fondandosi sul continuum, divisibile all'infinito, ammette l'incommensurabilità delle grandezze e la dottrina degli irrazionali. Il continuo geometrico, sebbene affiori in taluni luoghi del De minimo (nel cap. I del Libro IV è il fluxus del punto che genera la lunghezza, che fluendo a sua volta genera la larghezza, la quale fluendo genera la profondità) viene esplicitamente soppresso da Bruno nel momento in cui gli enti geometrici euclidei, quali il punto, la linea, la superficie, vengono subordinati ai fondamenti della contiguità, ossia il minimo e il termine, in relazione all'uno o all'altro dei quali possono, di volta in volta, essere intesi. Il termine diviene così elemento chiave per la risoluzione di problemi geometrici attuali, quali il rapporto tra diagonale e lato del quadrato, la tangenza della retta con il cerchio, la sezione dell'angolo, la quadratura del cerchio.

L'analisi del 'termine' risulta dunque feconda per una comprensione ed una critica più esatte della fisica e della geometria bruniana poiché contribuisce a definire con maggiore adeguatezza i presupposti logico-ontologici da cui quelle si svolgono.

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