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Maria Muccillo

Il tema della "mens" in alcuni autori tardo-rinascimentali

 

La concezione della 'Mente' che il francescano Annibale Rosselli (Gimilliano 1525- Cracovia 1592) , autore di un monumentale Commento al Pymander di Mercurio Trismegisto, pubblicato in sei tomi a Cracovia, tra il 1585 e il 1590, ritiene di ricavare all'analisi del 'cospus hermeticum', si caratterizza per il suo significato prettamente teologico: Pymander, che si rivela a Mercurio Trismegisto, non è altri infatti per Rosselli che Dio stesso e il suo primo e fondamentale appellativo è propriamente quello di 'Mens'.

Ciò comporta in primo luogo che, se la 'Mens' è la divinità stessa, nel termine bisogna cogliere un significato che va al di là del puro ambito conoscitivo per abbracciare quello dell'azione e dell'operazione. L'attività della 'Mens' in quanto Dio, non si esaurisce infatti nel mero 'intelligere' sé, e in sé tutto l'universo; ma, e questa è la condizione dell''intelligere' stesso, nella produzione di tutto ciò che essa intende. Se la 'Mens' è attributo proprio e specifico della divinità, soltanto in senso analogico essa può essere attribuita anche all'uomo che ne conserva l'immagine sbiadita, e che di questa stessa immagine sbiadita legata all''insufficientia' della sua natura, può entrare in possesso soltanto grazie a un 'dono' che la divinità, nel suo imperscrutabile disegno, decide di elargirgli. Rosselli precisa, sulla base di una ricca tradizione sapienziale, che tale 'dono' è in realtà una 'collustratio', una illuminazione in virtù della quale soltanto è possibile all'uomo, adeguatamente preparato, di godere della visione e della conoscenza di Dio. All'interno di questa impostazione di fondo l'esegesi ermetica di Rosselli si sviluppa discutendo tutta una serie di problematiche che nel complesso offrono il quadro di una concezione fondamentalmente concorde non solo con le più eminenti manifestazioni della teologia e della filosofia pagane, ma, soprattutto, si mostra perfettamente compatibile con la riaffermata ortodossia cattolica.

In un'opera per struttura, metodo e impostazione completamente diversa, seppure nel contenuto, per certi versi, sorprendentemente vicina alle posizioni del francescano, Francesco Patrizi (Cherso 1529-Roma 1597) , professore di filosofia platonica dapprima a Ferrara e poi a Roma, sviluppa la sua concezione dell'Intelletto nel libro XV della Panarchia (il secondo dei trattati di cui si compone la sua opera filosofica principale Nova de universis philosophia pubblicata a Ferrara nel 1591): fondamentale è per Patrizi l'esatta individuazione del posto dell'Intelletto nell'ambito della gerarchia a dieci gradi nella quale egli considera 'ordinato' l'universo metafisico e fisico. Secondo una prospettiva comune ai maggiori esponenti della tradizione neoplatonica, di cui riprende ed applica molti assiomi fondamentali, è proprio la posizione di ciascun essere nell'universo che ne determina ( e viceversa) le proprietà specifiche che lo distinguono, ma lo collegano anche, da tutti gli altri. Così l'Intelletto, sulla base di una serie di rigorose argomentazioni logiche, modellate sullo schema della divisione platonica, è da Patrizi collocato al quarto posto della gerarchia universale, dopo, in ordine ascendente, la Vita, l'Essenza, l'Unitas e l'Uno, e prima dell'Anima, della Natura, della Qualità, della Forma e del Corpo. Ciò comporta tutta una serie di conseguenze che riguardano il modo della sua 'emanazione' dai gradi superiori, la sua funzione nei confronti dell'Anima, il carattere della sua operazione specifica, l' intellezione. Questa è, innanzi tutto, 'conversio' e 'intensio' del conoscente nel conoscibile, un percorso, come Patrizi spiega con l'aiuto di una serie di etimologie, grazie al quale l'effetto si ricongiunge alla sua causa, quasi rimedio alla lacerazione determinata dal processo stesso della sua formazione, e in questa ricongiunzione gli conferisce una sorta di 'nuova nascita', rigenerandolo. Anche nella concezione patriziana la dottrina della 'collustratio' svolge un ruolo centrale, ma la illuminazione di cui parla il Chersino non è quella che immediatamente deriva da Dio, Uno e primo Principio; ma è una 'chiarezza' dell'Essenza, grado più vicino, che permette all'Intelletto che ad essa si rivolge, di penetrarla compiutamente, conoscendone, attraverso questa penetrazione, l'intima natura. Per la 'diafanicità' dell'Essenza, a cui, attraverso la mediazione della Vita, l'Intelletto si converte come a sua causa più prossima, esso acquisisce una conoscenza che è piena, totale, tutta in atto, vera scienza che non necessita di nessuno di quei procedimenti ( sillogismo, dimostrazione) attraverso i quali faticosamente noi costruiamo la nostra conoscenza congetturale.