Eugenio Canone, Schede bibliografiche (2017), scheda 5

Le opere italiane di Giordano Bruno Nolano, ristampate da Paolo de Lagarde, Gottinga, Dieterichsche Universitätsbuchhandlung, 1888, 2 voll. (il vol. II di tale edizione fu finito di stampare nel 1889). Vedi Salvestrini, Bibliografia, n. 9, p. 37.

L’edizione delle Opere italiane di Giordano Bruno a cura di Paul de Lagarde (Paul Anton Bötticher, 1827-1891) segna l’avvio di un approccio filologico – in parte anche storico-lessicale – agli scritti italiani del filosofo nolano. Amico di Vittorio Imbriani (1840-1886), Lagarde si propone di applicare, in modo più rigoroso e all’intero corpus delle opere italiane di Bruno, i criteri conservativi teorizzati dal letterato italiano per il Candelaio e per alcuni scritti latini del filosofo. Critico, seppure non in modo radicale come Imbriani, dell’edizione (1830) delle Opere di Bruno a cura di Adolf Wagner, Lagarde osserva: «Ormai quest’edizione è da tempo esaurita, e non si deve negare che, misurata con i nostri criteri, essa apparve sin da principio insufficiente. In essa – cosa di cui non ci si deve avere a male per un lavoro pubblicato nel 1830 – la grafia, la grammatica e qua e là il modo di esprimersi di Bruno erano state modernizzati, benché non in maniera sistematica, rendendo così impossibile ai filologi romanzi di riconoscere quanto importante fosse Bruno per la storia della lingua italiana» ([Relazione sui criteri della propria edizione], in Le opere italiane di Giordano Bruno, cit., vol. II, p. 770. La relazione, in tedesco e che non reca titolo, apparve anche nelle «Göttingische gelehrte Anzeigen», 1889, 1, n. 4). Nella sezione Materiali dell’AGB è riprodotta sia tale Relazione (pp. 770-799) sia l’ampio [Indice dei nomi e delle cose notabili] relativo a tutte e sette le opere italiane di Bruno (pp. 755-769; anche tale indice, nel volume, non reca alcun titolo).

Riguardo all’edizione di Lagarde, si riporta quanto è stato osservato da Giovanni Aquilecchia (L’ecdotica ottocentesca delle opere italiane di Bruno, in Brunus redivivus. Momenti della fortuna di Giordano Bruno nel XIX secolo, a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 1998, pp. 1-17: 13-15): «Figlio del Dr. Wilhelm Bötticher, [Paul de Lagarde] avrebbe cambiato il nome nel 1854, a seguito della sua adozione da parte di una prozia materna. Il suo lavoro complessivo consiste prevalentemente nell’edizione di testi testamentari in greco e in latino, nonché di testi in lingue orientali. Quanto alla sua edizione de Le opere italiane di Giordano Bruno, in due volumi a numerazione continuata (400 pagine ciascuno), il frontespizio dell’uno e dell’altro porta in calce “Gottinga 1888 Dieterichsche Universitätsbuchhandlung (Lüder Horstmann)”, sebbene solo il primo uscì effettivamente nel 1888, mentre il secondo presenta in appendice (pp. 770-800) una nota al testo cui sovrasta l’indicazione bibliografica: “Goettingische gelehrte Anzeigen vom ersten Februar des Jahres 1889 (Stück 4)”. Nella nota al testo, rilevata la rarità delle edizioni originali, il Lagarde riconosceva: “Es war also ein sehr verdienstliches Unternehmen Adolf Wagners, im Jahre 1830 die opere [italiane] Giordano Brunos gesammelt herauszugeben”. Della quale edizione non mancava poi di rilevare i gravi difetti, consistenti soprattutto in una serie di fraintendimenti del genuino dettato bruniano e in un arbitrario processo modernizzatore: non senza richiamarsi esplicitamente alle taglienti censure formulate da Vittorio Imbriani nel “Propugnatore” del 1875 e riprodotte [...] nel volume Natanar II, alle cui pagine il Lagarde fa riferimento. Alle omissioni già indicate dall’Imbriani, egli ne elenca 22 ulteriori tratte dal Candelaio, con l’aggiunta (“um Bedeutenderes zu nennen”) di una da lui rilevata nella Causa e tre nei Furori. Indica inoltre (pp. 771-775) una serie di alterazioni tacite e arbitrarie di espressioni che risultano peraltro corrette nell’edizione originale (precisamente, 128 nel Candelaio, di cui 12 già denunciate dall’Imbriani, due nella Cena, una nello Spaccio). Segue (pp. 775-776) l’indicazione (anticipata dall’Imbriani) di tre spiegazioni inaccettabili di parole presenti nel Candelaio (bozzole, Zarrabuino, Piedigrotta). Rileva quindi (pp. 776-777) una serie di undici esempi tratti dal Candelaio e sei dalla Cena di correzioni suggerite dal Wagner in calce al testo (di cui quattro già contestate dall’Imbriani), le quali, dichiara, “gefallen mir wenig”. Inoltre, “Wagner gibt, was ich im Interesse meiner HerausgeberEhre ausdrücklich feststellen muss, gelegentlich als Lesarten der Archetypi Dinge an, die ich in meinen Exemplaren nicht finde”: tanto che “Es wird zu untersuchen sein, ob vielleicht doppelte Drucke mit gleicher Jahreszahl umlaufen” (p. 777). Con il che si veniva per la prima volta e pur confusamente ad affacciare il sospetto – che peraltro nella fattispecie esemplificativa risulta fin qui ingiustificato – di varianti coeve nelle stampe bruniane. Due degli esempi sono tratti dal Candelaio, due altri dalla Cena e uno dalla Causa (quest’ultimo, il disoglar da me discusso nelle Dieci postille [1958, ora in G. Aquilecchia, Schede bruniane, Marziana, 1993, n. VIII], darebbe comunque ragione al Wagner, non sia altro per l’esattezza della lezione dell’archetipo). Dimostrata dunque la “Unbrauchbarkeit” dell’edizione wagneriana delle superstiti opere italiane, Lagarde ricorda che “Imbriani verlangte einen ganz getreuen Abdruck der Archetypi” (p. 778): ciò che, come si è visto, nel 1886 avrebbe portato a compimento Giovanni Tria a seguito della scomparsa del maestro. La ben nota pratica bruniana quanto a correzione di bozze, nonché la sorveglianza da lui esercitata sulla stampa delle proprie opere a Parigi, Londra e Francoforte, inducono il Lagarde a ritenere che “eine neue Ausgabe der opere italiane di Giordano Bruno nichts sein dürfe, als eine buchstäblich treue Wiederholung der uns die Handschrift des Verfassers ersetzenden alten Drucke” (p. 778). Quanto all’alternativa di seguire i criteri ortografici di Bruno o quelli consueti ai suoi contemporanei, il Lagarde dichiara che «solche Grundsätze sind meines Wissens nicht vorhanden» (ibid.) e che, in ogni caso, lo stesso Bruno non mostra di aver applicato criteri precisi. Assennata appare la decisione del curatore di non adeguare il linguaggio della commedia a quello dei dialoghi filosofici. Mentre per la punteggiatura specifica: “Auch die Interpunction ist von mir im Wesentlichen unangetastet gelassen worden” (p. 780), confortato in questo da una lettura emotiva effettuata dal personaggio ‘Lucia’ nell’atto I, scena VI della commedia, come pure da una dichiarazione precettistica del pedante ‘Mamphurio’ nell’atto III, scena V, la cui applicabilità venne da lui estesa dalla commedia all’intera gamma delle opere in volgare. Ma per tornare alla pur teoretica percezione lagardiana per la quale, se non proprio gli esemplari di una stessa edizione, edizioni diverse impresse con la medesima data potessero tramandare lezioni differenziate, può sembrare strano che egli non avesse tentato un pur limitato censimento degli esemplari superstiti delle prime stampe. Come ho già avuto occasione di osservare nella prima delle mie lezioni napoletane raccolte ne Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica testuale e oltre[Napoli, 1991], le notizie fornite in proposito dal Lagarde sono piuttosto casuali, e almeno per quanto concerne la Cena de le Ceneri non risulta affatto di quale esemplare si fosse servito. Come giustamente (almeno nella sostanza) ebbe ad affermare il Tocco: “Questa edizione aveva il gran merito di non proporsi degli arbitri, ma si rendeva faticosa a leggere al lettore moderno. Era una edizione diplomatica ma non critica, che poteva servire a dimostrare in qual modo si interpungesse o si trascrivessero arbitrariamente i suoni nel ’500, ma che non agevolava in nessun modo l’intelligenza del testo bruniano” (Le opere italiane di G. Bruno, “Il Marzocco”, a. XII, n. 9, 3 marzo 1907). A rigore, non ‘diplomatica’, ma al più ‘paradiplomatica’ o ‘diplomatico-interpretativa’ andrebbe considerata l’edizione gottinghese: in considerazione non pure della diversa impaginazione rispetto all’edizione originale, ma altresì degli interventi emendatori (non sempre necessari o corretti – sia riguardo alla fonomorfologia che alla interpunzione, come pure per l’inserzione ricorrente di un segno arbitrario – il trattino apposto agli aggettivi di valore avverbiale nelle coppie o serie avverbiali aplologiche). D’altra parte, non risulta ormai valida la nozione di arbitrarietà riferita alla prassi interpuntiva e ortografica cinquecentesca».