Eugenio Canone, Note di presentazione (1, 2018), nota 1

Il Pàssar solitario (Eroici furori, I, 4), Lettura di Eugenio Canone, Roma, ILIESI-CNR, 2018.

Un giorno di pioggia del 2017 a Roma, Campo de’ Fiori. Un passero trova ricovero in una cavità della statua di Giordano Bruno: la manica della scultura di Ettore Ferrari diventa riparo momentaneo di un essere che non ha dimora fissa. Le immagini A e B documentano due istanti vicinissimi1; il passero vola subito via. Bruno ha scritto un sonetto sul pàssar solitario, immagine che è di derivazione biblica. Il filosofo tiene conto della metafora del Salmo 101 [102] – Oratio pauperis cum anxius fuerit et coram Domino effuderit precem suam – e della ripresa di essa nel Canzoniere di Petrarca, trasformandone il significato. Nel Salmo 101, 8 della versione dei LXX si legge: «vigilavi et factus sum sicut passer solitarius in tecto»2, dove la solitudine del passero significa fuga dai nemici e vigilanza, tutela di sé; e, come ricorda Giulio Cesare Capaccio, del passero «Cassiodoro fa ieroglifico dell’anima»3. Sono anche da considerare alcuni passaggi della Expositio Evangelii secundum Lucam (lib. VII) di Ambrogio. Nel sonetto 226 del Canzoniere, Petrarca si richiama all’immagine biblica per evidenziare la propria condizione di solitudine e l’amore esclusivo per Laura: «Passer mai solitario in alcun tetto / non fu quant’io, né fera in alcun bosco, / ch’i’ non veggio ’l bel viso, et non conosco / altro sol, né quest’occhi ànn’altro obiecto»4. In Petrarca, così come anche in Bruno, si tratta del passero comune e non del leopardiano passero solitario ( Monticola solitarius, se così si tratta), riguardo al quale il poeta recanatese scrive: «Tu pensoso in disparte il tutto miri; / non compagni, non voli, / non ti cal d’allegria, schivi gli spassi; / canti, e così trapassi / dell’anno e di tua vita il più bel fiore». Per poi aggiungere: «Oimè, quanto somiglia / al tuo costume il mio!». Leopardi radicalizza la metafora, già con la scelta di un uccello diverso dal passero comune: un «solingo augellin» quasi per determinazione di specie. Quindi, un malinconico «spirito solitario» che vive appartato su una «torre avita», come si leggerà nella successiva poesia di Pascoli.
Il passero del sonetto bruniano – solitario in quanto singolare, raro – è evocato sulla scena poetico-filosofica degli Eroici furori5. Nel testo, il «pàssar solitario» è una metafora collegata ad altra metafora, quella del cuor alato6: la volontà razionale, l’amore che tende in alto e che, in concorso con l’intelletto, sprona all’azione. In questo, si esprime evidentemente una distanza considerevole rispetto al tema leopardiano. Va ricordato che il sonetto dei Furori riprende – con delle modifiche, alcune delle quali significative – un precedente sonetto, pubblicato tra i componimenti proemiali del De l’infinito, universo e mondi7. Nei Furori il sonetto figura nel dialogo IV della Prima parte dell’opera ed è tra i componimenti poetici ‘primari’, che definiscono cioè la struttura tematica del testo8. Si tratta di uno dei dialogi più noti dei Furori, quello in cui Bruno ripropone il mito di Atteone in chiave filosofica. Nell’interpretazione offerta da Bruno, il mitico cacciatore rappresenta propriamente l’amante della sapienza (ϕιλόσοϕος), l’essere umano che non possiede il vero e il bene, ma li ricerca incessantemente. «Atteone – scrive Bruno – significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina»9. Atteone indica un «eroico intelletto» che è, assieme, «amor eroico»10; pertanto, il venator può dirsi un dionisiaco furioso più che un apollineo sapiente. Il passero solitario (il cuor alato) è un volto di Atteone, il quale si incammina appunto in «luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi»11; un volto che, nell’orizzonte della concezione delle ‘ali’ dell’anima – intelletto e volontà –12, sta specificamente a raffigurare la più profonda dimensione erotica dell’animo, il proprio dèmone.

Versione parafrasata del sonetto con integrazioni di commento
Sonetto
Mio pàssar solitario, a quella parte
ch'adombr' e ingombra tutt'il mio pensiero,
tosto t'annida: ivi ogni tuo mestiero
rafferma, ivi l'industria spendi, e l'arte.
Mio passero solitario, mio dèmone e più segreto animo che mi esorta: cuore alato finalmente libero dalla preoccupazione del corpo! spero che tu possa quanto prima risiedere in quella parte che ancora offusca e intralcia tutto il mio pensiero; fa' in modo che ogni tua attività sia confermata a livello intellettuale, e possano lì venire a compimento l’industria e l’arte che sono tue proprie.
Rinasci là, là su vogli allevarte
gli tuoi vaghi pulcini omai ch'il fiero
destin hav'espedit'il cors'intiero
contra l'impres', onde solea ritrarte.
Rinasci là, in alto! il mio desiderio è che possa svilupparsi in alto, intellettualmente, tutto ciò che di amabile è da te generato, ora che l’indomito destino ha orientato il corso intero della mia vita per un’impresa verso la quale l’istinto di conservazione era solito ritrarsi.
Và: più nobil ricetto
bramo ti godi, e arai per guida un dio
che da chi nulla vede, è cieco detto.
Và! spero che tu possa usufruire di una più elevata dimora, e avrai per guida Eros: una divinità che è ritenuta cieca solo da coloro che sono ciechi in tutto.
Và: ti sia sempre pio
ogni nume di quest'ampio architetto,
e non tornar a me se non sei mio.
Adesso và! che ti sia sempre benevola ogni guida di questo grande architetto, e non tornare a me se non corrispondi al mio proprio e intero essere.

Qualche indicazione bibliografica. Ulrich Leo, Il Passero solitario. Eine Motivstudie, in Wort und Text. Festschrift für Fritz Schalk, hrsg. von Harri Meier und Hans Schkommodau, Frankfurt a/M, Klostermann, 1963, pp. 400-421; Marcel Bataillon, 'Sicut passer solitarius': sur un thème de Leopardi, in Studi in onore di Carlo Pellegrini, Torino, Società Editrice Internazionale, 1963, pp. 535-540; Giovanni Getto, Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 223-238; Maria Corti, Nuovi metodi e fantasmi, Nuova edizione, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 194-204; Vincenzo Dolla, Esplorazioni metriche: Giordano Bruno, Pier Jacopo Martello, Eduardo De Filippo, Napoli, De Frede, 20022, pp. 9-38; Walter Lupi, Il passero e il serpente. Materiali per tre sonetti bruniani, in Pensiero e immagini. Tradizione e innovazione nelle opere di Bruno e Campanella, a cura di Anna Cerbo, II, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2003, pp. 87-98.

1 Le foto sono di Mario Setter.
2 Si veda la versione latina della Bibbia ebraica.
3 G. C. Capaccio, Delle imprese..., Napoli, G. G. Carlino e A. Pace, 1592, c. 103v.
4 Va osservato che, nella sua solitudine – intesa come necessità spirituale per ritrovare se stessi –, nella tradizione cristiana il passero si trasforma in colomba, che viene a essere immagine dell’anima purificata, oltre che simbolo dello Spirito Santo. La platonica anima alata diventa così una columba. L’immagine dei Salmi si collega inoltre con quella presente in un altro testo biblico: il Cantico dei Cantici, testo interpretato allegoricamente in senso cristiano già da Origene. «Una est columba mea perfecta mea», si legge nella Vulgata (Ct 6,8), e in alcuni testi dell’esegesi cristiana viene qui inteso lo sposo Cristo che parla all’anima umana. Nelle Omelie sul Cantico, Gregorio di Nissa osserva che l’anima, nel suo percorso di purificazione e una volta liberatasi dell’affezione corporea, viene a possedere «nei suoi occhi la forma della colomba, vale a dire, la funzione della vista dell’anima è illuminata dall’impronta della vita spirituale» (In Canticum Canticorum, IV; trad. it. di Claudio Moreschini).
5 Per il testo originale (1585) vedi BOI IV, p. 1331 e BOI IV, p.1332. Per l’edizione moderna vedi BDI, p. 1009; BERF, p. 86 e p. 452. Cfr. OIB II, pp. 579-581, anche per richiamo a Spaccio, OIB II, p. 366, dove «Passare solitario» allude a Cristo (Bruno si richiama al commento di Agostino al salmo 101).
6 L’immagine poetica del cuore alato (si tengano presenti i versi di Petrarca, in Canzoniere, 72: «et lei ch’a tanta spene / alzò il mio cor [...] / empiendo d’un pensier alto et soave»), nelle sue varie raffigurazioni – tra cuore prigioniero e cuore libero di volare in alto – ebbe tra Cinque-Seicento una notevole fortuna nell’emblematica, con significative implicazioni etico-religiose. Tali immagini furono poi interpretate anche in rapporto all’alchimia. Si vedano per es. quattro degli emblemi relativi al cuore mistico – Alta peto; Liberor; Vivo; Emigrandum –, con riferimento alla liberazione tramite Cristo, negli Emblemata sacra (1624; 1a ed.: 1622) del teologo luterano Daniel Cramer (1568-1637), noto anche sotto il nome di Daniel Candidus.
7 Per il testo originale (1584) vedi BOI II, p. [667] . Per l’edizione moderna cfr. BDI, p. 364; OIB II, p. 30.
8 Per la distinzione tra sonetti primari e secondari cfr. BERF, pp. 273-274.
9 BERF, p. 83.
10 BERF, p. 82.
11 BERF, p. 83.
12 L’immagine delle ali dell’anima è ricorrente nei Furori. L’idea di anima alata (l’anima-farfalla), presente già nella Grecia arcaica, è ripresa su un piano filosofico da Platone, il quale parla di ali dell’anima in rapporto alla celebre metafora del carro a due cavalli guidato da un auriga (Fedro, 246a-249e). Bruno precisa che si tratta delle «ali de l’intelletto e voluntade intellettiva». Il filosofo nolano si basa sull’interpretazione di Marsilio Ficino, il quale considera le ali platoniche come immagine dell’intelletto, che tende al vero, e della volontà, che tende al bene; esse raffigurano le facoltà dell’anima che la divinità ha concesso all’uomo per rendergli possibile un’elevazione spirituale, fino alla possibilità stessa di un indiamento. Secondo Ficino, il pieno realizzarsi di tale appetitus naturalis non è di questa vita; va sottolineato che la prospettiva dell’elevazione spirituale (l’amore intellettuale o eroico) cui fa riferimento Bruno riguarda invece esclusivamente la vita terrena, la conoscenza. Cfr. M. Ficino, Theologia Platonica, lib. XIV, capp. I-III, lib. XVII, cap. II (Théologie platonicienne de l’immortalité des âmes, texte critique établi et traduit par R. Marcel, 3 voll., Paris 1964-1970: II, p. 247 ss.; III, p. 157; vedi anche i commentari ficiniani al Simposio (El libro dell’amore, a cura di S. Niccoli, Firenze 1987, pp. 65 e 214-215) e al Fedro, capp. II e VII (cfr. Marsilio Ficino and the Phaedran Charioteer, introduction, texts, traslations by M. J. B. Allen, Berkeley, Los Angeles, London 1981, pp. 77, 99).

Lettura e testo interpretativo del Pàssar solitario sono di Eugenio Canone.
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