Tommaso Campanella, Poetica, p. 341
fiorisce Aristofane, Plauto, Terenzio e alcuni nostri
italiani, più per
trattamento che per ammaestramento
lodati, se bene all’antiche usanze, che avevano la
statuaria,
la monetaria, tabernaria, pretestata, palliata e
togata, ne sono
inventati poemi da’ nostri, composti del
tragico e comico stile, qual’è la
tragicommedia del nuovo
Pastor fido, finta con molta lode
dell’autore. Vi è poi
la Divina Commedia di Dante, il quale,
uscito dalle
regole communi, quanto più le trapassò, tanto più dimostrò
che il
divino spirito del poeta architettonico non
si obliga a regole, da questo [o] da quel
pedante descritte,
né all’imitazione di quei poeti, che dal volgo sono apprezzati
come gl’instruisce Aristotile ad imitazione di
Omero, ma all’utile e al diletto
ragionevole e all’imitazione
della natura. Però, se nella natura delle cose avvengono
spesso le disgrazie grandi e riescono in bene,
come fu quella di Fabio Vibuliano,
quando lo voleva
far morire Papirio dittatore, perché aveva combattuto
senza sua
licenza, e poi scampò la morte a’ preghi del
senato; e quello Orazio, che uccise li tre
Curiazi, e per
la sorella venne a termine di essere condannato a morte,
e poi fu
libero; e questa regina inglese stava per essere
morta in prigione e poi fu
inopinatamente fatta regina:
dunque, immitando questi avvenimenti, è lecito
formare
tragicommedia, e non possono essere se non pedanti
inconsiderati coloro che
biasimano il nuovo Pastor fido,
perché Aristotile non tratti di
tal poema, come che ad
Aristotile, che fu soggetto ad Omero, e non alla natura
delle cose, dovesse conformarsi il buon poema. Similmente,
se Dante fa una
commedia la quale insegna popularmente,
secondo la credenza cattolica, a vivere, e di
mestezza finisce in allegrezza, e ammaestra il mondo
d’ogni cosa, non, perché non
la tessa al modo d’Aristotile
e perché egli è introdotto in essa, sendo commedia
in persona di esso Dante, si deve dire che non sia buon
poema, se non da colui che
non ha un cervello tale da
ingegnarsi di fare più belle cose di quelle che gli altri
hanno fatte, e però, come invidioso dell’altrui gloria,
vuole tutti ad una regola
costringere, che va male.