Tommaso Campanella, Poetica, p. 363

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così ancora quando pianse la morte di Pompeio nemico,
veramente indegna d’un tanto uomo, e ne fece vendetta.

Deve ancora il principe parlar poche parole, ma piene
di giustizia, di magnanimità e di coraggio, guidando tutte
le sue predette virtù con una somma prudenza, la quale
deve essere principale in lui più che in altri, e usar le
belle parole, che sono quelle più atte per inanimire i suoi
negli perigli e negli affanni, ché così spesso diceva Enea:

O passi graviora, dabit deus his quoque finem

e Ulisse:

Perpetere, o cor, namque alias graviora tulisti.

Nell’animare li suoi soldati e cavalieri alla guerra ovvero
ad altra impresa, non dirà come Agamennone d’Omero,
ch’egli metteva innanzi a’ suoi capitani: – Ricordati,
o Diomede, che tu nella mia tavola mangi i miglior
bocconi e bevi il vino più puro; però falla adesso da migliore
che gli altri –; le quali parole a tutti i duci dell’esercito
fa che dica Agamennone, re loro, il che è cosa
da vile epicureo. Meglio Cesare: – Miles, faciem feri
et abstine ab humerorum sanguine
– e simili, piene di
coraggio e confidenza grande, ché mostrava avere vinto
quel che li voleva far morire; onde disanimava il nemico,
vincendolo con armi e con la cortesia, e l’amico rinfrancava.
È bellissima quella d’Ulisse fatta a’ compagni,
quando volse passare le colonne d’Ercole, per farli seguitare,
dettata da Dante:

O frati, disse, che per mille milia
perigli or sète gionti all’accidente
di questa tanto picciola vigilia
de’ vostri sensi, che è di rimanente,
non vogliate negar esperïenza,
diretro il sol, del mondo senza gente;
considerate la vostra clemenza:
nati non fuste a viver come bruti,
ma per seguir virtude e conoscenza.
Con questa orazïon feci sì [acuti]
i miei compagni…

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