Tommaso Campanella, Poetica, p. 389
Ennio:
Musae, quae magnum pedibus…,
Lucrezio:
Aeneadum genitrix divumque…,
il che pare a me più ragionevole, che altronde cominciare,
come
fanno li moderni, imperoché il poeta da
bene, come dice Platone, sta in protezione
delli dèi,
sendo che da loro ha avuto origine, e però, giudicandosi
che eglino,
come ammaestratori del mondo e predicatori
del futuro e dottori piacevoli del buon
governo degli
Stati umani, abbino del divino – onde disse il Petrarca,
che Apollo
poetò e diventò profeta e insegnò gli
altri a profetar e poetar, così:
S’io fussi stato fermo alla spelonca,
là dove Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta;
la quale spelonca denota la solitudine
della contemplazione,
e la contemplazione ci unisce con Dio, di cui
ammiriamo e
investighiamo gli effetti per conoscere lui
per prima causa e primo bene, laonde poi
siamo inspirati
da lui a parlare altamente e profeticamente, ché
tali siamo quando
diciamo il vero, come di sopra si è
detto con l’autorità di san Paolo, ove appella
Epimenide
e Arato profeta; e si vede che Dante ha profetate le
quattro stelle del
polo antartico e molte cose con giudizio
naturale, il che ben dice mentre si accosta
con amorosa
fidanza, dalla quale cominciano ad amarlo e a conoscerlo –;
dunque,
dico, giudicandosi tali buoni poeti,
devono comminciare il loro canto con l’invocazione
della
divinità, perché, se proponessero quello che hanno
da dire, poi invocassero
come si fa oggi, darebbono indizio
di non dependere dalli dèi in quel modo che si
vantano
per farsi ammirabili, di maniera che ognuno lor dia
orecchie, ma
invocargli poi per ceremonia cortegianesca,
poiché hanno determinato da loro stessi
quello che
vogliono. Onde quel proponere si mostra movimento
proprio e non divino;
imperò, a dire: