Tommaso Campanella, Poetica, p. 392
non credendo ad altri, sarebbe burla l’invocargli e ingiuria
alla
divinità vera, da noi conosciuta per sua grazia;
onde assai meglio fa il Tasso ad
invocare la Madonna
e Dante Apollo sagro, se l’intende per Cristo; ma
mi pare che
doppo s’abbia mescolato nella gentilità,
quando dice:
Ma queste
Muse aiutino il mio verso,
ch’aiutâro Anfïone a chiuder Tebe,
e poi dice ad
Apollo:
Fammi, del tuo favor s’io degno fue,
sì come quando
Marsia traeste
dalla vagina delle membra sue,
tanto che, favolosamente invocando
con nomi gentili,
par che non sia staccato in tutto da quella poesia puzzolente
della Grecia; e in questo hanno errato tutti i
poeti, e invocando quei, che la
religion loro teneva veri,
a protezione dei fingimenti loro.
Similmente il Fracastoro nel suo poema del morbo
gallico errò più, sì perché invocò
la Musa, con l’uso
cristiano dovendo più tosto invocare san Rocco ad intercedere
per lui, sì ancora perché a cose sporche e a mali
avvenuti per libidine invoca la
Musa, dea vergine e casta,
che l’aiuti a cantare, non a medicare, e finalmente
perché, parlando gentile, doveva invocare Esculapio o
Apollo dio della medicina, e
non la Musa.
Perché alcuni luoghi particolari sono atti al poetare,
è ben fingere e da quei luoghi
chiamar le Muse, come
era il monte Parnaso in Grecia, l’isola di Delfo, il Palatino
in Roma, il Fiorentino in Toscana; ma nei poemi
cristiani si dirà stanza delle
grazie divine il Paradiso
terrestre in luogo di Parnaso, le grazie in luogo di Muse:
e Dante descrive per san Francesco il monte dell’Avernia
e, per la Madonna, di
Loreto.
L’invocazione fa mestiere sia brevissima, benché appresso
gli uomini che non sanno il
cuore preghino lunghe
orazioni, come il facemo per mostrare l’affetto compassionevole;
e per due cause l’invocazione sia breve: