Tommaso Campanella, Poetica, p. 396
l’arte e insegnare le cose, come fa Lucrezio, ma non
d’oratore né di
poeta, il quale è architettonico; né anco
dice Lucrezio che egli stesso fregi il vero
per allettarci,
ma che indolcisca la filosofia col verso leggiardo:
Et quasi musaeo contingens cuncta lepori,
accioché Memmio divenisse dotto in quella: e tanto più
che egli scriveva cose
grandi e gravi, dove faceva professione
di maestro, e non una istoria donde si cava
assai
men frutto, massimamente essendo stata scritta con verità
da Giovan Villani
e dal Vescovo di Tiro, né di
troppo sensi alti è, posta in poema, come potrebbe essere,
se dietro alle maraviglie passate e future di Gierusalem
se ne fosse andato e non
all’imitazione cieca
de’ poeti passati si fusse in tutto legato il poeta.
Avvertite ancora, che non solamente si deve invocare
nel principio, ma nel mezzo del
poema, quando occorrono
da dire cose difficili e imprese egregie, ove il poeta
mostra abbisognare di particolare aiuto, come osserva
Omero, Dante e Virgilio
ancora.
Diciamo ancora che l’invocazione non sia troppo risonante
né figurata, ma schietta e
languida, simile all’affetto
del pregante, in tanto che Gorgia dannò Omero
per
aver detto in voce imperativa:
Iram cane, Dea...ecc.,
sebbene è scusabilissimo, percioché il medesimo imperativo
s’usa per deprecativo, ma l’affetto e ’l modo del
parlare gli distingue.
Segue la proposizione, la quale è un sommario di tutto
quello che nel poema s’ha da
favellare; si suol ella,
da coloro che prima invocano, attaccare all’invocazione,
come fa Omero:
Dic mihi, Musa, virum, capta
post tempora Troia,
qui mores hominum multorum vidit et urbes…,
e Museo:
Dic, Dea, occultorum testem lucernam amorum…,