Tommaso Campanella, Poetica, p. 424
dei quali ne fa menzione Aristotile, usati da’ Greci e
non da’ Latini, ma
ricevuti nella lingua nostra, fanno
un’altra parte d’orazione, della quale il
Castelvetro e il
Bembo ne ragiona. Si diffinisce dai Stoici appresso Laerzio,
che
sia l’articolo elemento dell’orazione, che distingue
i generi, i numeri e i casi de’
nomi, al qual fine noi
ancora l’usiamo.
Si distinguono tutte le dizioni e voci in particolari e
communi, in proprie e traslate
e nostrali; particolari sono
quelle che convengono ad uno individuo o spezie;
come«il sole» o «la ficaia», avvenga che queste in singolari
e particolari partiscano i
logici; universali sono
quelle che si ponno dire di più communicati di cose,
come«lampada» e «pianta»; nostrali diciamo quelle che
sono nate con la nostra lingua,
benché ella, avendo origine
dal miscuglio de’ barbari con Latini, a pena si può
dire ch’abbia dieci vocaboli suoi proprii; forastiere appelliamo
quelle che
vengono da altri simili idiomi, come
da’ Provenzali il «sovente», il «tetro» da’ Latini
e
simili, delle quali altre ponno essere state ricevute dai
nostri autori più
buoni, i quali sono Dante, Petrarca, il
Boccaccio, Giovanni Villani, Pietro Crescenzio:
e queste
ognuno le può usare. Altre stanno per riceversi, e
queste non sono da
disprezzare, benché non le troviamo
negli autori nostri, tanto più quelle delle quali
ne abbiamo
gran bisogno. Il «però» nel luogo del «ma» dal spagnuolo
è ben fia
ricevuto, non avendo noi altra particella
avversativa, come i Latini avevano, onde
siamo
astretti spesso a trattenerci alla medesima, con disgusto
di chi legge li
nostri scritti.
Possi parimente ricevere la parola «cagliare», che pure
è spagnuola, non avendo noi
voce equivalente al
suo significato; e l’Ariosto si servì di questa parola: «fare
alto», che è tedesca, usata da’ soldati quando vogliono
dire che si resti o fermi,
e altre simili. È lecito ancora
fingere di queste voci cavandole dal greco e dal latino
parcamente stirato, o fingendole dal nostrale, come
la voce straordinaria«sennamante» in luogo di «filosofo»,
come Cicerone ha finto «beatitas», e Zenone