Tommaso Campanella, Poetica, p. 425
moltissimi vocaboli trovò, cavati dalla proprietà delle
cose, perché
allora fien ricevuti per la loro bontà; onde
Orazio nella Poëtica dice questa regola:
Et nova fictaque
nuper habebunt verba fidem, si
Graeco fonte...
e poi soggionge:
… Licuit semperque licebit
signatum praesente nota
producere nomen...
dove loda Catone ed Ennio, perché avevano arricchito
la
lingua con trovar nuove voci tratte dal greco e derivate
dal proprio idioma. Così
appunto il Castelvetro
ne aggiunge il «fratellevole», la «parlatura», il
«contemperamento»
e altre, ma irragionevolmente; e più per
sdegno che per verità
riprende Annibale Caro avesse
detto «simulacro». Né val dire che noi siamo nel fine
della lingua, però non potiamo inventarci parole strane,
poiché Orazio stesso di
se medesimo dice, banché la
lingua comunicasse a declinare ne’ suoi tempi, venuta
la repubblica monarchia:
… Ego cur, acquirere
pauca
si possum, invideor? Cur lingua Catonis… ecc.
e poi dona autorità a
quelli che seguitano, così:
Licuit semperque licebit… ecc.
È certo che, se Dante non avesse arricchito la nostra
lingua, sariano molto
manchevoli i poemi del Petrarca
e dell’Ariosto e del Tasso, i quali sonosi anco
ingegnati
aggiunger nuove voci, ma questo non è lecito fare a
tutti, salvo a
coloro i quali fanno i poemi gravi e, con
le cose nuove e alte, molto donano credito e
autorità
alle voci.
Voci proprie appelliamo quelle che significano drittamente
e non convengono ad altre,
se non in quanto
hanno significanza con esse somigliante, come «cane» è
proprio
dell’animale che latra e quello che significa. Altre
poi sono traslate o, vogliam dire,
metaforiche, quando