Tommaso Campanella, Poetica, p. 427
sono trovati a significare quel che è vero – e l’oratore
se ne deve
servire però per l’orazione popolare o
meno sospetta all’orecchie dell’auditori, acciò
possa persuader
quello che si vuole –, basta che guidiamo il poeta
al modo di
trasferire le voci in buon modo.
È dunque da sapere che fu trovata la metafora per
necessità d’esprimere quelle cose,
che non si veggono
né ci muovono, e però non hanno voci che le significhino
ancora
nelle lingue delle nazioni; onde le sagre
Scritture, che di Dio e delle cose non viste
ragionano,
si servono di metafore quasi sempre, e Dio si manifesta
per quelle,
come dice san Tomasso; onde si vede che i
poeti ingegnosi nelle metafore prima sono
stati teologi,
come fu Orfeo, Lino, Anfione, Pitagora e Solone, onde
i Stoici,
appo Laerzio, diffiniscono il poema per imitazione
delle cose divine e umane. E invero
siamo necessitati
dalle cose visibili, da Dio fatte e da noi nominate
secondo quel
che noi sentiamo in esse, trasportare le
voci agli invisibili enti con la ragione di
quelli; fu poi
la metafora per vaghezza ritenuta, come suole avvenire
in tutte le
cose umane, che il necessario e utile diventa
bello, come le vestimenta furono trovate
per diffendersi
dal freddo e dal caldo e si mantengono insieme per ornamento,
e
tutte le cose utili sono belle, perché la bellezza
è segnale del bene, sia [l’]utile,
sia l’onesto. Aristotile
dice, nel terzo della Rettorica, che
piacevano li
traslati, perché le cose peregrine, quali sono queste tali
voci a
quelle a cui sono traslate, sono ammirabili: come
se si ritraesse la pietà dell’armi
con le quali altri si
diffendono, per il che dice Tito Livio: «Iustum
bellum quibus
necessarium et pia arma quibus non nisi in armis posita
est
salus»: ma non veggio la ragione, ché questo
dice un capitano de’ Sanniti a’
suoi, disperate le cose;
e per inanimare è lecito più che così parlare ne’
gran
bisogni, ove non si pensa quello che si dice e come,
ma come si può fare che sia
persuaso nell’estremo.
Il Tasso poi proponeva con giudizio e considerazione
da savio e non da soldato, onde
non li era lecito accoppiare
contrarii, né quivi era pietà l’essere spietati, come,