di Emilio Sergio

Nota al testo

Il profilo biografico che segue è tratto in parte dalla principale fonte della vita e dell’opera di Giovanni Battista Vecchietti, la Lettera di Girolamo Vecchietti sopra la vita di Giovambattista Vecchietti suo fratello, scritta dal fratello Gerolamo (1557-1636) ad un corrispondente anonimo, in Augusta, il 26 marzo 1620, successivamente pubblicata, nel xviii secolo, da Giacomo Morelli, nella raccolta I Codici manoscritti volgari della libreria Naniana (Venezia, Antonio Zatta, 1776, pp. 159-191). Si tratta di un documento di primo rilievo per la ricostruzione della prima formazione di Giovanni Battista Vecchietti, della sua attività di viaggiatore, diplomatico e orientalista, nonché per la storia della diffusione delle idee telesiane a Cosenza e nel resto d’Italia.

1550

Francesco Vecchietti, mercante di origini fiorentine, si trasferisce a Cosenza, «città dopo Napoli dignissima di tutte le altre del Regno» (G. Vecchietti, Lettera di Girolamo Vecchietti sopra la vita di Giovambattista Vecchietti suo fratello, in J. Morelli, I Codici manoscritti volgari della libreria Naniana, 1776, p. 160). A Cosenza conosce Laura di Tarsia, «non punto minore a lui di nobiltà», che sposa intorno al 1550 («gli antenati della quale avevan quella Contea [Tarsia], onde si appellavano, ventiquattro miglia allo ingiù del fiume Crate, che […] volto a Levante se ne scorre a mettere in mare a canto alle rovine dell’antica Sibari», ibid.).

1552

Il 22 dicembre nasce il primogenito, Giovanni Battista.

1557

Nasce il fratello di Giovanni Battista, Gerolamo.

1560

Muore Francesco Vecchietti. La madre si prende cura della prima educazione dei figli e, pensando di inviare successivamente il figlio Giovanni Battista a Napoli, presso suoi parenti, e «avviarlo per la via della mercatura», vuole che attenda «solamente a scriver bene, e imparar di abaco» (ivi, p. 160).

1562-1566

Il giovane Giovanni Battista mostra subito le sue intemperanze verso gli intendimenti della madre, e rivela la sua inclinazione verso lo studio delle materie umanistiche: «di là ad alcuni mesi a lui gliene venne noja, e fuggiva quell’esercizio, e andavasene secretamente con gli altri della sua classe a quel maestro di prima: della qual cosa fattane ella avvisata, lo cominciò a tribolare, e a maltrattarlo, né potendolo vincere per alcuna via, cesse alla fine, persuasa da’ parenti che lo lasciasse fare a suo gusto. Così tornato di nuovo allo studio dell’umanità, in breve ne divenne buon Professore; intanto che non uscito ancora da’ quattordici anni, il maestro stesso andò a dire alla madre, che oggimai lo mandasse alle Leggi. Andò egli ad udire la histituta, che si leggea colà per cominciamento dell’arte; ma tosto se ne ristuccò, e non volse più continuarla» (ivi, pp. 160-161).

La madre, racconta Gerolamo Vecchietti, decise di consultarsi con i Padri di San Francesco di Paola, che «li fussan mezzi ad ottenerli di potersi dare alla Filosofia» (ivi, p. 161). Giovanni Battista viene indirizzato agli studi della filosofia aristotelica, in particolare della metafisica e dei testi di filosofia naturale. «Diedesi ad udire un medico, che lo leggeva privatamente secondo il testo di Aristotele, e in meno di due anni dalle introduzioni di Porfirio se ne passò a tutta la Metafisica» (p. 161). In questo frangente egli viene in contatto, a Cosenza, con Bernardino Telesio (1509-1588), di cui ascolta le lezioni e legge verosimilmente l’opera, uscita nel 1565, cioè il De natura iuxta propria principia, liber primus et secundus (Romae, A. Bladum). Racconta Gerolamo Vecchietti:

«Era il Telesio a quel tempo in Cosenza, persona illustre e molto celebre, e cortesemente comunicava ad alcuni giovani di spirito le cose sue con sermoni continuati. Ci fu menato Giovambattista da Giulio Cavalcanti nostro parente, che era un di quelli; e avendolo udito, se ne invaghì, e preseci usata. Desideroso poi di averne migliore intelligenza, una volta sul cominciare il Telesio del suo discorso, non si contenne più, ma arditamente lo interruppe, e pregollo che a lui, che era nuovo, facesse un epilogo delle materie passate, sicchè potesse bene intendere il tutto. Parve a coloro, che ci erano presenti, una domanda importuna: ma quel grand’uomo se ne compiacque, e disse che per contentarlo maggiormente, voleva incominciar a legger da capo la sua Filosofia dai suoi primi principj; e così fece, e così lungamente continuò a fare; e soleva dire che aveva più caro a lui, che tutti gli altri, che gli andavano in casa, e quando non ci andasse più niuno, non li farebbe mai incresciuto di leggere a lui solo. Mirabilmente egli se ne avanzò, e fu tenuto il più nobile ingegno di quella Città; e in questo modo di Peripatetico divenne tutto Telesiano» (G. Vecchietti, op. cit., p. 161).

1566-1570

Dopo aver studiato a lungo i capisaldi della filosofia telesiana e le dottrine antiche, Vecchietti amplia lo spettro delle sue conoscenze, studiando la poetica antica (sia la Poetica di Aristotele che l’Ars Poetica di Orazio), ed esercitandosi nella composizione di versi latini. In questo periodo, egli frequenta e familiarizza con Sertorio Quattromani (1541-1603), che al tempo si trovava a Cosenza. Dopo il 1570, Giovanni Battista avrà anche occasione di leggere la riedizione telesiana del De rerum natura iuxta propria principia, liber primus et secundus, denuo editi (Neapoli, apud Iosephum Cacchium, 1570) e i tre opuscoli, usciti nello stesso anno presso lo stesso stampatore, dal titolo De colorum generatione, De iis quae in aere fiunt et de terraemotibus, e De mari liber unicus. Dalla biografia di Gerolamo Vecchietti apprendiamo quanto segue:

«Crebbe in età, e cominciossi a dilettare delle Poetiche, e diessi prima a comporre in Latino; voltossi poi al Toscano, e se ne compiacque più; e comunicando le sue cose a Sertorio Quattromani nostro parente, uomo esquisito in cotal genere, e senza pari in Italia, scorto da lui, e del modo del dire a pieno istrutto, così gentilmente prese a spiegare i suoi concetti, che ciò che si poneva a fare era da ogn’uno lodato; e colà dove fiorisce assai la leggiadria dello scrivere, si lasciò di gran lunga addietro tutti gli altri» (G. Vecchietti, op. cit., p. 161).

1571-1572

Alla fine del 1571, Vecchietti parte per raggiungere Firenze, risolvere alcuni affari, e incontrare alcuni parenti del ramo paterno della famiglia. Nel 1572 si reca presso lo Studium di Pisa, e qui fa la conoscenza di diversi maestri di filosofia aristotelica. In occasione di questi incontri e frequentazioni, egli ha modo di esporre i principi della filosofia telesiana che aveva appreso in Cosenza. L’eco di queste discussioni, ove emerge subito il talento del Vecchietti come oratore ed esperto di materie filosofiche, giunge fino a Cosimo I de’ Medici (1519-1574), che si mostra curioso e desideroso di incontrarlo. Occorre ricordare che, giusto nel periodo che va dal 1569 al 1573, Bernardino Telesio aveva preso contatti con i membri della famiglia de’ Medici, al fine di divulgare la sua filosofia, ottenendo, oltre che l’attenzione di Francesco (1541-1587) e di Ferdinando I (1549-1609) de’ Medici, anche l’interesse di Francesco Martelli (1534-1587), che si occupò, in quegli anni, della traduzione in lingua volgare di una parte delle sue opere (cfr. E. Sergio, Bernardino Telesio. Una biografia, Napoli, Guida, 2013, pp. 50-51 e 59). Così narra Gerolamo Vecchietti:

«Verso il fine dell’anno 1571, la madre lo mandò a Firenze per riconoscere certi beni, che ci eran rimasti in Polverosa. Fermossi un anno e fece amicizia con molti de’ nostri Gentiluomini; andò a veder lo Studio di Pisa, e que’ pochi giorni, che vi stette, nello uscire i Maestri di Filosofia dai luoghi loro, li argomentava contro quello che avevan detto, riprovando Aristotele, ed estollendo il Telesio; e non era niuno che con apparente verità li sapesse rispondere, e se ne potesse schermire. Corse voce al Gran Duca Cosimo, che era colà, di averlo messi tutti in soqquadro, e gagliardamente se ne rideva, ed ebbe voglia di vederlo; e chi glielo disse non potè muoverlo che ci andasse, non parendoli che lo dovesse fare; poiché in Firenze ce lo avea menato Bernardo Vecchietti suo parente» (G. Vecchietti, op. cit., pp. 161-162).

1573-1578

Vecchietti torna a Cosenza, e l’anno seguente si trasferisce a Roma. A Roma comincia a frequentare l’ambiente della corte papale, attraverso il cardinale Prospero Santacroce (1514-1589). Tra diverse difficoltà, soprattutto di ordine economico, che lo costringono nel 1577 a fare ritorno temporaneamente a Cosenza, il soggiorno romano si protrae comunque fino al 1578. Nello stesso anno, egli si trasferisce a Mantova, insieme a Curzio Gonzaga (1530-1599), trascorrendo un periodo di due mesi a Ferrara, ospite del conte Ercole Bevilacqua (1554-1600) e della consorte, Bradamante d’Este. A Ferrara, Vecchietti conosce Francesco Patrizi (1529-1597), immergendosi nell’ambiente neoplatonico dello Studium ferrarese. Dalla testimonianza di Gerolamo Vecchietti apprendiamo quanto segue:

«Tornato in Cosenza, e dimoratovi un altro anno, considerato la scarsità della sua fortuna, si risolvè di andarsene in Roma, e trasferirvisi sul principio dell’anno 1574. Ed ebbe onorato luogo fra i Gentiluomini di Prospero Cardinal Santacroce; e avendolo conosciuto innanzi, s’innamorò delle sue maniere, e tirollo a se, ed egli medesimo fu quello, che ne lo fece richiedere. Di casa non gli si potevano somministrare quegli ajuti, che egli aveva bisogno; ed eransi perdute le cose di Firenze, per una ingiusta lite, che ci fu mossa, e di così lontano non ce ne potemmo schermire: onde di lì a tre anni li fu di mesteriere tornarsene addietro, con aver chiesto licenza al padrone per alcuni mesi. Tornò di nuovo a Roma l’anno 1578. E con licenza del medesimo padrone se ne andò a Mantova con il Signor Curzio Gonzaga, col quale aveva molto stretta dimestichezza. Colà non vi si trattenne molto; ma venutosene a Ferrara, fu due mesi dal Conte Ercole Bevilacqua, e conobbesi col Patrizio, che ricevuto dal Duca leggeva inoltre Platone nello Studio di quella Città» (ivi, p. 162).

1578-1584

Fatto ritorno a Roma, Vecchietti intraprende prima una serie di viaggi, in Spagna, a Siviglia, a Calis e in Alessandria d’Egitto. Quando, tra una missione e l’altra, fa ritorno in Italia, egli sosta a Roma, a Firenze e poi a Pesaro, dove partecipa alle nozze del fratello. Nel corso dei suoi soggiorni a Firenze, Vecchietti frequenta l’Accademia degli Alterati, fondata nel 1569, che contava tra i suoi soci più illustri Giovan Battista Strozzi (1551-1634) e il poeta savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638). Le adunanze dell’Accademia si tenevano abitualmente nel Palazzo Strozzi. Verso il 1584 Vecchietti fa nuovamente ritorno a Roma, dietro sollecitazione di Prospero Colonna, ed è messo in contatto con alcuni professori dello Studium e gli studiosi di lingue antiche attivi presso la Biblioteca Vaticana. A Roma, Vecchietti comincia la sua carriera di diplomatico e orientalista, grazie alla presenza, in quegli anni, di Giovanni Battista Raimondi (c.1536-1614), che fu chiamato a dirigere la Stamperia Orientale Medicea, allestita nel 1584, insieme ad una ricca biblioteca di codici antichi, sotto il patrocinio di papa Gregorio XIII Boncompagni e il sostegno finanziario del cardinale Ferdinando de’ Medici. È proprio in questi anni che Roma va affermandosi come centro europeo di studi persianistici, in una fase segnata da ottime relazioni diplomatiche tra la corte pontificia e il regno safavide di Persia, alleato d’Europa nella lotta contro l’impero ottomano. A dirigere la Stamperia, come si è detto, fu incaricato Giovanni Battista Raimondi, già professore di matematiche presso lo Studium romano, arabista e persianista. Raimondi costituì intorno a sé un gruppo di lavoro che si occupava del reperimento e dello studio dei codici che di volta in volta venivano acquistati attraverso le relazioni diplomatiche intrattenute con l’Oriente, e in particolare con la Persia. Il gruppo era composto da Giovanni Battista Vecchietti e dal fratello Gerolamo, da Paulo Orsino di Costantinopoli, neofita ebreo convertito, e dal frate domenicano Tommaso da Terracina (cfr. A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, 2010-2011, pp. 483-484). Ad essi si aggiunse Giovanni Battista Britti (fl. 1584-1586), un erudito originario di Cosenza, anch’egli esperto persianista, frequentatore del milieu di Ferdinando de’ Medici. Insieme a quest’ultimo, Vecchietti intraprende nel 1584 una missione diplomatica come inviato pontificio presso il Patriarcato copto in Alessandria e in Persia. In occasione di questo viaggio, la raccomandazione di Ferdinando de’ Medici fu quella di reperire manoscritti della Bibbia in lingue orientali, in vista della progettazione di una stampa delle sacre scritture in undici lingue: greca, latina, ebraica, caldaica, siriaca, schiavona, armena, araba, persiana, copta ed etiopica. La prosecuzione della missione fu confermata da Sisto V l’anno seguente, nel giugno 1585. Gerolamo Vecchietti così riassume l’attività di questi anni:

«Ridussesi a Firenze, e rincrescendoli grandemente quella vita così incerta, volse l’animo col consiglio di alcuni amici allo esercizio ordinario de’ nostri antichi, e fu avvisato a Siviglia per un nuovo negozio, che ci si apriva. Si condusse infine a Calis; vi si infermò, e guarito della malattia non passò più oltre, ma giudicò che fosse meglio di ritornare a Firenze, dove cortesemente raccolto dal Signor Nero, ed ito seco a Pesaro quando tolse moglie il fratello, se ne tornò poi anche con lui; e ajutato da amici fe’ due viaggi in compagnia di altri per Alessandria, ed ambedue le volte nel ritorno passò per Roma a rinfrescar la memoria di se con quel Cardinale. Arrivato a Firenze aveva messo in piedi il terzo viaggio di maggior comodità, ed era sul noleggiare della nave, quando una mattina molto a buon’ora essendo ancora a letto, […] su i primi giorni dell’anno 1584, fu mandato a chiamare dal Signor Prospero Colonna, e mostrolli una lettera del Cardinal de’ Medici, che diceva che se ne andasse quanto prima in Roma da lui per servizio di molto grande importanza. Chiese due giorni di tempo. Funne col Gran Duca Francesco: prese le poste, e ci si condusse. E dissegli, che per la cura, che teneva egli per le cose di Levante, aveva pensato di proporlo di presentarlo a Papa Gregorio in due degnissimi negozj Apostolici, e volevane sapere la sua volontà. Glieli fece noti; e il giorno seguente furono da lui volentieri accettati. E fatto quel che si aveva a fare, fu poi dal Cardinale menato al Papa a baciarli il piede. Se ne tornò per le poste a Firenze, licenziò il negozio del viaggio, trattò col Gran Duca, e ritornò tosto a Roma, ed ebbe le sue spedizioni. La prima fu al Patriarca d’Alessandria, che s’invitava all’unione della Chiesa Cattolica, dalla quale i popoli di Egitto fin dall’epoca del Concilio Calcedonense se ne erano separati, per la eresia di Eutiche, e per lo scisma di Dioscoro. La seconda al Re di Persia, che si movesse di là contro il Turco; e li si offeriva buona compagnia alla guerra, in collegar di qua i nostri Principi alla sua distruzione. Partissi per Napoli, passò per Cosenza, e andonne a Messina; imbarcossi per Alessandria; di là se ne salì in Cajero. Presentò al Patriarca il Breve del Papa, negoziò seco, ed ebbene risposta di ottima intenzione, e mandolla a Roma. Colà intanto oltre all’Arabo, che di già si trovava in gran parte avere appreso, si messe con diversi maestri ad esercitare nel Persiano. Venneli nuova che il Patriarca, il quale era vecchissimo, stava male e andollo a trovare nella Città di Naccheri posta quasi a mezzo di quel ramo del Nilo, che se ne scorre a Damiata. Se ne rallegrò assai quando lo vide, e due giorni, che visse, sempre lo volle appresso: intanto che quando uscì di questa vita, li spirò nelle braccia. È usanza in Egitto in casi simili che dopo l’esequie del Patriarca, que’ principali unitisi insieme chiedono licenza al Bassà di potersi congregare, e fare l’altro; e conceduto loro, si mandano a chiamare in Cajero i quindici Vescovi de’ Monasterj, che sono cento e otto, e altre persone più degne; e aspettato che venga il Commus d’Alessandria, che rispetto alla Sede di San Marco precede a tutti, e senza esso non si piò far niente, o colùà, nel Deserto di Nitria, che è più propinquo di San Macario, se ne vanno ad eleggerlo; ed è cosa, che ricerca molto tempo. Giovambattista scrisse a Roma, e diè conto a minuto di quanto passava; e Sisto, che era succeduto a Gregorio, ed ebbe le lettere, ordinò che non aspettasse più, ma che lasciato quel negozio nel termine, che si trovava, se in quel mentre non fosse fatto il nuovo Patriarca, ne se andasse all’altro di Persia» (G. Vecchietti, op. cit., pp. 162-163).

1585-1589

Vecchietti compie la sua missione in Persia, e redige nel 1587 una relazione di viaggio sul regno di Hormuz, «zona del Golfo Persico strategica in itinerario intercontinentale e per la propria ricerca dei codici giudeo-persiani. Egli scrive in una lettera (Ormus, 6 luglio 1587) di avere trovato libri “molto rari e belli”. Egli tornò (giugno 1589) latore di una sontuosa lettera di Solân Mohammad Xodâbandé («servus Dei») re safavide a Sisto V “re di Roma”» (A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., p. 484). Seguiamo ancora la narrazione di Gerolamo:

«Così egli mossosi con una gran carovana, che veniva dalla Mecca, si condusse ad Aleppo, e di là accompagnatosi con mercanti Armeni, che vendute le loro sete ritornavano co’ danari a rinvestirli nel Regno di Ghilan, arrivò in Tauris, poco innanzi ricoverata da quel Re di man de’ Turchi. […] Dopo avendosi nuova che un grossissimo esercito di nemici di oltre a trecento mille persone era tosto per arrivarci, […] egli ancora si partì […]; risoluto, poichè non poteva fare più la medesima strada, avviarsi per Ormus a Goa, e di là ritornarsene con le navi de’ Portoghesi. […] imbarcatosi se ne passò in Ormus, […] arrivò a Goa, e andassone ad alloggiare dal Saffetti, al quale egli poi in Firenze, udita la sua morte, ricordevole dello amico, fece la Orazion funerale. […] si condusse a Lisbona di Settembre del 1588. Di là scrisse a Roma, e Sisto li ordinò che passasse a Madrid, e comunicasse al Re tutto il negoziato […]. Il che fatto, se ne venne appresso in Italia, e smontato a Genova, se ne venne a Firenze, e funne col Gran Duca Ferdinando. […] passonne a Roma, e con l’Ambasciador Niccolino andò innanzi a Sisto […]. Li diè conto di quanto era seguito, e resegli la Lettera del re ruotolata di dieci palmi in lungo, e tutta scritta a lettere d’oro […]; e consideratala, e compiaciutosene, volse che ne leggesse a disteso tutta quanta la traduzione, che ne aveva fatta; e a lui lo onorò con parole magnifiche. […] Stette in Roma tutta quella estate» (G. Vecchietti, op. cit., pp. 163 e 164).

Nonostante le difficoltà e le vicissitudini cui andò incontro Gerolamo Vecchietti due anni dopo la morte di Giovanni Battista (1619), a seguito della pubblicazione di un volume dal titolo De anno primitivo ab exordio mundi ad annum Iulianum accomodato et de sacrorum temporum ratione libri octo (Augustae Vindelicorum, Andreas Aperger, 1621), che gli costò la convocazione da parte dell’Inquisizione (9 settembre 1622), la messa all’Indice del libro e una lunga prigionia nelle carceri del S. Uffizio di Roma, dal 1622 al 1633 (condivisa in parte con Tommaso Campanella), il gruppo principale dei libri giudeo-persiani di proprietà di Giovanni Battista Vecchietti si salvò. Quest’ultimo aveva collezionato più di una ventina di manoscritti biblici ebraici e giudeo-persiani, tra cui i libri del Pentateuco (Bibliothèque Nationale de France, Ms. Hébr. 70-71), tra i pochi sopravvissuti ai giorni nostri, a causa delle successive distruzioni avvenute in Persia per le persecuzioni antigiudaiche. Nel xvii secolo, un cacciatore di manoscritti e codici antichi, Barthélemy d’Herbelot (1625-1695), ebraista, persianista e arabista, conobbe nel 1666 Ferdinando II de’ Medici, Granduca di Toscana, che lo invitò a Firenze, ove l’Herbelot ebbe occasione di acquistare una collezione di 200 codici orientali. Dietro commissione di Ferdinando II egli redasse un inventario dei codici orientali medicei, ricevendone alcuni in dono. Herbelot descrive la collezione medicea come una raccolta di straordinaria importanza, proveniente in buona parte dai fratelli Vecchietti. La libreria dei Vecchietti fu messa all’asta, e d’Herbelot donò al ministro Jean-Baptiste Colbert diversi codici giudeo-persiani appartenuti a quella libreria, oggi in possesso della Bibliothèque Nationale de France (cfr. F. Richard, Le dictionnaire de d’Herbelot, in Istanbul et les langues orientales, Paris, L’Harmattan, 1997, pp. 79-88). Una seconda donazione di codici giunse in Francia da Eusèbe Renaudot (1648-1720), che soggiornò nel 1701 a Firenze, ospite di Cosimo III de’ Medici. Durante la sua permanenza in Firenze, Renaudot visitò la Biblioteca Palatina Medicea, compilando un inventario di codici orientali, e ricevendo in dono una scelta di manoscritti siriaci. Come ricorda A.M. Piemontese (G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, 2010-2011, pp. 493-494): «Nella lettera dedicatoria di un proprio libro a Cosimo III, Renaudot rammenta l’importanza storica della collezione fiorentina di codici orientali risalente alla Stamperia diretta da Raimondi ed elogia i fratelli Vecchietti come fini collezionisti di manoscritti rari». Tra questi, degno di menzione è il Salterio giudeo-persiano (Bibliothèque Nationale de France, Suppl. Pers. 1), detto il Salterio di Davide, comprendente 150 Salmi e recante il testo ebraico e la versione persiana interlineare in caratteri arabi, dettata da Giovanni Battista Vecchietti (Hormuz, maggio 1587) ad un calligrafo cristiano. Un passaggio della lettera dedicatoria a Cosimo III de’ Medici, Granduca di Toscana, recita: «Nam illorum qui Florentiam in Orientem proferti, magnam rarissimorum librorum Orientalium qui in Bibliotheca tua conservantur copiam collegerunt, quis meminit? Fuerunt tamen praeter eos quorum nomina ignorantur, his litteris eruditissimi Joannes Baptista Vecchietus et Hieronimus ejus frater Florentini, sed ille praesertim: supersunt plures Manuscripti codices, qui illius quondam fuerunt, Arabici et Persici, ex quibus eum in utraque illa lingua majores, quam Europaeus ante illum quisquam, progressus fecit demonstrantur. Insignis est prae ceteris Codex Persicae Psalmorum ex Hebraeo versionis, de qua judicium ultimis foliis adjecit suum; ex quo intelligere licet, non eum modo vulgaris tunc linguae, sed veteris etiam, stylique eius recondioris poëtarum, peritissimum finisse, quod etiam notae plures codicibus adiunctae palam faciunt» (E. Renaudot, Historia Patriarcarum Alexandrinorum Jacobitarum a D. Marco usque ad finem saeculi XIII, Parisiis, F. Fournier, 1713, f. âiijr-v, in A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., p. 494 e n. 54). Sull’affaire che coinvolse Gerolamo Vecchietti, Campanella e l’Inquisizione, cfr. F. Beretta, Campanella, Urbain VIII et le procès de Gerolamo Vecchietti. Une définition doctrinale éclipsée, «Bruniana & Campanelliana», xix, 2013, 2, pp. 129-146.

1589-1593

Durante il pontificato di Clemente VIII (1592-1605), il nipote Cinzio Aldobrandini (Cinzio Personeni da Ca’ Passero, 1551-1610), cardinale di S. Giorgio, segretario di stato e addetto alle relazioni diplomatiche con la Persia, accoglie nella propria accademia romana intellettuali e letterati come Torquato Tasso (1544-1595), Francesco Patrizi (passato nel 1592 ad insegnare filosofia platonica presso lo Studium romano), Giovanni Battista Raimondi, Antonio Querenghi (1546-1633), Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), Gabriello Chiabrera, Giovanni Battista e Gerolamo Vecchietti. Nel frattempo, Ferdinando de’ Medici, dopo essere diventato nel 1587 granduca di Toscana, ormai ex cardinale, rivendica la proprietà della Stamperia. Il progetto iniziale della pubblicazione di una Bibbia poliglotta andò tuttavia incontro a serie di difficoltà di realizzazione, per la mancanza di adeguate risorse finanziarie, ma anche per la vastità dell’opera stessa, tanto che, nel 1593 (il 28 gennaio), Raimondi si fece latore di una proposta a papa Clemente VIII Aldobrandini, di stampare il testo sacro nella sola lingua persiana, che giudicava «antichissima et famosissima et la più bella di quante lingue siano finora state conosciute da noi» (G.E. Saltini, Della Stamperia Orientale Medicea e di Giovanni Battista Raimondi, «Giornale Storico degli Archivi Toscani», 1860, p. 278). Nel corso della sua attività, la Stamperia Orientale Medicea si limitò alla pubblicazione di un limitato numero di opere, sebbene di grande interesse storico-scientifico e religioso, tra cui i quattro Vangeli (Evangelium sanctum Domini Nostri Iesu Christi conscriptum a quatuor evangelistis sanctis idest, Mattheo, Marco, Luca, et Iohanne, Romae, in Typographia Medicea, 1590); un Alphabetum Arabicum (Romae, in Typographia Medicea, 1592); la Geographia di al-Idrisi (De geographia universali, Romae, in Typographia Medicea, 1592); il Canone di Avicenna (Libri quinque canonis medicinae. Quibus additi sunt in fine libri logicae, physicae et metaphysicae. Arabice nunc primum impressi, Romae, in Typographia Medicea, 1593); un’edizione araba degli Elementi di Euclide (Euclidis elementorum geometricorum libri tredecim. Ex traditione doctissimi Nasiridini Tusini. Nunc primum Arabicae impressi, Romae, in Typographia Medicea, 1594). Sull’accademia Aldobrandini, cfr. M. Muccillo, Il platonismo all’Università di Roma: Francesco Patrizi, in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, 1992, pp. 200-247; e A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., pp. 484-490.

Nel 1592, a Roma, Giovanni Battista Vecchietti conosce Tommaso Campanella (1568-1639), che giusto l’anno prima aveva pubblicato a Napoli, presso lo stampatore Orazio Salviani, la Philosophia sensibus demonstrata, opera di chiara impronta e ispirazione telesiana. Così racconta il fratello Gerolamo di questo fortunato incontro:

«Venuto Clemente [Clemente VIII, 1592-1605], la prima cosa, che fece nel suo Pontificato, fu la spedizione per Alessandria; la quale innanzi essendo cardinale l’aveva molto favorita, ed erali fuor di modo fissa nella mente. Avutone i dispaccj, e messosi in assetto, s’intese colà che ci era la peste; onde li fu ordinato che ci soprasedesse. In questo tempo in Roma praticò per alcuni giorni con Fra Tommaso Campanella» (G. Vecchietti, op. cit., p. 165).

1593-1594

Nel marzo del 1593 Giovan Battista Vecchietti parte per una missione diplomatica in Spagna, a Madrid. Qui presenta a Filippo II una perorazione per l’acquisto della Stamperia, che versava ormai in insormontabili difficoltà finanziarie. La lista inclusa dei manoscritti presenta tra i libri in lingua persiana una versione dei quattro Vangeli, un codice integrale del Nuovo Testamento e «plures veteris testamenti libri». Quando, nel 1610, Vecchietti redige una lista dei manoscritti presenti nella Biblioteca della Stamperia Medicea, citerà ancora, tra i codici in lingua persiana, «li quattro Evangelj» e «Li cinque libri di Moïse» (il Pentateuco) (cfr. A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., p. 485 e nn. 13 e 14). Gerolamo Vecchietti ricorda, circa il viaggio di Giovanni Battista in Spagna, che «diedesi con Nunzio Gaetano a trattare col Re, e trovò molte difficoltà. Lettere andavano, e lettere venivano; e consumossici un anno e mezzo di tempo, e non si concluse nulla» (G. Vecchietti, op. cit., p. 165).

15 aprile 1596

Giovanni Battista Raimondi acquista da Ferdinando I la Stamperia Orientale Medicea per la somma di 25.000 scudi. La Stamperia continuò ad operare tra molte difficoltà. Essa sembrò riprendere vigore, molti anni dopo, con il progetto di una nuova edizione dei libri di canto fermo e dei libri liturgici riformati, che utilizzava un metodo innovativo per la stampa delle note. A tal fine, il 23 gennaio 1614 fu costituita una società tipografica di venti quote, delle quali nove furono attribuite a Raimondi, titolare della tipografia, altrettante a Lodovico Angelita, maestro di camera di Clemente VIII e finanziatore dell’impresa, due a Girolamo Lunadoro (1575-1642), in qualità di sovrintendente alla stampa. La prima opera, la splendida Editio Medicea del Graduale romano, fu realizzata fra il 1614 e il 1615, ma Raimondi, morto il 13 febbraio 1614, non riuscì a vederla (cfr. F. Crucitti, Lunadoro, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 66, 2007).

20 ottobre 1598

Sertorio Quattromani invia da Napoli una lettera a Giovanni Battista Vecchietti. Nell’epistola il Quattromani fa riferimento a due scritti telesiani rimasti inediti, dopo l’importante edizione dei Varii et de naturalibus rebus libelli (Venetiis, apud Felicem Valgrisium, 1590) curata da Antonio Persio (1542-1612), cioè il Quomodo febrius faciunt, causis (noto anche come De causis febrium) e il De fulmine, risalenti rispettivamente al 1586 e al 1583. Nella lettera si mette in rilievo l’autorevolezza riconosciuta ormai al Vecchietti non solo dallo stesso Quattromani, che non esita a mostrare la sua amicizia e la sua stima all’intellettuale cosentino, ma anche e soprattutto dall’ambiente culturale e religioso nel quale il Vecchietti si muoveva in quel tempo, cioè la corte pontificia e la Biblioteca Vaticana (sugli opuscoli telesiani menzionati nella lettera, cfr. E. Sergio, Bernardino Telesio. Una biografia, cit., pp. 69-70 e 73). Citiamo di seguito la lettera del Quattromani:

«Io ho qui i Dialoghi dell’Imprese, et porterolli meco, perché ricevano dal giudicio di Vostra Signoria quel lume, et quella perfettione, che non possono sperare da me. Il procaccio di Cosenza havea a venir qui questa sera, et non è venuto; verrà dimani, et havrò di casa ciò che io chiedo, et senza aspettar altro mi porrò in camino, et ella ha il torto a sospettare della mia fede. Ma io mi protesto, che non mi bastano le accoglienze, che mi farà Vostra Signoria e il Signor Girolamo, ché vo’ anco che me facciano altri per cagion loro, altrimenti me ne tornerò volando, et se non mi basterà Napoli, trapasserò insino a gli estremi fini della Calabria. In non ho qui il libro Delle febri [1586] del Signor Telesio; ho procurato che mi venga da Cosenza, insieme con un bellissimo Discorso [De fulmine], che egli fa di quel folgore, che cadde in forma di ferro in Castrovillari gli anni a dietro [1583], et ho da portare tante altre cose, antiche et nuove, che ne potrei inondare tutta Roma. Et se il Signor Fulvio Orsino ne havesse sentore, procaccierebbe d’havermi al numero de i suoi servitori, et non mi darebbe bando dalla sua gratia. Ma non vo’ più assordarla con queste ciancie. Et le bacio la mano.
Di Napoli, a’ 20 di Ottobre, 1598».
(S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, Arcavacata di Rende, Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1999, p. 157).

1599-1608

Giovanni Battista Vecchietti intraprende un nuovo viaggio in Persia, nei paesi vicini e in India. A Hormuz si ferma dal 1599 al 1602, visitando anche altre città. Tra il 1603 e il 1605 viaggia in India, visitando Delhi e Agra. In India è raggiunto, il 17 gennaio 1605, dal fratello Gerolamo, giunto a Baghdad il 30 novembre 1603, e partito da Roma il 16 aprile. A Baghdad, Girolamo recupera un cassa custodita, contenente una raccolta di codici persiani e in lingua ebraica, che si preoccupa di fare inviare a Venezia, perché raggiungesse Firenze (cfr. G. Vecchietti, Della sua Peregrinatione d’Oriente, Archivio Segreto Vaticano, Fondo Pio, 118, ff. 43r-179v, qui ff. 53v-54r, in A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., p. 486). I due fratelli fanno ritorno a Hormuz nel 1606. Nel corso dello stesso anno, dopo l’inaugurazione del pontificato di Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621), un’importante missione diplomatica va realizzandosi nei rapporti fra la Chiesa di Roma e i territori persiani: ne è ancora protagonista Vecchietti, che invia in Italia il progetto di una traduzione in persiano della Bibbia.

settembre 1609

Il Vecchietti, interprete presso il Granduca di Toscana a Firenze, incontra Sir Robert Shirley (c.1581-1622), ambasciatore del re di Persia e legato ai missionari Carmelitani presenti in Persia da alcuni anni. Sir Robert Shirley ebbe udienza presso Paolo V per discutere della protezione della Chiesa Cattolica in Persia, ottenendo la nomina del nipote di Paolo V, il cardinale Scipione Borghese Caffarelli (1577-1633), per la cura delle missioni insediatesi in Persia. Al servizio di Scipione Borghese viene designato Girolamo Lunadoro, già maestro camerale di Cinzio Aldobrandini e collaboratore di Giovanni Battista Raimondi.

31 luglio 1610

Paolo V emette la bolla Apostolicae servitutis onere, con la quale si istituisce l’insegnamento dell’ebraico, del greco, dell’arabo, del caldaico e del persiano presso alcuni conventi romani di diversi ordini religiosi. Per l’occasione, Giovanni Battista Raimondi viene designato ad insegnare nel convento dei Chierici Regolari Minori di S. Lorenzo in Lucina.

febbraio 1611

Giovanni Battista Vecchietti torna in Spagna per cercare altri sostegni finanziari presso il re Filippo III. Con sé, egli reca un breve di Paolo V, datato 14 gennaio 1611 (Archivio Segreto Vaticano, Arm. xlv, t. 6, f. 114v, n. cclxxv).

13 febbraio 1614

Morte di Giovanni Battista Raimondi, che viene sepolto in S. Lorenzo in Lucina. Pochi giorni prima, il 2 febbraio, Raimondi aveva fatto testamento, nominando erede universale della Stamperia Orientale Medicea il Granduca di Toscana. Alla morte del Raimondi, seguì lo smantellamento della Stamperia e il trasferimento della biblioteca, molti anni più tardi (1627), dalla residenza medicea romana a Firenze.

1617-1618

Vecchietti trascorre i suoi ultimi anni di vita a Napoli («fu alloggiato dal Bandeni con molta cortesia») in uno stato di malattia cronica («stette male a morte, e l’infermità fu lunghissima») e di indigenza «crebbero li bisogni, e crebbero li patimenti» (G. Vecchietti, op. cit., pp. 189-190). In quel tempo, a Napoli, egli ha modo di rivedere ancora una volta Tommaso Campanella, conosciuto a Roma circa quindici anni prima. Così narra Gerolamo Vecchietti:

«Qui fra i travagli facea a se stesso di se allegrezza, componendo alcuni degni Sonetti alla figlia del Duca di Bernauda: praticava alle strette con Fra Tommaso Campanella, da lui ammirato ed amato, ancorché stia in carcere, afflitto dalla persecuzione della virtù; e conferivano gran misterj della conversione delle nazioni a Cristo; e pensava farlo liberare, tornando a Roma, e insieme andar in Levante; e di esso il Campanella fa menzione onorata nel Libro del Reminiscentur» (ivi, p. 190).

Il titolo completo dell’opera di Campanella citata dal Vecchietti è Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, Psal. 21, composta dallo Stilese tra il 1617 e il 1618. Divisa in quattro parti, l’opera è rimasta inedita fino al xx secolo (a più riprese, è stata pubblicata per le cure di Romano Amerio: Padova, cedam, 1939, libri i e ii; Firenze, Olschki, 1955, libri iii e iv, Per la conversione degli Ebrei e Legazioni ai Maomettani).

8 dicembre 1619

Vecchietti si spegne a Napoli l’8 dicembre 1619. Così Gerolamo ricorda gli ultimi giorni del fratello:

«Era in punto per tornarsene a Roma, […] e visitata a’ ventisei di Novembre di questo prossimo anno passato 1619, quella divotissima Chiesa, che è fuori di Napoli, della Madonna dell’Arco, e ivi comunicatosi, la notte seguente de’ ventisette, […] fu assalito da una gran febbre; andollo sempre aggravando; conobbesi il male; affisesi al Signore, e con molto affetto di cuore chiese di nuovo la Confessione; e ricevuti i Santissimi Misterj, e unto dell’estremo Sagramento, e sempre in se permanente, il dì degli otto di Dicembre, dicendogli quel Padre, che lo confortava, che stesse di buona voglia, e ripostoli egli con viso allegro queste parole istesse: Padre mio, io tengo tanta ferma fede nella gloriosa Vergine, che questo giorno festa sua solenne Ella mi salverà; rese lo spirito al suo fattore […]. Aveva egli in somma venerazione la Santissima Madre di Dio; e ricordomi che solea dire che desiderava di aver grazia di morire in alcune delle sue solennità; e funne consolato. Fe testamento, e lasciò per suo erede universale Orazio Tedeschi Fiorentino, persona meritevole, a cui per la mia assenza raccomandasse le cose sue» (ivi, p. 190).

Gabriello Chiabrera, in memoria dell’amico scomparso, dedicò a Giovanni Battista il seguente epitaffio:

«Sul punto, ch’io mori, contava gli anni / Oltra i settanta, onde nel mondo io vissi / Ben lungamente; e però far potrei / Ampio raconto de le mie venture: / Ma pregio di modestia è parlar poco; / Io mi nacqui in Cosenza in riva al Crate, / Ma fu la nostra stirpe entro Firenze / Originata, e sovra i sette colli / Hebbe à fiorir mia giovenile etate; / Quinci il Pastor che’n Vatican corregge / Messaggero m’eresse al re de Persi; / Ed io valsi a fornir la lunga strada; / Poi di peregrinar tanta vaghezza / Il cor mi prese, che trascorsi agli Indi, / E vidi il Gange; indi sotto alte antenne / D’Arabia corsi, e d’Etiopia i negri; / Per cotal guisa fummi aperto il varco / Alle Reggie de grandi; Hora io, che tanti / Vidi paesi, e di cotanti Regi / Scorsi l’altezza, non mirai paese, / Ove la morte non havesse impero; / Felice l’hom, che lietamente vive, / E lieto à la morte s’apparecchia».
(G. Chiabrera, Poesie e prose autografe, Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Ferraioli 698, ff. 181-182, in A.M. Piemontese, G.B. Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, cit., p. 491).

 

Bibliografia

Fonti e studi

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