Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 566

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et vuol vederla honorare come imagine risplendente di Dio.
Et se pure non è honorato non s'attrista il generoso, perché
è consapevole sé esser degno d'honore: onde è beato
in sé non in altri, et di questa sua beatitudine si
contenta, da Dio conosciuta ed apprezzata. Solamente obedisce
et riverisce i buoni et le leggi, come simili et da simili
fatte, et più quando da Dio. Riverisce ancho coloro i quali
son di meno virtù di lui, quando li fanno alcun benefitio,
perché quella cosa in essi honora della qual si conosce esser
degno di esser fatto partecipe. Non si vendica dell’ingiurie
de malvaggi, ma quando le si fanno si guarda, ma poi non
ne piglia vendetta - sì come né anche ci vendichiamo d'un
calcio d'un asino -, perché giudica i suoi malfattori indegni
di contender seco: benché la fortezza, ch'è sua
sirocchia minore, si vendichi delle ingiurie fatte per disprezzo,
ma non dell’altre a caso o da matti o da ebrij.
Né teme morir se non per propria colpa. Et combatte così
in secreto come in palese contra il male, non per non
apparir da sé esser tralignante, ma per non diventar tralignante
operando talmente. Et di nessuno si vergogna più
che di sé stesso mal oprante, quando fa male. Nondimeno
la generosità mai non fa vendetta, ma tutto rimette a Dio,
vergognandosi di trattar con bassi, come s'havesse a vendicarsi
di ebrij o matti vilmente et pigliar legge da loro:
mentre rende bene per male, non per timore, ma per la detta

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