Tommaso Campanella, La Città del Sole, p. 15

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quelli fanciulli, che intendevano la mia lingua; perché d’ogni
lingua sempre hanno d’esser tre che la sappiano. E tra loro
non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti; ché però
vanno in campagna a correre, a tirar dardo, sparar archibugi,
seguitar fiere, lavorare, conoscer l’erbe, mo una schiera, mo
un’altra di loro.
Li tre offiziali primi non bisogna che sappino se non quell’arti
che all’offizio loro partengono. Onde sanno l’arti communi
a tutti, istoricamente imparandole, e poi le proprie, dove
più si dà uno che un altro: così il Potestà saperà l’arte cavalieresca,
fabricar ogni sorte d’armi, così di guerra machine,
arte militare, ecc. Ma tutti questi offiziali han d’essere filosofi,
di più, e istorici, naturalisti e umanisti.

Ospitalario. Vorrei che dicessi l’offizi tutti, e li distinguessi;
e s’è bisogno l’educazion commune.
Genovese. Sono prima le stanze communi, dormitori, letti
e bisogni; ma ogni sei mesi si distingueno dalli mastri, chi ha
da dormire in questo girone o in quell’altro, e nella stanza
prima o seconda, notate per alfabeto.
Poi son l’arti communi agli uomini e donne, le speculative
e meccaniche; con questa distinzione, che quelle dove ci va
fatica grande e viaggio, le fan gli uomini, come arare, seminare,
cogliere i frutti e pascer le pecore; però nell’aia, nella vendemia,
nel formar il cascio e mungere si soleno pur le donne
mandare, e nell’orti vicini alla città per erbe e servizi facili.
Universalmente, le arti che si fanno sedendo e stando, per lo
più son delle donne, come tessere, cuscire, tagliar i capelli e le
barbe, la speziaria, fare tutte sorti di vestimenti; altro che
l’arte del ferraro e delle armi. Pur chi è atta a pingere, non se
le vieta. La musica è solo delle donne, perché più dilettano, e
de’ fanciulli, ma non di trombe e tamburi. Fanno anche le
vivande; apparecchiano le mense; ma il servire a tavola è proprio
delli gioveni, maschi e femine, finché son di vint’anni.

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