di Viviana Strangis

Il contesto. Ortodossia ed eterodossia religiosa nel ’500 italiano ed europeo

La vicenda biografico-intellettuale di Bernardino Ochino è bene in linea con quella di molti suoi contemporanei che, nel rigido clima di censura che caratterizza gli anni della Controriforma, dotati di un ingegno vivace e quasi precursori del libero pensiero europeo del XVII secolo, si macchiarono dell’accusa di eresia che pagarono al prezzo di continue fughe e spostamenti.

Agli studiosi è noto che gli anni che caratterizzano la seconda metà del XVI secolo sono anni di forte turbamento nel mondo della Chiesa. La Riforma luterana era riuscita a mettere a dura prova la stabilità di quell’istituzione antichissima e potentissima che la Chiesa romana aveva rappresentato fino a quel momento. Movimenti di dissenso religioso si manifestavano in ogni parte dell’Europa, in maniera a volte più forte e plateale, a volte più silenziosa e nascosta.

È noto altresì che la Chiesa abbia tentato di difendersi adottando misure talvolta discutibili al fine di arginare quel generalizzato fenomeno di contestazione, critica e polemica proveniente non solo dagli ambienti filosofici e intellettuali ma anche, seppure in forma più mediata o moderata, dall’interno della Chiesa stessa. Letterati, filosofi, artisti, chiunque non fosse perfettamente in linea con l’ortodossia religiosa veniva accusato di eresia e condannato a pene di vario genere, compresa la pena di morte. Forme di repressione meno violente venivano adottate, invece, nel mondo della cultura: attraverso la creazione dell’Index librorum prohibitorum (creato da Paolo IV nel 1559) e rimasto in vigore fino al 1966 fu possibile avere un elenco di tutte le pubblicazioni la cui divulgazione, promozione e lettura era proibita o parzialmente consentita (sotto la formula donec corrigetur) dalla Chiesa cattolica. Da qui la tendenza diffusa ad espatriare alla ricerca di città più tolleranti nelle quali gli esuli speravano di poter professare liberamente il proprio credo o di affermare le proprie idee, di stampo religioso o filosofico. Beninteso, come la triste vicenda della prima prigionia di Giordano Bruno racconta, anche nelle regioni apparentemente più tolleranti verso la libertà religiosa «fiorivano i delatori e le spie; anche qui essi sperimentarono dolorosamente lotte religiose e divisioni con il relativo corteo di liti e di discordie» (L. De Franco, L’eretico Agostino Doni, medico e filosofo, Cosenza, Pellegrini, 1973, p. 9). In non pochi casi diversi protagonisti della prima età moderna sperimentarono la disillusione, «tanto più grande quanto più rosee erano state le speranze cullate» (ivi, p. 10).

Quand’anche città come Venezia, Lione, Ginevra, Basilea, Francoforte, tradizionalmente note per essere il rifugio di pensatori o luogo di edizione di opere scomode o ritenute “empie”, non si mostravano in grado di tutelare gli esuli per garantirgli quella libertà di pensiero che essi cercavano, fosse pure a mezzo della stampa delle loro opere, si assisteva ovunque in Europa all’aumentare repentino di pubblicazioni clandestine, prive di insegne editoriali o con le notizie tipografiche volutamente contraffatte, che circolavano sia negli ambienti più colti e più attenti all’uscita di novità editoriali, sia negli ambienti stessi della censura (sul tema della censura esiste una nutrita letteratura; rinviamo per tutti alla recente edizione a cura di J.M. de Bujanda, Index des livres interdits, 10 voll., Genève, Droz, 1984-1996; al testo di E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008; all’ormai noto L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2000; al volume collettivo curato da G. Fragnito, Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; nonché all’interessante edizione di Pierre-Noël Mayaud, Le Conflit entre l’astronomie nouvelle et l’Ecriture Sainte aux XVI e et XVII e siècles, 6 voll., Paris, Honoré Champion, 2005; di quest’ultimo autore, si veda anche La condamnation des livres coperniciens et sa révocation à la lumière de documents inédits des Congrégations de l’Index et de l’Inquisition, Rome, Université Pontificale Grégorienne, 1997).

Nonostante che Basilea fosse un rifugio per quanti intendevano diffondere idee non conformi all’ortodossia religiosa, il decennio che va dal 1570 al 1580 vide un progressivo incremento dell’attività censoria da parte delle autorità ecclesiastiche che acquisirono sempre maggior controllo sulla vita religiosa (e quindi, inevitabilmente, culturale) anche di città liberali come Basilea.

Nelle università si alternavano i rettorati di ecclesiastici più intransigenti come Ulrich Koch e Simon Sulzer o di personalità più tolleranti come Basilio Amerbach e Theodor Zwinger. In questo clima di rigida censura, i primi ambienti ad essere controllati erano le stamperie che, ovviamente, svolgevano un ruolo di primo piano nella diffusione del “germe ereticale”.

La vicenda di Bernardino Ochino si inserisce a pieno titolo in questo contesto; il suo percorso biografico è ben in linea con quello di molti altri suoi contemporanei: è un eretico religioso costretto ad espatriare alla ricerca di ambienti più tolleranti, che gli consentano di portare avanti la sua predicazione e le sue riflessioni. L’eresia di Ochino, se così la dovessimo caratterizzare, è un’eresia che viene fuori da una complessa dialettica tra la dimensione spirituale e quella razionale. Come scrive Benedetto Nicolini, «c’era in lui [Ochino] l’entusiasmo del credente, sicuro che in Cristo soltanto sia la verità assoluta (e fervido cristiano l’Ochino restò sempre) e, al tempo medesimo, il tormento del pensatore, che, tentando di spiegarsi e di approfondire siffatta verità, finisce, come accade a tutti i pensatori, […] con l’essere continuamente assillato da dubbi e incertezze» (B. Nicolini, Bernardino Ochino e la riforma in Italia, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1935, p. 10).

1487-1504

Nato a Siena nel 1487 dal barbiere Domenico Tommasini col nome di Bernardino Tommasini, non è ancora ben chiara l’assunzione dell’appellativo Ochino con il quale ci è noto. Secondo quanto apprendiamo da Miguel Gotor, le ipotesi circa il suo soprannome sarebbero disparate: «nel Cinquecento l’umanista Aonio Paleario e la ferrarese Olimpia Morata credettero che fosse chiamato così a causa dei suoi occhi piccoli; secondo lo storiografo cappuccino Zaccaria Boverio quello sarebbe stato il nome della famiglia; per l’erudito Giusto Fontanini fu identificato in quel modo in quanto originario della contrada senese dell’Oca e questa versione tardosecentesca ha finito per prevalere nonostante non sia mai stata provata; altre fonti attestano che il nome derivasse dalla voce chioccia come quella di un’oca, oppure che fosse un vezzeggiativo per indicare il suo bell’aspetto» (M. Gotor, Ochino, Bernardino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 79, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2013).

Le poche informazioni che si hanno dei primi anni della sua vita non sono molto sicure: lavorò come paggio alla corte del signor Pandolfo Petrucci e fin da giovane manifestò un ardente spirito religioso cui andava, di pari passo, un ardente spirito critico che lo spingeva alla continua ricerca della verità. Convinto che il grado sommo della sapienza risiedesse in Cristo e, desideroso più che mai di immettersi sul tortuoso cammino della ricerca di questa ambita sapienza, negli anni della gioventù gli parve che l’ambiente cattolico che maggiormente poteva conformarsi al suo ideale fosse l’Ordine dei Minori Osservanti, nel quale entrò probabilmente nel 1504, attratto dall’austerità di vita che lo caratterizzava. Emerge, infatti, da una lettera indirizzata a Girolamo Muzio, che il suo desiderio più vivo e profondo fosse la salvezza e riteneva che la strada più appropriata per il raggiungimento di questa agognata meta fosse la Chiesa cattolica. Dati questi presupposti, è lecito credere che se in Ochino ci fosse stato solo lo spirito del credente, sarebbe rimasto nell’Ordine per tutta la vita dedicandosi solo alla preghiera, all’ascesi, ai digiuni e alle astinenze. Ma «poiché, oltre che leggere, egli desiderava con non minore ardore di comprendere, e comprendere non si può senza farsi colti, è perfettamente naturale che divenuto frate, consacrasse tutto il tempo disponibile agli studi teologici, filosofici e filologici» (B. Nicolini, Bernardino Ochino, cit., p. 13).

Acquisita, pertanto, la conoscenza del greco, dell’ebraico e del latino, Ochino cominciò ad approfondire i temi portanti della filosofia e della religione provenienti dalla tradizione. Le sue opere furono scritte tutte in volgare: e il motivo è da rintracciarsi nella volontà di Ochino di voler parlare alla gente senza la pretesa di apparire un dotto o un letterato. La conoscenza delle lingue antiche gli serviva solo come strumento per poter attingere ai classici del passato nella loro forma integrale, non per promulgare le sue idee. Così si spiega l’atteggiamento che, implicitamente negli anni giovanili e più esplicitamente in quelli della maturità e della vecchiaia, Ochino assunse di fronte ai primi classicisti tardoquattrocenteschi: «antagonista, per esempio, alla concezione storiografica degli umanisti, i quali ritenevano plenitudo temporum l’epoca del trionfo dell’antichità romana e del bel latino ciceroniano» (ivi, p. 14), Ochino avrà sempre come priorità la diffusione della verità presso la gente del popolo, i cui cuori difficilmente si sarebbero potuti raggiungere attraverso un linguaggio colto e raffinato. In più, quella cultura umanistica tanto celebrata nei circoli intellettuali a lui contemporanei, ai suoi occhi appariva sempre incompleta e insoddisfacente: per quanta saggezza gli uomini si fossero sforzati di raggiungere, essa sarebbe stata sempre comunque minima rispetto a quella proveniente da Cristo stesso.

1510

Nella formazione di Ochino un altro particolare non trascurabile furono gli studi di medicina che egli compì a Perugia, probabilmente negli anni successivi al 1510. Formazione medica, dunque, umanistica e teologica andavano così a saldarsi e ad intrecciarsi in un’unica personalità, e alla ricerca di una sintesi unitaria Ochino intraprese il suo cammino di pensiero, stimolato dall’idea, diffusa in specie nella tradizione sincretistica della gnoseologia cristiana delle origini – e ripresa e rielaborata già nel primo Cinquecento –, secondo la quale ciò che si avverte è nello spirito, mentre ciò che si manifesta e si esibisce all’apprensione sensibile è nel corpo; laddove il corpo è la base, il ricettacolo indispensabile, insostituibile dello spirito e dell’insieme delle attività vitali. In questo senso, prende forza in Ochino l’idea che «nulla di meglio di uno spirito medicamentoso può curare e guarire lo spirito malato dell’uomo» (A. Bangrazi, F. Petti, Il medico, l’arte, la scienza, la virtùMateriali per una ricerca bibliografica e iconografica su Paracelso nella Biblioteca Casanatense, Roma, Edizioni Paracelso, 1993, p. 25).

In altri termini, nel corpo si manifesta in maniera visibile ciò che nello spirito avviene in maniera invisibile. La cura del primo contribuisce al benessere del secondo, le azioni del corpo sono uno specchio dell’attività compiuta dallo spirito. Questo il motivo per il quale formazione umanistica e impostazione medica sono, soprattutto nel Rinascimento, due branche che camminano di pari passo nelle grandi personalità di questo periodo. Così, non solo non è insolito, ma è addirittura frequente assistere «all’intreccio tra attività filologica imperniata sulla rimeditazione delle lezioni degli antichi, l’esercizio della professione medica, la riflessione scientifico filosofica» (A. Pastore, E. Peruzzi, Girolamo Fracastoro. Fra medicina, filosofia e scienze della natura, Firenze, Olschki, 2003, pp. 23-24).

Tuttavia gli studi di medicina, ai quali Ochino pur si dedicò, non riuscirono mai a distoglierlo dal suo interesse più profondo per gli studi di filosofia e di teologia ai quali indirizzò tutte le sue energie e i suoi sforzi. L’approccio che il predicatore di Siena ha verso la tradizione filosofica è influenzato dalla concezione filosofica bonaventuriana. Bonaventura da Bagnoregio fu infatti il filosofo con il quale Ochino intrattenne il rapporto più stretto, finendo per far sue molte delle posizioni da questi adottate. Com’è noto, per Bonaventura la filosofia è quel tipo di conoscenza che, servendosi della ragione naturale, contribuisce al raggiungimento dell’amore di Dio; tuttavia, quando la ragione naturale, nell’indagare le cose del mondo, pretende di rintracciare in esse dei fini piuttosto che dei mezzi, incorre in dei gravissimi errori. Per non cadere in errore la filosofia deve essere subordinata alla teologia, come una sua ancella. Sebbene l’uomo del Rinascimento tenterà di sottrarsi all’egemonia delle questioni teologiche, interessandosi sempre più alla filosofia della natura, Ochino rimane ancora fortemente ancorato alla tradizione medievale di Bonaventura e alle questioni da lui sollevate defindendo «impii et stolti quelli che vogliono fondare Christo sopra Aristotele, simili a chi volesse fondare una torre sopra un filo di paglia. Christo, e non la filosofia è l’unico vero fondamento della sua Chiesa et della vera sopranaturale teologia, della quale lui è l’unico maestro, e non Aristotele» (cfr. B. Nicolini, Bernardino Ochino e la riforma in Italia, cit., p. 24).

Accanto al mistico e al pensatore troviamo poi un Ochino molto impegnato nelle opere; tale predisposizione all’operare nasce dall’idea per cui se Dio non è ozioso, alla stessa maniera anche l’uomo, posto nel mondo, dovrà portare a termine la missione che quel Dio gli ha dato sottraendosi all’ozio e, quindi, operando. La vita di Ochino da questo punto di vista è una vita esemplare: egli si rese protagonista di un’intensa attività di predicazione che, coniugata ad uno stile di vita austero e rigoroso, improntato sull’astinenza e lontano da ogni sfarzo, ben presto lo avrebbe reso noto in tutta Italia. Si racconta infatti che «camminava sempre a piedi nudi. Non fu visto quasi mai cavalcare, nemmeno un modesto asinello. O che imperverasse una tormenta di neve o che la terra fosse bruciata dal solleone, andava sempre a capo scoperto […] O che vivesse in un convento o che fosse ospite di un principe, non beveva mai vino, non mangiava mai carne, né faceva se non un pasto al giorno, che, anche nei periodi di più intensa predicazione, si riduceva a una sola semplicissima vivanda» (ivi, p. 26).

1534

Le sue doti di predicatore rimasero quasi nascoste fintanto che egli rimase nell’ordine dei Minori Osservanti. Poi, probabilmente a causa dell’impossibilità di diventare generale dell’Ordine, nel 1534 passò nella famiglia dei Francescani fondati da fra Matteo Passi.

Qui, grazie ai contatti stretti che intrattenne con i vescovi e con le classi dirigenti cittadine, promosse una serie di iniziative assistenziali e caritative, accentuando il carattere sociale della sua predicazione; tra queste si ricordano: l’istituzione a Roma di un luogo per le donne non sposate finanziato da Paolo III e da alcuni cardinali, la fondazione a Perugia di un Conservatorio per chi versava in condizioni di miseria e abbandono e l’iniziativa dei “Cappuccinelli” volta alla tutela di minori in difficoltà. Negli anni a seguire si dedicò ad altre attività solidali: nel 1537 a Bologna predicò a sostegno dell’ospedale dei Bastardi mentre a Ferrara, grazie all’appoggio di Vittoria Colonna, nobildonna con la quale fu sempre in buoni rapporti, stabilì il monastero delle clarisse cappuccine. L’anno successivo, venuto a conoscenza dei conflitti interni che animavano i villaggi della Val di Amone, convinse i cittadini di Faenza a istituire una commissione incaricata di porre fine a quello stato di cose. Sempre nel 1538 una sua predica contro l’avarizia incoraggiò il consiglio cittadino di Lucca a prendere provvedimenti per arginare quel fenomeno di miseria generalizzata che colpiva larghi strati della popolazione. Nel 1539 a Venezia predicò in favore dell’ospedale degli Incurabili, incitando le donne del posto a riunirsi in compagnie che facessero opera di assistenza per i poveri.

Gli anni a partire dal 1534, oltre ad essere di forte impegno sociale, sono anni particolari anche nel percorso di crescita spirituale di Bernardino Ochino. La Chiesa, infatti, attraversa un momento di forte turbamento perché, rapidamente, iniziano a prendere piede le varie dottrine riformate che da tempo si stavano formando in seno al mondo cattolico, accendendo aspri dibattiti interni e insinuando dubbi di ogni natura anche all’interno di personalità in vista. Ochino, da persona d’ingegno acuto quale era, non poté rimanere estraneo al dibattito mosso dalle dottrine riformatrici: dapprima iniziò a studiarle sottoponendole al lume delle Sacre Scritture, poi – ma non senza esitazioni – finì per aderirvi.

Che fin da quegli anni Ochino fosse tormentato da gravi dubbi è un fatto certo; più si addentrava nelle questioni sollevate da Lutero, più veniva sopraffatto da incertezze che lo facevano cadere nella più cupa disperazione. Ma ebbe l’accortezza di essere cauto nel manifestare apertamente i dubbi che laceravano il suo animo: da uomo accorto quale dimostrò sempre di essere, Ochino sapeva bene che se avesse reso pubblici i suoi tormenti interiori sarebbe stato condannato a morte con l’accusa di eresia e la sua missione non sarebbe stata portata a termine. Continuò dunque la sua attività di predicatore, spostandosi con entusiasmo da una città all’altra dell’Italia, sempre accolto da una gran folla di fedeli ascoltatori. Bologna, Roma, Lucca, Napoli: preceduto dalla sua fama di ottimo predicatore, animato da un forte spirito di devozione, le città si contendevano aspramente quel fraticello capace di far piangere le pietre.

1534-1539

Durante uno dei suoi spostamenti, a Napoli, Ochino ebbe un incontro che avrebbe avuto un ruolo decisivo nel suo percorso spirituale, quello con Juan de Valdés, uomo nel quale trovò un fratello e un amico con cui poter parlare a cuore aperto delle questioni che attanagliavano i suoi pensieri. Valdés, pur essendosi formato sull’insegnamento di Erasmo da Rotterdam, col tempo si emancipò da lui, scartando temi cari ad Erasmo quale poteva essere il dibattito sul libero arbitrio e prediligendo, invece, temi e questioni che Erasmo aveva lasciato in ombra, quale ad esempio la giustificazione per mezzo del sangue di Cristo.

Nella teologia cristiana la questione riguardante la giustificazione ha origini molto antiche e, nella storia del cristianesimo, ha subito interpretazioni diverse: in generale essa parte dal presupposto biblico che la creatura umana non sia, nella sua attuale condizione, sufficientemente in linea rispetto ai criteri di giustizia stabiliti e rivelati da Dio stesso, perché essa è originariamente e costituzionalmente caratterizzata dal peccato. Dunque, se l’uomo, così come si presenta, non è accettabile agli occhi di Dio, si pone il problema di come egli possa tornare a diventare giusto di fronte al Padre  e di come possa essere riabilitato.

«Senza dubbio, il Valdés, non potendo e non volendo rimandare a Lutero, si contenta di citare Agostino nel sostenere che le opere buone sono il frutto e non la causa della giustificazione; ma ciò non toglie che il suo atteggiamento si faccia via via tanto più luteraneggiante» (B. Nicolini, Bernardino Ochino e la riforma in Italia, cit., p. 33): l’uomo, attraverso la conoscenza della Legge, deve riconoscersi peccatore miserabile e, nonostante ciò, sforzarsi di tendere alla perfezione. Un simile riconoscimento implica uno slancio di fede non indifferente che, se unito alla giusta dose di mortificazione, dovrebbe dar luogo ad una speranza infinita. Solo a partire da questo atteggiamento è possibile immettersi sulla strada impervia della salvezza.

Entrato in contatto con Valdés, si dice che fosse proprio lui a fornire spesso ad Ochino i temi da trattare nel corso delle sue predicazioni pubbliche: ovviamente «tema favorito della sua predicazione divenne quello, tanto caro al Valdés, della giustificazione per la fede. Senza dubbio, nel discorrerne, egli lasciava inespresse, per cautela, le conseguenze estreme di quella dottrina; ma poiché le faceva pur sottintendere a chi avesse orecchie e intelletto da ciò, i Teatini, introdotti qualche anno prima a Napoli per opera di Maria Long, lo accusarono senz’altro di eresia» (ivi, p. 43).

Nonostante le prime accuse di eresia non tardarono ad arrivare, ciò piuttosto che andare a minare alla sua immagine, contribuì a rafforzarla e a dare al frate maggiore visibilità perché al fascino delle sue parole, si aggiungeva ora il fascino del proibito e dell’illecito.

L’influenza che Valdés ebbe sia su Ochino che su diverse città italiane fu tale da rendere necessaria una breve parentesi sul valdesianesimo della seconda metà del ’500.

Secondo i recenti studi condotti da Luca Addante in Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, tra i personaggi più in vista del movimento valdese bisogna ricordare, oltre a Valdés, anche Juan de Villafranca, Pietro Martire Vermigli, Giovanni Laureto, Giulio Basalù, Tizzano e lo stesso Bernardino Ochino. Un elenco dettagliato di nomi che gravitarono intorno al valdesianesimo è quello che Basalù fornì nel corso di una denuncia, denuncia nella quale divise gli adepti in due gruppi: un primo livello era quello costituito da coloro che accettavano solo la giustificazione per fede, un secondo livello da quelli che ne accettavano di volta in volta le più estreme conseguenze. «Di consequentia in consequentia»: era questo il metodo a cui i valdesi si rifacevano per convertire gli adepti. Si partiva da premesse generali capaci di generare forti dubbi e, attraverso una serie di domande pungenti e provocatorie, era lo stesso adepto a trarre da sé le sue conclusioni.

«Il metodo di Villafranca, al pari di quello di Valdés, era un metodo socratico, non rivolto ad imporre le proprie idee agli adepti ma a spingerli a ragionare individualmente, portandoli alle più estreme conseguenze attraverso lo stimolo maieutico» (L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 46). In questo percorso lento e impervio un ruolo importante fu svolto anche da Ochino e Vermigli: essi, infatti, seppur in maniera dissimulata, con le loro predicazioni riuscivano a raggiungere il grande pubblico e a raccogliere, così, nuovi adepti. «Per usare ancora la bella immagine di Valdés, Ochino e Vermigli stavano alle porte del “palazzo del vivere cristiano”, preparando l’accoglienza a chi volesse addentrarvisi con una scelta compiuta in assoluta libertà. Toccava poi ad altri, come Villafranca, il compito di accogliere i visitatori che si erano affacciati sulla soglia, conducendoli, ove volessero, fin nelle più segrete stanze» (ivi, pp. 42-43).

Malgrado la risonanza che in molti ambienti italiani esercitò il misticismo di stampo erasmiano-valdesiano, di fatto in Italia non si riuscì mai a generare una reale coscienza riformatrice. Contrariamente alle aspettative, l’Italia irreligiosa e corrotta della Rinascenza si trasformò nell’Italia rigorosamente cattolica della Controriforma. Benedetto Nicolini, nel chiedersi «come mai l’opera di Juan de Valdés, dei Pietro Martire Vermigli, dei Marcantonio Flaminio, dei Bernardino Ochino e di altri loro amici e compagni di fede diè luogo a un fallimento così compiuto» (B. Nicolini, Bernardino Ochino e la riforma in Italia, cit., p. 36), propone due spiegazioni, a nostro avviso condivisibili: la prima è che l’ammirazione del pubblico nei confronti di personaggi quali Valdés e Ochino non avesse motivazioni religiose ma estetiche; nella predicazione di un Ochino, per esempio, piuttosto che il suo animo riformatore si ammiravano le sue doti dialettiche. La seconda motivazione è che nei riformatori italiani il vivace spirito mistico non era accompagnato da altrettanto eccellenti doti organizzative in grado di far convogliare i singoli adepti all’interno di veri e propri movimenti religiosi; più spesso capitava che i riformatori, forse anche a causa del forte potere che la Chiesa cattolica riusciva ad esercitare nella penisola italiana, si scoraggiassero e si convincessero che la loro missione poteva essere continuata più facilmente in altre città (come Ginevra e Basilea) nella convinzione, talvolta infondata, che in questi posti la predicazione avrebbe dato esiti migliori.

1540-1542

La predicazione di Ochino continuò per alcuni anni sempre godendo di largo successo. Nel 1540 fu ospite nuovamente a Napoli, poi a Palermo, a Siena, a Modena, a Bologna e così via: tale era la richiesta da parte delle diverse città di avere quel predicatore che in alcuni casi fu reso necessario l’intervento del Papa affinché risolvesse la disputa tra i conventi che se lo contendevano. Successe, tuttavia, che durante una delle sue prediche, Ochino si sbilanciò manifestando pubblicamente il suo disappunto circa l’arresto a causa di motivi religiosi dell’amico Giulio Terenziano. A questa pubblica dichiarazione di dissenso capitò che fosse presente anche il nunzio pontificio Fabio Mignanelli che, pertanto, lo fece sospendere dalla predicazione.

Non potendo più ricorrere alla parola parlata, Ochino continuò a far sentire la sua voce ricorrendo alla parola scritta.  Per quanta cautela egli ponesse nelle sue predicazioni, infatti, i suoi avversari erano troppo avveduti perché non finissero, prima o dopo, con l’accorgersi che ci si trovava in clima di eresia. D’altra parte, mettendo le sue idee per iscritto, Ochino non solo perse presa sulla gente ma al tempo stesso rese più semplice il compito di chi ricercava le prove della sua presunta eterodossia religiosa.

Come era facile aspettarsi, l’incidente col nunzio Mignanelli richiamò l’attenzione di Roma sull’attività di predicatore e scrittore svolta da Ochino, in modo tutt’altro che positivo. E infatti, correva il 15 luglio del 1542, quando, trovandosi Ochino a Verona, ricevette una lettera dal cardinal Farnese nella quale, in nome del Papa, veniva pregato di recarsi nella città di Pietro per discutere di alcune questioni non meglio precisate. In un primo momento, anche dietro il parere dell’amico cattolico Giberti, l’idea che venne fuori dalla lettura della lettera fu che questa non dovesse destare preoccupazione: Ochino, in cuor suo, aveva dei forti sospetti circa la neutralità di quell’invito ma l’amico, con spirito fiducioso e sincero, lo rassicurò scrivendo lui stesso a Roma per ottenere una proroga. A distanza di poco tempo, non solo la proroga non venne concessa ma arrivò un’altra missiva papale, dai toni vagamente minacciosi, con la quale si sollecitava il frate a partire in fretta. Anche questa volta Giberti lo esortò alla partenza e a non aver timore: solo attraverso un confronto con la Santa sede si sarebbero potuti mettere a tacere gli avversari di Ochino.

Animato da buoni propositi, il 15 agosto del 1542 il frate si mise in viaggio ma man mano che procedeva il suo cammino le parole rassicuratrici dell’amico si affievolivano e perdevano progressivamente forza. Sebbene in preda a forti timori, Ochino proseguì il suo viaggio sostando prima a Bologna dall’amico morente Paolo Contarini e successivamente a Firenze dove incontrò l’amico Vermigli che, appresa la notizia, lo esortò ad abbandonare l’idea di recarsi a Roma perché al cospetto delle autorità inquisitoriali si sarebbe trovato a dover scegliere tra la morte e la negazione di Cristo. Inoltre, suggeriva Vermigli, se anche le intenzioni della curia non fossero state così drastiche, di sicuro, dato il clima di rigida censura, gli sarebbe stata negata la facoltà di continuare la sua attività di predicatore e scrittore e sarebbe stato ridotto al silenzio, privato comunque della possibilità di portare a termine la sua missione.

Questi argomenti valsero a far sparire le ultime remore che Ochino ancora conservava circa il prosieguo del viaggio. Guidato e supportato dalle parole dell’amico Vermigli, incurante delle calunnie che ben presto avrebbero cominciato a girare sul suo conto, egli si diede allora alla fuga. La sua partenza, tuttavia, non costituì un episodio isolato, sappiamo infatti che  «intorno al 1540 le condizioni dei riformati italiani si fecero più difficili in quasi tutti gli stati della penisola: perfino a Venezia, dove avevano goduto una relativa libertà, essi subirono gravi persecuzioni nel 1542, l’anno che vide in altre parti d’Italia le fughe clamorose dell’Ochino e del Vermigli» (D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze, Le lettere, 1970, p. 13).

Il 22 agosto, trovandosi ancora a Firenze, il frate scrisse una drammatica lettera a Vittoria Colonna in cui ufficializzava la sua decisione di intraprendere la strada dell’esilio*. Nell’organizzare la sua fuga è probabile abbia avuto il supporto di alcuni esponenti spirituali, che avevano interesse che Ochino non venisse processato, timorosi di un loro eventuale coinvolgimento giudiziario qualora il processo avesse avuto un esito negativo. Si suppone, poi, sia stato ospite a casa della duchessa Caterina Cybo e che si sia diretto verso Mantova, ove incontrò in abiti secolari il cardinale Ercole Gonzaga e Ascanio Colonna che gli avrebbe fornito un cavallo e un servitore per agevolare il suo viaggio.

«La Svizzera si offriva come la terra più vicina e ospitale: la molteplicità delle confessioni e delle frontiere religiose vi lasciava sperare una maggiore libertà; la lingua parlata nei Grigioni rendeva possibile ai ministri italiani continuarvi la loro predicazione, mentre le accademie e in genere la fiorente vita culturale offrivano occupazione a molti intellettuali» (D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), cit., p. 13).

Durante il periodo di esilio Ochino intrattenne una corposa corrispondenza epistolare scrivendo una serie di lettere dal fine apologetico e propagandistico alla Balia di Siena, al benedettino Marco Croppelli, ai cardinali Farnese e Carafa, al papa Paolo III, a Girolamo Amadei da Lucca, al Senato veneziano, al suo concittadino Claudio Tolomei: di quelle pervenuteci, «salvo pochissime, le sue eran tutte lettere di grande impegno e, talvolta, veri trattatelli sulla giustificazione per la fede e sulla fuga in persecuzione. Respingeva in esse accuse infamanti, rigettava proposte allettanti di una nuova sistemazione in patria, incitava città, uomini in carica, amici e persino contraddittori ad accogliere e diffondere le sue credenze» (B. Nicolini, Aspetti della vita religiosa politica e letteraria del Cinquecento, cit., p. 38).

Inoltre, negli anni successivi, fu protagonista di un’aspra polemica con i domenicani Girolamo Papino e Ambrogio Catarino Politi, col canonico regolare Raffaele da Como, col cistercense Basilio Lapi e con il laico Girolamo Muzio. In quel periodo, poi, altrettanto viva fu la sua attività editoriale: trascorrendo la maggior parte della giornata nella sua umile stanza, Ochino scriveva pagine su pagine che i tipografi ginevrini stampavano in piccoli volumi destinati a circolare soprattutto in Italia. Nell’ottobre del 1542 uscirono un libello antipapale dal titolo provocatorio Imagine de Antechristo, che avrebbe circolato in tutta l’Europa, e la prima raccolta di 20 Prediche, entrambi pubblicati a Ginevra presso la tipografia di Gérard: si tratta di opere nelle quali una base di chiara impronta calvinista conviveva con aspetti relativi alla spiritualità valdesiana fondendosi con influenze millenaristiche di derivazione gioachimita.

Seguirono varie edizioni dei Sermones, l’Expositione sopra la epistola di san Paulo alli Romani pubblicati nel 1545 sempre a Ginevra. Tutte le opere, tuttavia, vennero inserite, a partire dal 1549, nell’Indice dei libri proibiti curato da Giovanni Della Casa per conto della Repubblica di Venezia e la condanna fu ribadita negli Indici romani promulgati a partire dal 1558.

1542-1545

Giunto a Ginevra, Calvino ebbe subito modo di conoscere Ochino: inizialmente accolto con sospetto e diffidenza, l’esule italiano fu ben presto accettato di buon grado dal riformatore ginevrino che seppe scorgere in lui quell’acume d’ingegno e quel fervore mistico di cui tanto aveva sentito parlare. L’atmosfera liberale e tollerante che regnava nella città di Ginevra incoraggiò Ochino a parlare nel corso dei suoi sermoni del “Cristo nudo” e non più del “Cristo mascherato” come, invece, avveniva in Italia dove, per non incorrere in problemi con la Chiesa, doveva sottoporsi all’autocensura. Acclamato anche lì da grandi folle di avidi ascoltatori, egli non perdeva occasione per esaltare la città che lo ospitava, contrapponendola alla città di Roma identificata come il regno dell’Anticristo. Aveva infatti ottenuto dal Consiglio della città la licenza di predicare ogni qual volta ne avesse sentito l’esigenza, licenza che la città di Ginevra concedeva non senza riserve (soprattutto agli esuli italiani verso i quali non sempre si aveva un atteggiamento di benevolenza).

Gli eventi successivi di cui siamo a conoscenza non furono molti: nel gennaio del 1543 fece la sua professione di fede; nel mese di febbraio gli fu concesso un alloggio più consono alle sue necessità e, poco tempo dopo, Ochino sposò una donna di Lucca dalla quale ebbe quattro figli (tre dei quali sarebbero morti a causa della peste durante l’ennesima fuga), sancendo così, in maniera definitiva, il suo distacco dalla Chiesa di Roma. Ad eccezione della sua intensa attività letteraria negli anni che vanno dal 1542 al 1545, allo stato attuale delle ricerche del soggiorno ginevrino di Bernardino Ochino non si hanno altre informazioni. Unico dato certo è che nell’aprile del ’45, Ochino lasciava improvvisamente Ginevra.

Sui motivi che lo spinsero a rimettersi in viaggio sono state avanzate ipotesi diverse: secondo alcuni ci sarebbero stati degli screzi con Calvino (ma questa tesi si rende difficile da sostenere visto che i due non mancarono di scambiarsi elogi reciproci nelle opere che scrissero negli anni a venire), secondo altri Ochino lasciò Ginevra per ottenere maggior fama e ricchezza: anche questa ipotesi, tuttavia, può essere scartata perché, diretto a Basilea, Ochino non poteva prevedere che avrebbe ricevuto della laute ricompense solo a distanza di anni, una volta giunto nella città di Augusta.

Una terza ipotesi sulla repentina partenza di Ochino è stata avanzata, poi, da Benedetto Nicolini il quale ritiene che i motivi che indussero Ochino a lasciare Ginevra fossero di ben altra natura. Per seguire l’autore nel suo ragionamento è opportuno fare un passo indietro e operare una sintetica ricostruzione della vicenda storico-spirituale di Ochino per metterne in evidenza i punti cruciali. Sappiamo che il frate ebbe sempre l’ambizione di creare una roccaforte che fosse centro di propaganda delle sue idee religiose e fosse modello per tutti quei cristiani che volevano immettersi sulla via della salvezza: tentò di fare ciò entrando nell’Ordine dei Minori Osservanti prima e in quello dei Cappuccini dopo ma senza mai riuscire ad ottenere i risultati sperati. Persino la vicenda del poverello d’Assisi, che pur gli era sembrato un modello esemplare di vita religiosa, ad un certo punto fece sopraggiungere in lui dei dubbi che lo portarono a sostenere che egli fosse sì un uomo buono che aveva consacrato la sua vita alla pietà, rifuggendo dalla mondanità, dallo sfarzo e dal lusso, ma che tuttavia non possedeva quella santità che pur gli si attribuiva; insomma «la favola delle stigmate non lo commoveva» (ivi, p. 42). Pur non essendo convinto che indossare il saio fosse la via per accedere al Paradiso, si convinse che fosse più opportuno continuare ad indossarlo per poter portare avanti la sua missione: togliere il saio avrebbe mandato un messaggio negativo all’esterno e non gli avrebbe concesso di portare a termine indisturbato ciò in cui credeva. Riuscì così a guadagnare folle di proseliti attraverso la forza e il carisma delle sue parole anche se, come si è detto, i suoi sogni vennero stroncati dalla missiva papale con la quale veniva chiamato a Roma. Intimorito per la sua sorte, decise allora di spostarsi a Ginevra nella speranza di trovare un posto più liberale di quello che lasciava in Italia e vi trovò un ambiente persino migliore di quello in cui aveva sperato: «a Ginevra trovava non una comunità, ma una intera città organizzata secondo i suoi ideali» (ibidem). Tanta fu l’ammirazione verso questa città che Ochino la definì un ritratto della vita eterna.

Nonostante incarnasse tutti gli ideali in cui credeva e che ambiva a realizzare, l’esule italiano non arrivò mai ad amarla: Ginevra rappresentava la creatura di Calvino, era lui che l’aveva realizzata, era il frutto del suo lavoro e della sua predicazione, non ci sarebbe mai stato un reale senso di appartenenza a quella terra.

Le attenzioni di Ochino rimasero sempre rivolte all’Italia, alla sua di terra. La scelta di andar via dal suo paese fu una scelta forzata, dovuta alle circostanze sfavorevoli: non potendo combattere la sua battaglia in loco, decise di farlo dall’esterno utilizzando come arma la parola scritta; si servì dunque della propaganda letteraria per far arrivare il suo messaggio nella penisola. Per raggiungere questo scopo Ginevra rappresentava la sede perfetta; qui la libertà di pensiero, il clima di tolleranza, la facilità di pubblicazione, rendevano possibili e semplici gli scambi con l’Italia. Col passare del tempo, tuttavia, Ochino si accorse che la sua battaglia a colpi d’inchiostro stava andando affievolendosi, «la stessa polemica con gli avversari aveva perduto di mordente. Finché quella guerra di inchiostro era stata viva, si era sentito legato a Ginevra, ma, ora, che essa s’era attenuata, egli si sentiva sul Lemano un estraneo» (ivi, p. 46). A quel punto, pur avendo appreso molto da Calvino, cominciò a volgere lo sguardo verso altre terre, con un pensiero rivolto sempre ai suoi concittadini ma, stavolta, a quei tanti concittadini che, come lui, erano esuli per l’Europa. A parere di Nicolini, mutato il fine, Ginevra, che pure aveva rappresentato un utile mezzo, non serviva più: da qui il motivo per cui nell’aprile del 1545 Ochino la abbandonava per stabilirsi prima a Basilea e poi ad Augusta.

1545-1555

Mentre poche sono le informazioni riguardanti il periodo a Basilea, ad Augusta sappiamo che gli fu affidato l’incarico di ministro della comunità italiana per il quale ricevette una lauta ricompensa. Nel 1546 pubblicò, senza insegna editoriale, l’Espositione sopra la epistola di san Paolo alli Galati e la Risposta alle false calumnie et impie biastemmie di frate Ambrosio Catharino.

Nel caotico scenario degli scontri tra i principi luterani riunitisi nella Lega di Smalcalda e il cattolico Carlo V, Ochino si vide costretto nuovamente alla fuga. In un primo momento provò a riparare a  Strasburgo dove incontrò nuovamente Vermigli, vecchio compagno di sventura, ma anche in questo caso le circostanze non furono ad essi favorevoli: rifiutandosi di riconoscere l’interim che l’imperatore aveva proclamato, che concedeva il ritorno dei protestanti ad una forma religiosa intermedia, con l’ammissione del matrimonio degli ecclesiastici, in attesa di nuove disposizioni da parte del concilio di Trento, i due predicatori dovettero abbandonare la città. Se, infatti, parte dei protestanti si adeguò all’interim, molti altri tra cui alcuni teologi come Andreas Musculus, si opposero apertamente e furono costretti a lasciare la città. Le parole di Lutero avevano ormai raggiunto un’espansione tale che la sola forza fisica o l’intervento militare non sarebbero più stati in grado di contrastare.

Nel frattempo l’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer, che da lì a poco sarebbe stato arso vivo con l’accusa di eresia per essere poi proclamato Santo dalla neonata Chiesa anglicana, invitò Ochino e Vermigli a trasferirsi in Inghilterra. Qui l’ex cappuccino riprese a predicare e anche la sua situazione economica ne trasse dei vantaggi: ricevette infatti un beneficio ecclesiastico, la prebenda, che gli consentiva di avere un corposo stipendio versatogli direttamente dal re.

Anche grazie a questa stabile situazione economica, nel 1549 in Inghilterra poté pubblicare presso l’editore Lynne un’opera dal titolo A Tragoedie or dialogue of the uniuste usurped primacie of the Bishop of Rome stabilendo dei rapporti ancora più saldi con la corte.

Ma la situazione di stabilità era destinata a non aver seguito; siamo nel 1533 quando, per sfuggire alle persecuzioni della cattolica Mary Tudor, Ochino è costretto di nuovo a scappare e a rientrare in Svizzera. Giunse a Ginevra nel mese di ottobre nei giorni in cui veniva condannato a morte sul rogo l’umanista, medico e teologo Michele Serveto le cui posizioni sul concetto di Trinità erano state considerate eretiche proprio dalla figura inizialmente tollerante di Calvino.

«Il supplizio di Michele Serveto venne a suscitare nell’ambiente degli esuli un vivo moto di protesta contro l’autorità esercitata da Calvino. […] Si discuteva se è lecito punire con la morte gli eretici: anzi si faceva strada la tesi che non possono colpirsi con pene di nessun genere gli assertori di dottrine giudicate erronee perché la fede è libera e personale» (D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), cit., p. 14). Quest’episodio finì per creare un attrito sempre più forte tra Calvino e gli esuli italiani che non fecero mancare di far sentire la loro voce di protesta, protesta alla quale si unì lo stesso Ochino e per la quale fu costretto a lasciare nuovamente la città. Quest’episodio è emblematico: inizia, infatti, in questi anni a delinearsi una situazione ambigua per gli eretici religiosi perché il loro individualismo e la particolarità delle loro posizioni finisce con il renderli ostili non solo alla Chiesa cattolica ma anche a quei gruppi di riformati che tanto avevano lottato per avere quella tolleranza e quella libertà religiosa che, una volta costituitisi come chiese, non erano più disposti a concedere a chi non fosse perfettamente in linea con il loro credo. Consolidatesi in forma istituzionalizzata, la tendenza delle chiese riformatrici fu quella di scadere nello stesso errore che avevano recriminato alla Chiesa cattolica. Succede allora «in questa duplice opposizione contro l’ortodossia cattolica e riformata, [che gli eretici] acquistano una salda coscienza della propria affinità, dando vita a gruppi chiaramente individuati, i cui membri, anche in nome della comune origine nazionale e della condizione umana di stranieri mal tollerati, costituiscono una rete estesa in molte parti d’Europa; i più influenti, inseriti nella società locale grazie ai loro beni e alla loro attività, forniscono aiuto ai meno fortunati» (ivi, pp. 5-6).

Fu proprio questa la situazione nella quale si venne a trovare Ochino che, costretto a far ritorno a Basilea (dove nel 1554 diede alle stampe gli Apologi, una raccolta di un centinaio di aneddoti satirici contro il papato, i cardinali, il clero e i frati che sarebbe stata ampliata nell’edizione successiva) nel giugno del 1555 venne raggiunto da una delegazione guidata dal senese Lelio Sozzini che gli propose di trasferirsi a Zurigo e diventare il pastore della comunità di rifugiati italiani di Locarno.

Sozzini, al pari di Ochino, in un primo momento era stato accolto di buon grado nella Ginevra di Calvino, successivamente, però, gli equilibri tra i due avevano iniziato a vacillare: quando il teologo senese mise in luce le sue posizioni sulla resurrezione della carne, sulla predestinazione, sulle ragioni della salvezza e sui sacramenti, il loro rapporto aveva cominciato a incrinarsi. A sancire la fine della reciproca fiducia tra Sozzini e Calvino era stata la tragica fine di Michele Serveto che aveva costituito un nuovo spunto di riflessione per il teologo di Siena attirando la sua attenzione sul tema della Trinità che, da quel momento, divenne costante oggetto d’indagine.

Fu proprio a partire da Lelio e Fausto Sozzini che si può parlare di socinianésimo: i due infatti diedero vita ad una vera e propria dottrina teologico-morale i cui elementi centrali saranno il razionalismo religioso, ovvero l’idea in base alla quale nella Sacra Scrittura non ci può essere nulla che vada contro la ragione, il rifiuto di tutti quei dogmi tradizionali considerati infondati e irrazionali quando non basati sulla Scrittura e il principio della tolleranza religiosa.

Questi temi sono fondati sulla concezione della religione cristiana come via puramente etica per raggiungere la salvezza, rivelataci con i suoi precetti dall’uomo divino, ma comunque uomo, Gesù Cristo. Insistere sulla natura umana di Gesù significa per gli antitrinitari avvicinarlo al cuore dei fedeli, che non vedranno nel suo sacrificio un riscatto avvenuto senza la loro partecipazione, ma dal suo gesto prenderanno ispirazione ed esempio per un sentito e reale rinnovamento della vita religiosa. «Negli antitrinitari, dunque, la critica alla concezione tradizionale dei sacramenti  e della persona di Cristo ha valore soprattutto in quanto elimina gli ostacoli che impediscono il rinnovamento della vita religiosa» (ivi, p. 7).

Sostenere che Gesù fece quel percorso in quanto figlio di Dio, dotato di una natura divina, significa allontanarlo dalla gente comune, porlo su un piedistallo che, essendo irraggiungibile, diventa motivo di inattività. Negare, invece, quell’aspetto divino, al contrario, lungi dallo sminuire la sua grandezza, significa accorciare le distanze tra la sua vita e la vita degli uomini normali, significa prendere coscienza del fatto che lo scarto tra le persone comuni e Gesù non è insuperabile, che imitarlo è realmente ed effettivamente possibile.

Le conseguenze che provocano i movimenti ereticali che abbracciano questa posizione hanno dei risvolti anche a livello etico-sociale perché insistono sulla fattibilità dell’imitazione del modello di vita di Gesù e sull’importanza delle opere.

1555-1564

Per tornare ad Ochino dopo questa lunga parentesi, a Zurigo egli rimase dal 1555 al 1563 vivendo una rinnovata stagione produttiva, probabilmente anche grazie al dialogo con le stimolanti personalità di Francesco Betti,  Pietro Martire VermigliLelio SozziniFrancesco Lismanini e Isabella Bresegna.

Nel 1556 pubblicò presso l’editore Gessner il Dialogo del Purgatorio e la Syncerae et verae doctrinae de Coena Domini expositio, in cui difese la tesi zwingliana in materia di eucaristia in contrasto con la dottrina luterana. Nel 1561 uscì la Disputa intorno alla presenza del Corpo di Giesù Christo nel Sacramento della Cena  in cui sosteneva una teoria che metteva in risalto sempre più l’aspetto soggettivo della vita religiosa e l’importanza di un diretto rapporto dell’uomo con la grazia divina, teoria che, chiaramente, agli occhi dei riformati ortodossi si traduceva nella svalutazione, oltre che del rito sacramentale, anche dell’importanza di Cristo nel processo di salvezza. A questo periodo risalgono poi le Prediche nomate Labirinti del libero o ver servo arbitrio (dedicate alla regina Elisabetta I d’Inghilterra e vertenti sul problema del libero arbitrio, in cui si opponeva alla dottrina calvinista della predestinazione) eil Catechismo o vero Institutione Christiana. Furono proprio queste opere, nelle quali emergeva in maniera sempre meno celata la posizione agnostica e tollerante di Ochino che ormai protendeva verso una forma di scetticismo religioso, ad essere considerate poco ortodosse dalle autorità di Zurigo che, appena ne ebbero l’occasione, decretarono l’espulsione dell’esule italiano dalla città.

L’occasione non tardò ad arrivare, anzi fu Ochino stesso a servirla ai suoi detrattori dando alla stampa, nel 1563, i Dialogi XXX senza aver precedentemente ottenuto l’autorizzazione da parte del Consiglio dei deputati di Zurigo. Ciò provocò l’immediato allontanamento di Ochino dalla città con l’accusa di sostenere posizioni poco conformi all’ortodossia religiosa in materia trinitaria e matrimoniale. E in realtà, nei Dialogi XXX, probabilmente anche per la sintonia stabilitasi fin dall’inizio con Lelio Sozzini a proposito di importanti questioni teologiche, Ochino approderà, seppur timidamente e implicitamente, ad una forma di antitrinitarismo sociniano dando rilievo sempre maggiore alla Seconda Persona della Trinità a scapito dello Spirito Santo.

Comprensibile risulterà il suo graduale rifiuto della Trinità se si tiene presente anche che «la sua costante aspirazione a essere predicatore popolare doveva pur farlo tendere verso una teologia, la quale, appunto perché non fondata più sul dogma della Trinità, riusciva più accessibile alle masse» (B. Nicolini, Bernardino Ochino e la riforma in Italia, cit., p. 11).

Il nucleo centrale dell’opera, tuttavia, era rappresentato dalla difesa della libertà di pensiero in campo religioso, libertà che si traduceva nell’assoluta inammissibilità della condanna morte per chiunque professasse idee sbagliate, anche qualora queste idee avessero riguardato i fondamenti della fede. A ciò si aggiungeva la riaffermazione del principio spiritualista, di chiara impronta valdesiana, del primato dell’ispirazione interiore sulle forme e le leggi della religione esteriore e faceva risaltare il rapporto soggettivo tra l’uomo e Dio a scapito di quello mediato dalla chiesa. Passando da una tendenza riformatrice all’altra e acquisendo, di volta in volta, elementi nuovi dalle varie religioni riformate e non, Ochino veniva formando una dottrina tutta sua, dottrina alla quale attingerà anche Leibniz e che rischiava la deriva del razionalismo.

Infatti ciò che Ochino non comprese e che invece «intravide il Calvino, ostilissimo contro l’antitrinitarismo sociniano, [è] cioè che questa nuova dottrina conduceva diritto alla distruzione del cristianesimo, anzi della religiosità: quel Calvino, di cui giustamente s’è fatto testé, col suo trinitarismo, un precursore dell’idealismo o triadismo hegeliano, a differenza dei Socino, i quali, come è noto, precorsero il razionalismo» (ibidem). I dettami del socinianesimo infatti erano un’applicazione dello spirito critico ai fatti religiosi, una svalutazione della dimensione dogmatica a sostegno di un ideale di cristianesimo razionale, pacifista e umanitario basato sull’etica.

In seguito alla morte della moglie nel 1562, Ochino cercò invano rifugio a Basilea, invano perché a distanza di solo un anno infatti veniva espulso anche da lì.

Nella primavera successiva si trasferì con i figli ancora bambini a Cracovia: l’ambiente qui era favorevole agli esuli italiani da oltre un decennio; già nel 1551 la regina Bona che fino ad allora poco si era occupata di affari religiosi, aveva mostrato una certa curiosità verso la Riforma e si era apprestata a leggere le opere di Bernardino Ochino lasciando intravedere la possibilità di creare un regno in cui pensatori un po’ sui generis potessero trovare rifugio. Le notizie sulla libertà polacca circolavano, dunque, nell’ambiente degli eretici che ritrovavano in Polonia una terra felice, dove poter vivere, pensare e scrivere indisturbati, «quanti erano scacciati per le loro nuove opinioni eretiche non solo dall’Italia, ma anche dalla Germania e dalla stessa Ginevra, trovavano un ultimo rifugio in quel regno» (D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), cit., p. 20).

È chiaro che quella sempre crescente concentrazione di idee non ortodosse in terra polacca avrebbero finito ben presto per destare preoccupazioni nell’ambiente cattolico. Non a caso, su pressione del nunzio Giovanni Francesco Commendone, il re Sigismondo Augusto emanò l’editto di Parczòw che espelleva tutti gli stranieri non cattolici da Cracovia ma mirava, più nello specifico, agli esuli italiani, fra i quali lo stesso Ochino che fu, per questo, costretto a spostarsi prima a Pinczòw, non lontano dalla capitale e poi sui Carpazi. Trovandosi ormai in età avanzata ed estenuato da quasi trent’anni di vagabondaggio, Ochino «ardiva paragonare le proprie sofferenze a quelle degli apostoli; è vero che non gli era concesso far miracoli, aveva detto, ma era pur un miracolo che sopportasse tanta pena per la sua fede» (ivi, p. 26).

1565

Le sue peregrinazioni erano tuttavia destinate a finire: nel febbraio del 1565, nel sollievo generale delle istituzioni cattoliche e del nunzio Commendone, Ochino si sarebbe spento nei pressi di Austerliz.

Note

*: Notizie più dettagliate sulla lettera a Vittoria Colonna, ci vengono fornite da  Benedetto Nicolini in  Aspetti della vita religiosa politica e letteraria del Cinquencento: «La lettera, diretta a Vittoria Colonna, suscitò vivo interesse in tutta Italia. Diffusa manoscritta in un testo che l’esule affermava adulterato ed il Muzio genuino, fu pubblicata primamente da esso Muzio ne Le mentite ochiniane (Venezia, 1551, ff. 8-9). Venne riedita poi, su una copia manoscritta della Biblioteca comunale di Siena, recante varianti ed un piccolo brano in più, dal Cantù (Gli eretici d’Italia, II, Torino, 1865, pp. 45-46, e Illustri italiani, II, Milano, 1873, pp. 271-272) e, più correttamente, dal Benrath (Bernardino Ochino von Siena, Ein Beitrag zur Geschichte der Reformation, I ed., Leipzig, 1875, pp. 347-348). Infine essa rivide la luce sul testo nunziano a cura degli editori del Carteggio di Vittoria Colonna (Torino, 1892, pp. 247-249). Di essa trovo in due spezzoni di un codice miscellaneo, che serbo nella mia biblioteca, due altre copie, esemplate, ma con varianti ed errori, su quella della Comunale di Siena» (B. Nicolini, Aspetti della vita religiosa politica e letteraria del Cinquecento, Bologna, Tamari, 1963, p. 87).

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