di Luca Parisoli

1.

La vita di Gioacchino si dipana in un arco temporale che va dalla sua nascita intorno al 1135, dal padre notaio Mauro e dalla madre Gemma, sino al giorno della sua morte, il 30 marzo 1202, e in un arco spaziale che va da Celico, dove nacque, alle mura della comunità monastica che diresse sino alla morte, a San Giovanni in Fiore, che si sviluppava in tanti altri luoghi associati, come quello di San Martino di Canale, nei pressi di Pietrafitta, dove lo colse la morte. Lo spazio vitale di questo celebre personaggio di Calabria sembra essere solo apparentemente assai limitato geograficamente – alla sola provincia attuale di Cosenza, e non mancarono da parte sua numerosi viaggi nel Meridione e nel resto d’Italia, dagli studi giovanili che lo conducono alla corte di Napoli e Palermo sino ai soggiorni nell’abbazia di Casamari, con la chiave di svolta che si colloca in quello in Terrasanta, legato nella ricostruzione simbolica della sua parabola terrena alla sua rinascita spirituale ed intellettuale; eppure, la sua eredità intellettuale e spirituale ebbe un impatto geo-culturale enorme, estendendosi a tutto il mondo latino sino alle nazioni dell’Europa moderna, a partire da un territorio che nel XII secolo era ancora una cerniera, a dispetto di altri territori dell’Occidente latino, tra il cristianesimo latino e quello greco-orientale. Il notaio – ed il notabile – mancato che fu Gioacchino, che pure conservò sempre la capacità di trattare con la classe dirigente della sua epoca, covò nella vita eremitica i germi di un nuovo modo di guardare alla Tradizione della Chiesa cattolica ed alle pratiche interpretative che la costituiscono, ne fece oggetto di amorevole cura nella vita monastica, e li affidò alle generazioni future, essendo capace di lanciare un messaggio durevole nei secoli anche se non si indirizzò mai alla nuova società emergente nella sua epoca, quella urbana e mercantile. Il suo mondo era quello della vita povera del mondo feudale, rispetto alla quale in prima persona aveva rinunciato ai privilegi della condizione sociale e si era prodigato per mostrare come la riflessione mistica più entusiastica potesse associarsi all’interesse verso le sorti quotidiane della comunità umana. Ma il suo mondo era anche quello di una particolare comunità ideale che fece scrivere a Dante nel Paradiso (XII, 140) «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato», un profeta con la convinzione che l’Anticristo fosse già nato mentre Gioacchino stesso redigeva le sue profezie.

Gioacchino da Fiore non è certo una figura minore nella storia della cultura occidentale e l’attività di ricerca sul suo pensiero e sul suo impatto culturale, un tempo più frammentata, negli ultimi decenni si è coordinata, acquistando spessore e visibilità grazie a numerosi studiosi. La complessa spiritualità che emana dagli scritti di questo monaco del XII secolo si concretizza in strategie di interpretazione del testo sacro biblico che lo impongono non come uno dei tanti interpreti della Bibbia, bensì come il capostipite di una genealogia che coniuga in maniera strettissima una puntuale riflessione sugli ultimi giorni del mondo attuale – quella che si dice tecnicamente escatologia – e una riflessione appena adombrata sulle vicende attuali delle relazioni umane e sociali, sino alla loro evoluzione prossima ventura, ossia un dispiegamento nella sfera politica del discorso interpretativo del testo sacro. Gioacchino è presto divenuto icona di una delle tante anime del cristianesimo medievale, tanto da fare fiorire tutta una letteratura dovuta a suoi partigiani culturali – i gioachimiti – che attribuiscono direttamente al loro patrono la paternità dei loro testi: il pensiero del Gioacchino da Fiore storico si coniuga all’icona gioachimita che diventa il riferimento culturale forte attraverso gli ultimi secoli del Medioevo sino a tutta la Modernità, che non si preoccupa più delle strategie esegetiche del testo sacro, ma recepisce in molti suoi esponenti la lezione di una escatologia politica.

Monsignor Giuseppe Agostino, già arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano, pur sotto l’enfasi di una incipiente causa di beatificazione, parla di un radicamento di Gioacchino nella sua terra in questi termini: «ho sempre visto l’abate Gioacchino come calabrese verace: uomo capace di penetrazione del profondo dell’essere e della storia; direi un contemplativo, un forte rude, com’è tipico degli uomini della nostra terra, ma di una rudezza che è forte perché è dolce e che è operante perché si esprime nella potenza più incidente che ci sia e che è la povertà dello Spirito» (G. Agostino, Prefazione, in F. Troncarelli, Gioacchino da Fiore: la vita, il pensiero, le opere, Roma, Città Nuova, 2002, p. 6). Quasi nella stessa epoca la Calabria diede i natali a personaggi molto diversi, per esempio quel Simone da Bisignano di cui quasi nulla conosciamo della vita: sappiamo solo che insegnò diritto a Bologna negli anni ’70 del XII secolo, e che tra il 1177 ed il 1179 compose la sua Summa (S. Kuttner, Repertorium der Kanonistik (1140-1234). Prodromus corporis glossarum, 2 voll., Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1937, I, p. 149). Pietro Aimone, che ha curato l’edizione critica contemporanea della Summa, fa notare che fu uno dei pochi canonisti provenienti dall’Italia meridionale1. Di Simone però conosciamo un commento al diritto canonico – da poco fatto nascere da un altro personaggio oscuro, quel Graziano che redasse il notissimo Decretum – che rivela una sensibilità normativista, ossia una sensibilità verso lo scheletro di norme e regole che costituiscono il mondo, che pare agli antipodi dello spirito profetico di Gioacchino. Del resto, Gioacchino considerava il fatto di dedicarsi alla scienza delle norme in contrapposizione all’immagine della scienza di Pietro, e mentre quest’ultima abbandona il mondo per verità superiori la prima (1 Cor. 8, 29-31, e 9, 15), a suo parere, non può che permanere nel mondo (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, Parigi, A. Picard & fils, 1909, pp. 12-13); non è qui in gioco l’importanza della conoscenza del diritto umano o dell’attività degli operatori giuridici – e sappiamo che Gioacchino evitò la strada già segnata di seguire le orme del padre, operatore notarile –, quella che è in gioco è la concezione proposta dal diritto canonico dell’epoca di un mondo fatto ancora prima che vi siano degli uomini sulla Terra di norme e di regole. Quella che è in gioco è l’idea, piuttosto attribuibile a Gioacchino, che la migliore comprensione del mondo possa fare a meno di norme e di regole, secondo un uso linguistico ancora oggi diffuso per cui una lettura profetica non contiene riferimenti a norme e regole; quella che è in gioco è l’opposizione tra due conterranei che sviluppano due piste della comprensione umana del mondo affatto alternative.

Nella coppia geografica Bisignano-San Giovanni in Fiore sta forse la stessa complessità di tutta la cultura cattolica medievale, riflessa nel microcosmo calabro – anche se, come ha mostrato Pietro Dalena, Gioacchino fu tutt’altro che ‘stanziale’ su un microterritorio (P. Dalena, I viaggi e gli itinerari di Gioacchino da Fiore nel Mezzogiorno, in I luoghi di Gioacchino da Fiore, a cura di C.D. Fonseca, Roma, Viella, 2006, pp. 67-90, con un apparato di cartine esemplificative da p. 75 a p. 90) –, in oscillazione tra un normativismo rigoroso che va dalla teologia alla vita sociale e una pneumatologia escatologica in cui la parola dello Spirito Santo sembra essere il luogo dell’anomia, dell’assenza di regole e norme in favore della perfezione finalmente realizzata in ciascuna persona. Da un lato, il rigore canonistico della Sede apostolica: Manselli evoca più volte la risposta del ‘normativista’ Bonifacio VIII alla difesa degli Spirituali – il movimento dei francescani più riottosi di fronte alle direttive della Sede apostolica – da parte di Arnaldo da Villanova: «intromitte te de medicina et non de theologia et honorabimus te» – «occupati di medicina, lascia perdere la teologia, e ti rispetteremo», associata ad una visione sconsolata del millenarismo in occasione del Giubileo dell’anno 1300, “perché questi sciocchi attendono la fine del mondo?” (R. Manselli, La religiosità d’Arnaldo da Villanova, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 63, 1951, pp. 1-100, qui pp. 18-19 – evocato per esempio nella raccolta: R. Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo medievali, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1997, pp. 6-74). Dall’altro uno spirito profetico, refrattario alla precisione analitica del linguaggio delle norme, che inevitabilmente si ammanta della qualifica di luogo della perfezione, ultima per valore ma anche prossima per realizzabilità. L’immagine retorica del “calabrese verace” può soddisfare l’appagamento estetico, quella più asettica e prosaica – tuttavia analitica ed illuminante, senza nulla togliere all’aspetto devozionale che ruota intorno Gioacchino (E. Gabrieli, Una fiamma che brilla ancora. La fama sanctitatis dell’Abate Gioacchino, Marzi, Comet Editor Press, 2010) e di cui Simone è certo privo – del calabrese che può essere tanto partigiano della normatività quanto partigiano dell’assenza di normatività colloca la nostra analisi di una manifestazione geo-culturale al centro della stessa cultura occidentale latina del XII secolo.  Simone non conoscerà mai le forme di devozione che si costituirono verso Gioacchino, di cui abbiamo testimonianza affidabile proprio perché il potere ecclesiastico ritenne opportuno regolamentarne le forme, presumibilmente nella considerazione delle potenzialità devianti di quella che sarebbe divenuta (o potuta divenire) una idolatrizzazione della sua figura (L. Intrieri, Il Culto di Gioacchino da Fiore nelle testimonianze del 1680,«Rogerius», 11, 2008, 2, pp. 43-50, qui pp. 49-50). Ci fu certo una protesta etica nel suo discorso, e la scossa salutare che ne derivava avrà senz’altro dispiegato i suoi benefici nei secoli, ma i giudici deputati a difendere l’ordine pubblico non potevano che temerne le confusioni e le derive protestatarie2.

Vale la pena di riportare l’orazione nella liturgia delle ore che i monaci dell’Ordine da lui fondato, secondo una consuetudine invalsa nel monachesimo cristiano, gli dedicavano, che Gabrieli riporta in latino ed in italiano (E. Gabrieli, Una fiamma che brilla ancora, pp. 88-89), e che qui riproduco:

Antifona alle Lodi
Il beato Gioacchino primo Abate florense, umile ed amabile, fu ammirato per cose meravigliose.
V/ Il Signore lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza e Intelletto
R/ E lo ha rivestito di una stola di gloria.

Antifona ai Vespri
Il beato Gioacchino di Spirito profetico dotato, decorato di intelligenza, lontano dagli errori di eresia, predisse gli eventi futuri.
V/ Il Signore lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza e Intelletto.
R/ E lo ha rivestito di una stola di gloria.

Orazione
O Dio, che sul monte Tabor hai manifestato la tua gloria ai tre Apostoli, e nello stesso luogo hai rivelato al beato Gioacchino la verità della Scrittura, ti preghiamo, per i suoi meriti e la sua intercessione, fa che ascendiamo a Colui che è via, verità e vita. Per Cristo nostro Signore.

Non fu questa la sola forma di culto verso la santità di Gioacchino da Fiore (A. Acri, Casamari, in «La Provincia di Cosenza» – Gioacchino da Fiore “Il calavrese abate Giovacchino di Spirito Profetico dotato”, numero speciale, Cosenza, Stabilimento Tipografico De Rose, 2011, pp. 34-35; A.M. Adorisio, Recuperi florensi. Tradizioni dimenticate nelle relazioni di una visita di Giusto Biffolati, priore di Casamari, ai monasteri di San Giovanni in Fiore e di Santa Maria di Altilia nella Sila di Calabria, «Rivista Cistercense», 17, 2000, 283-303, spec. pp. 295-300); è attestata la devozione nei suoi confronti del vescovo di Cosenza, Luca Campano (A. Staglianò, L’abate calabrese. Fede cattolica nella trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino da Fiore, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 204), che tributa a Gioacchino il merito di averlo liberato dall’impaccio nel parlare (A.M. Adorisio, Luca di Casamari, Arcivescovo di Cosenza, testimone e biografo di Gioacchino da Fiore, in I luoghi di Gioacchino da Fiore, cit., pp. 91-106, p. 97). Ma la cultura cattolica registrò sempre la natura potenzialmente centrifuga del suo pensiero, divenuta meno scottante se non addirittura congelata nella temperie culturale che segue i lavori del Concilio Vaticano II. La stessa discussione sulla presunta ortodossia o meno delle analisi trinitarie gioachimite non deve fondarsi sulla condanna formale o meno che esse abbiano ricevuto, quanto piuttosto sul fatto che un pensatore che alla fine del XII secolo si discosti dall’approccio di Pietro Lombardo si pone rapidamente in contrasto con la più formidabile stagione di filosofia cristiana del Medioevo, la Scolastica, mossa dall’ambizione di mostrare la razionalità del deposito della fede cattolica. Gioacchino considerava questa ambizione un pericoloso orgoglio che si metteva fuori bersaglio cercando l’armonia tra fede e scienza, e leggeva Matteo 11,25 come diretto contro lo stesso spirito della Scolastica (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, cit., pp. 10-11). Nella vita contemplativa di Gioacchino, lo stato di perfezione ultima, sembra non esservi posto per la filosofia. Piuttosto che improvvisarmi in giudice dell’ortodossia o dell’eterodossia senza avere la competenza normativa a farlo (ovviamente, però, è proprio questo il lavoro di chi ne discute la causa di beatificazione), pur dando per scontata la competenza intellettuale a farlo di cui dispongono tantissimi studiosi, è più opportuno prendere atto che il fatto stesso delle accuse rivolte a Gioacchino, eliminate l’ipotesi di malafede ed avversione personale, mostra che il suo pensiero è passatista rispetto al fiume in piena che sfocerà da lì a poco in un modello di razionalità improntato al rigore analitico accuratamente distinto da ogni impresa esegetica del Testo Sacro (L. Parisoli, Livelli di comprensione antropologica del messaggio cristiano: la semantica gioachimita alla luce di René Girard, «Florensia», 18-19, 2004-2005, pp. 139-152). Non possiamo ignorare che il fatto che le dispute trinitarie non vertono su quello che un autore vuole affermare esplicitamente, bensì su quello che un autore dovrebbe ammettere se fosse conseguente con le sue affermazioni: tanto è certo che Gioacchino non ha mai affermato il triteismo, quanto è certo che dei filosofi cristiani scolastici e dall’approccio analitico potevano vedere nella sua esasperazione delle dinamiche delle tre persone una confusione latente tra persona divina ed essenza divina che così si moltiplica in tre unità. Già alcuni secoli prima Giovanni Scoto Eriugena aveva incontrato seri problemi nel ripetere in lingua latina il lessico dei Padri della Chiesa greci, incontrando la censura di un mondo intellettuale latino che non poteva fare a meno della specificità del vocabolo ‘persona’. Tanto è certo che Pietro Lombardo non ha mai negato la natura trina delle persone divine in favore di una quaternità, quanto è certo che il suo insistere sull’unità dell’essenza divina senza tematizzazione sottolineata dell’economia trinitaria personalista possa indurre teologi più inclini alla narrazione delle relazioni trinitarie piuttosto che al loro rendiconto analitico a vedervi una negazione del giusto valore da assegnare alla tre persone divine. Forse l’osservazione più pregnante è quello di Henry Mottu, che esorbita dal dominio dottrinale trinitario in senso stretto, ossia metafisico, per accedere al luogo della Trinità nell’economia generale del discorso cristiano, ossia nella storia sino alla fine dei tempi: «il rimprovero di ‘triteismo’ dissimulerebbe allora tutt’altra intenzione, quella cioè di squalificare in partenza ogni tentativo di ripensare il mistero trinitario in termini di piano, di disegno, di perseveranza, cioè in termini storici e non metafisici» (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, Casale Monferrato, Marietti, 1983, p. 107). Come osserva Pietro Coda nella sua Postfazione al volume di Mons. Staglianò, c’è un modo preciso per evitare questo scoglio, ossia interrogare Gioacchino alla luce di un assioma, ossia «dalla Trinità ‘alla storia’ e non viceversa» (P. Coda, Postfazione, in A. Staglianò, L’abate calabrese, cit., p. 192). Certamente i censori medievali avrebbero trasecolato se avessero avuto sotto gli occhi un passaggio dalla storia alla Trinità, ma temo che sarebbero stati convinti di non riconoscere nei testi gioachimiani un passaggio dalla Trinità alla storia sufficientemente caratterizzato per il loro standard, che era normativo e non già meramente speculativo, teologico o esegetico. Si tratta della paura di trovarsi sotto la spinta, mi pare lecito osservare, delle potenzialità degenerative inerenti alla retorica dell’escatologia gioachimita, come lo stesso Mottu riconosce: «gli Spirituali distorceranno, qui come altrove, il pensiero del Maestro. Ma questo dimostra quanto reale sia la potenza implicita di disintegrazione, inerente alla sua opera» (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 100). Il riferimento è a Gerardo da Borgo San Donnino, rappresentante dell’ala più radicale e deviante del movimento francescano degli Spirituali, quella che nell’aderire a Gioacchino più che alle sue dottrine genuine evoca una risorsa emotiva ed affettiva senza precauzioni linguistiche, lontano dall’anima degli Spirituali che si riconoscerà in Angelo Clareno sempre consapevole del bene supremo dell’obbedienza a Roma, ma un’ala radicale che si auto-rappresenta come gioachimita, secondo il risalente e sempre attuale giudizio di Antonio Frugoni che sgancia Clareno dal movimento dei fraticelli, che a sua volta travisa Gioacchino3.

Altrettanto lontana dall’ala radicale che travisa il messaggio gioachimiano è la ricezione del gioachimismo in uno dei primi ministri generali dell’Ordine dei frati minori, quel Giovanni da Parma di cui solo in tempi recenti si è saputa dare una lettura che non fosse permeata di partigianeria in un senso o nell’altro, letture che rinviano sempre alla sua rinuncia alla carica di ministro generale nel 1247 (A. Caciotti, M. Melli (eds.), Giovanni da Parma e la grande speranza, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2008), e che Angelo Clareno leggerà come una parentesi positiva tra una coppia di quelle tribolazioni che colpirono ai suoi occhi l’Ordine dei frati minori. Giovanni da Parma è uno dei probabili autori di uno dei testi simbolici del movimento francescano, quel Sacrum commercium sancti Francisci cum domina paupertate che racconta le nozze spirituali di Francesco d’Assisi con la povertà, e che comunque il suo editore critico, Stefano Brufani, preferisce lasciare ad una anonima paternità (S. Brufani, Sacrum commercium sancti Francisci cum domina paupertate, Assisi, Porziuncola, 1990). Noi possiamo limitarci al fatto che Giovanni da Parma risente nelle sue manifestazioni pubbliche – dato che i suoi scritti pervenutici sono esigui – del messaggio gioachimiano, e che la sua biografia è segnata da una missione in Oriente, tra 1249 e 1250, che gli venne conferita da papa Innocenzo IV, di cui le fonti sia latine, sia bizantine, ci riportano che si svolse in un clima di consonanza di stile e di personalità4.

La sintonia di Giovanni da Parma con il cristianesimo orientale, che si associa in lui al gioachimismo, è testimoniata dalla sua richiesta a papa Niccolò III nel 1289, ad una età che superava gli ottant’anni, di partire per la Grecia in un’ottica di riconciliazione tra il cristianesimo latino e quello greco, separati in maniera formale dalla clausola del Filioque dalla metà dell’XI secolo. Vi era in Giovanni da Parma la stessa attenzione che Gioacchino prestava al cristianesimo orientale, ma si potrebbe dire che più di una questione dottrinale, ossia di ripetizione di dottrine, si era di fronte ad un gioachimismo esistenziale, fatto di emozioni e sentimenti escatologici: inoltre, un cronista dell’epoca, Tommaso di Eccleston, considererà che una delle ragioni per cui Giovanni da Parma rinunciò alla sua carica sia stata quella di una insofferenza verso la sempre maggiore importanza dello studio universitario nella figura del frate minore, a dispetto dell’identità del francescano delle primissime origini. In questa identità primitiva l’elemento laico e quello sacerdotale non erano in rapporto gerarchico o fortemente asimmetrico, mentre progressivamente, con un processo che a volte si indica come clericalizzazione dell’Ordine, l’elemento sacerdotale prese il sopravvento, e con esso anche l’esigenza degli studi, costitutivi della formazione di un sacerdote. Forse, era anche insofferenza verso il modello dominante razionalistico della cultura latina, tanto più dominante se confrontato con la contemporanea cultura greca. Dato che il mondo culturale latino dominante poteva guardare con sospetto tutti questi fenomeni a partire dal suo atteggiamento razionalistico, si arriva ad un sospetto tanto più fomentato quanto altri esponenti nel movimento francescano, che travisavano concretamente il messaggio apocalittico gioachimiano, vengono più o meno arbitrariamente accostati a personaggi come il nostro Giovanni da Parma, oppure il commentatore della Regola Ugo di Digne (Per un giudizio completo rinvio a F. Troncarelli, Magnus Joachita: Ugo di Digne e Giovanni da Parma, in Giovanni da Parma e la grande speranza, pp. 103-152), oppure ancora Angelo Clareno, redattore di un commento alla Regola che solo nella tradizione francescana è infarcito di riferimenti ai Padri della Chiesa greci. In particolare, su Ugo di Digne, Damien Ruiz ha fornito una tesi di dottorato (Paris X, 2009) in cui ne mostra la profonda competenza giuridica (tratto tutt’altro che gioachimiano) e definisce anche in un lavoro recente il gioachimismo di Ugo di Digne ‘indeterminato’, un gioachimismo di buon senso se commisurato al conforto che gli offriva nelle sue attese spirituali5. Ma questo carattere non doveva proprio addolcire i censori dell’epoca, piuttosto doveva avvelenarli per l’indeterminatezza dei termini della questione, nella misura in cui la mancanza di certezza della fattispecie giuridica era considerata, allora come oggi, una lesione intollerabile della certezza del diritto. E non dovettero pensare che fosse un merito di Salimbene da Parma quello di avere trascritto per conto di Giovanni da Parma un manoscritto dei Trattati sui quattro vangeli, l’opera gioachimiana che vedremo essere al centro dei suoi problemi con il cristocentrismo. Né dovettero giudicare che fosse un merito per Ugo di Digne quello di possedere la panoplia dei manoscritti gioachimiani nella biblioteca del suo convento di Hyères, località che si affaccia sul Mediterraneo nell’attuale dipartimento francese del Var, in Provenza, peraltro non lontano dalla sua natale Digne che si trova nell’entroterra alpino di Hyères.

Il punto, insomma, è la trasformazione dell’intenzione di Gioacchino: essa consiste nel dimenticare che per Gioacchino il ‘vangelo eterno’ non può identificarsi con un testo scritto, come se fosse un nuovo libro della Bibbia, o per usare il suo termine questo ‘vangelo eterno’, simbolo del trionfo finale del cristianesimo, non è circumscriptibilis, ossia non è determinabile linguisticamente (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, pp. 26-27). E soprattutto consiste nel dimenticare il versetto di Giovanni 16,14: il Paraclito non dirà cose nuove quando verrà, ma come dice Gesù in questo versetto prenderà delle cose da Gesù e le annunzierà (ivi, p. 175). Esisteva però un movimento storicamente accertato, e questa dimensione era la principale preoccupazione dei tribunali ecclesiastici, che comprendeva Gioacchino in senso diverso, per cui il verbo latino ‘evacuare’, che possiamo rendere con l’italiano ‘evacuare’, significava sopprimere: non era l’intenzione di Gioacchino, ma così era compreso. E da questo fatto prendevano le distanze i giudici, senza troppe sottigliezze ermeneutiche tese a salvare Gioacchino dai suoi ferventi partigiani traditori del suo pensiero. Ai loro occhi di giudici restava un fatto pesante come un macigno, quello per cui «in Gioacchino è l’apocalittica che spiega tutto» (ivi, p. 130): è la potenzialità deviante della similitudo (tra creature e Creatore, che riconduce la dimensione trinitaria alla figura di un trapezio isoscele), di questo metodo teologico che prospetta quello che si è voluto chiamare un pensare per figure, che sconcerta i suoi censori, come osserva Valeria De Fraja («Arbitrantes nos unitatem scindere». La Confessio fidei di Gioacchino da Fiore e il dibattito trinitario in Curia (1180-1215), «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», 114, 2012, pp. 1-46, qui p. 46).

Resta il fatto che se le metafore gioachimite per esprimere la Trinità sono infelici, in quanto metafore si potrebbe dire che siano solo infelici, non già negatrici della trinità; infatti, per negare la Trinità, si dovrebbero prendere quelle metafore per spiegazioni analitiche, cosa che Gioacchino non avrebbe mai ammesso, né ha mai voluto (almeno a me pare prima facie). Un conflitto di paradigmi di razionalità ed un caso di incommensurabilità linguistica, e non tanto una questione di genuina deviazione dal deposito della fede: questo mi appare il dibattito trinitario rispetto a Gioacchino, molto più significativo per la storia delle idee che non per la riflessione filosofica. Tre vasi d’oro sono tre ma sono anche lo stesso oro: sostituire ai vasi le persone divine ed all’oro l’essenza divina, una mossa che Gioacchino compie nel suo Psalterium decem chordarum, può essere una metafora bella o brutta, alla quale si può preferire quella di san Giuseppe da Cupertino di un mantello che ha tre parti perché piegato con due linee, ma è giocoforza riconoscere che ogni metafora esula da un approccio analitico al mistero trinitario. L’ontologia formale non tollera nessuna metafora, anche se forse le metafore possono convertire molto di più della più raffinata e asettica ontologia formale.

In questa prospettiva le pure opportune critiche di Manselli sull’uso da parte di Gioacchino del concetto di appropriatio (R. Manselli, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 185-187) sono tanto più valide quanto disgiunte da ogni desiderio di tribunali della storia – oggi tanto imperanti nell’immaginario collettivo, specie in quello che si vuole assolutamente laico – ed invece congiunte ad un desiderio di tracciare un percorso dell’immaginario gioachimita nei secoli. Resta comunque importante sottolineare il carattere inusuale del trattamento trinitario di Gioacchino, come fa Manselli o come fa Burr parlando di Olivi esegeta apocalittico sulla scorta di Gioacchino: coloro che giudicarono Olivi lo fecero consapevoli dei pericoli che ai loro occhi si liberavano dall’esegesi oliviana. Erano agostiniani politici, credevano nella teologia politica che nasceva dalla penna di Eusebio di Cesarea e si consolidava nell’autorappresentazione politica di Carlo Magno, una teologia politica che concepiva la separazione tra Chiesa e Impero come un ruolo attivo della Chiesa, istituzione destinata a governare quanto a pregare. Quando si parla di Francesco come dell’angelo del sesto sigillo in un testo agiografico (la stessa Legenda Maior di san Bonaventura), l’intento devozionale è evidente per la stessa struttura retorica del testo, ma quando Olivi fa esegesi biblica esclude che le sue conclusioni siano prese in senso lato e evocativo (L. Parisoli, L’attesa escatologica in Pietro di Giovanni Olivi, in Francescanesimo e cultura nella provincia di Messina, a cura di C. Miceli, A. Passantino, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2009, pp. 249-260, in partic. p. 254, ispirato al fondamentale volume: D. Burr, Olivi’s Peaceable Kingdom. A Reading of Apocalypse Commentary, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1993). Non si tratta di erigersi a giudice della prassi migliore, bensì di sottolineare la fonte della eventuale problematicità di accettazione delle loro proposte da parte dei contemporanei. È vero che la sottolineatura della dimensione dell’economia delle persone divine rispetto ad una unità divina quasi-logica è stata operata con finalità di apologia dell’eterodossia da parte di Buonaiuti (E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore. I tempi. La vita. Il messaggio, Roma, Collezione meridionale, 1931; Gioacchino da Fiore, De articulis fidei, a cura di E. Buonaiuti, Roma, Tip. Del Senato 1936, pp. 4-8), ma resta il fatto che l’impressione è tutt’altro che campata in aria. Nel discorso di Gioacchino, esemplarmente Tractatus super quatuor Evangelia, si instaura un parallelo privilegiato tra la sua tripartizione in età e la struttura del vangelo di Luca, all’età del Padre corrisponde l’Antica alleanza, all’età del Figlio il tempo di Gesù (tempo di attesa e rappresentazione anticipatrice), all’età dello Spirito santo il tempo della Chiesa (R. Laurentin, Structure et théologie de Luc I-II, Paris, Librairie Lecoffre, 1957, pp. 32-34): i personaggi pre-evangelici, siano essi Simeone o Giovanni Battista, occupano la scena dell’ermeneutica gioachimiana più della stessa passione di Cristo, od almeno questa è l’impressione netta di chi parte dal presupposto del cristocentrismo che san Bonaventura fisserà nella sua dimensione più forte un paio di generazioni dopo la morte di Gioacchino. Almeno Manselli caratterizza così l’innovazione semantica apportata da Gioacchino nel discorso cristiano: «l’affermazione chiara e precisa dell’esistenza di due &lsq uo;kairòi’, di due momenti critici della storia provvidenziale, e la collocazione di una terza età che da un secondo ‘kairòs’ è iniziata e che viene a frapporsi prima della fine dei tempi e della seconda venuta del Cristo. Mentre, infatti, Cristo era, nella concezione provvidenziale della tradizione, l’unico centro della storia, e la sua venuta era l’unico punto critico, in Gioacchino va posto, accanto a Cristo, lo Spirito Santo e accanto all’unico e solo ‘kairòs’, l’altro, rappresentato dall’avvento dello Spirito» (R. Manselli, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 188). Si tratta dell’intuizione di una «storicità dell’universo, come storicità totale dal principio alla fine escatologica»: Manselli ci può aiutare a comprendere che l’escatologia gioachimita è tratteggiata come completamente immersa nella cultura monastica, di cui si rifiutano i collegamenti più distorcenti con il mondo feudale (R. Manselli, Il tempo escatologico (secoli XII-XIII), poi in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 687). Se Gioacchino riprende la “tés soterías” di Eusebio di Cesarea, uno dei padri della teologia politica cattolica (J.P. Martín, El cristiano y la espada. Varaciones hermenéuticas en los primeros siglos, «Revista Bíblica», 49, 1987, 17-52, pp. 38-42), certo Gioacchino è uno dei primi a dubitare della stessa possibilità di ogni teologia politica cattolica. Non deve sorprenderci, dunque, se sia infine proprio il terreno della teologia politica che determina la rovina medievale di Gioacchino e la sua rivalutazione diffusa post-Vaticano II: se questa osservazione è corretta, le erudite analisi di Antonio Staglianò, attuale vescovo di Noto, possono anche essere condivise nel loro sforzo estremo di salvare completamente l’ortodossia di Gioacchino6 – strategia che non deve mai implicare una ridefinizione del deposito della fede attraverso Gioacchino –, tuttavia mostrano al tempo stesso che questi argomenti gioachimiani non sono quelli percepiti dai suoi contemporanei od immediati partigiani. E non dovremmo neppure dimenticare che in un mondo dove l’ortodossia, come assenza di eresia, è concepita in termini normativi – siamo nell’epoca del trionfo del diritto canonico, Gioacchino pare concepire la stessa nozione di ortodossia in termini spirituali e non-normativi, collocandosi in un contesto culturale altro rispetto a quello dei suoi interlocutori avversari medievali7.

Mi pare sensibile sottolineare un passo del Adversus Iudeos in cui Gioacchino constata delle contraddizioni nel testo biblico, in particolare si tratta del Salmo 121,4 e del Salmo 44,24, di una comparazione tra Isaia 40,28 con lo stesso Isaia 1,14, ma anche Geremia 3,65 e Malachia 2,17, e dopo tale constatazione pone la questione nei termini del principio di bivalenza – o è vero che A oppure è vero che non-A – e scioglie la contraddizione rinviando al significato spirituale, che si pone come primario nel risolvere le contraddizioni apparenti rispetto a eventuali tecniche semantiche classiche8, a partire da quelle aristoteliche – la clausola dello stesso significato di A e dello stesso tempo in cui si afferma e nega A.

Il Gioacchino di Staglianò è materia di discussione teologica delle idee, ma mi pare non ve ne sia traccia sensibile in quel percorso storico che deve essere colto dallo storico delle idee: i gioachimiti storici non hanno colto il Gioacchino di Staglianò, e sono i gioachimiti ad avere impresso il loro marchio nella storia del pensiero occidentale, operando un fraintendimento culturale che è stato identificato da Robert Lerner in una fonte cristiano-orientale del pensiero di Gioacchino, il chiliasmo, ossia l’attesa di un miglioramento radicale di origine divina della condizione terrena dell’uomo prima del giudizio finale (R.E. Lerner, La via al chiliasmo di Gioacchino da Fiore, in Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, a cura di R.E. Lerner, Roma, Viella, 1995, pp. 97-116; Id., Refrigerio dei santi: il tempo dopo l’Anticristo come tappa del progresso terreno nel pensiero medievale, in Refrigerio dei santi, 19-66, pp. 20-21; Id., Anticristi e Anticristo in Gioacchino da Fiore, in Refrigerio dei santi, pp. 117-135). Lerner insiste sulle fonti cristiano-orientali del pensiero di Gioacchino e ne mostra l’eccentricità rispetto alla tradizione latina, in cui il chiliasmo delle origini viene progressivamente anestetizzato (Si veda sulla genesi della nozione di terra santa: R.L. Wiken, Early Christian Chiliasm, Jewish Messianism, and the Idea of the Holy Land, «Harvard Theological Review», 79, 1986, pp. 298-307), che coincide però con un Gioacchino ben meno eccentrico rispetto a quella greca. Il chiliasmo, per parlare in termini espliciti, può essere altrimenti detto il ritorno di un’età aurea qui-ed-ora. Gioacchino rompeva così con la tradizione esegetica latina9 e considerava come un periodo storico identificabile e descrivibile quel periodo menzionato nell’Apocalisse che separa la fine dei disastri procurati dall’Anticristo dalla gloria finale del mondo: cessando di essere uno spazio più logico e semantico che non storico, esso poteva essere riempito di contenuti fattuali e descrittivi del presente ed aprirsi sempre più ad essere un’età trinitaria – quella dello Spirito santo –, aprendo contemporaneamente un enorme spazio per possibili movimenti ereticali di agitazione sociale. Non a caso il chiliasmo è stato oggetto delle attenzioni della storiografia marxista, di cui mi limito a citare un saggio seminale di Ernst Werner (E. Werner, Popular Ideologies in Late Mediaeval Europe: Taborite Chiliasm and Its Antecedent, «Comparative Studies in Society and History», 2, 1960, pp. 344-363), in cui la dimensione politica del chiliasmo è colta in tutta la sua ricchezza e proiettata nella sua dimensione propulsiva: Gioacchino da Fiore e Pietro di Giovanni Olivi vi figurano come le fonti intellettuali del movimento taborita del XV secolo, insieme al movimento del libero spirito per cui si ricorre ad Alvaro Pelagio per qualificarne la natura di movimento caratterizzato dalle classi inferiori della società.

Questo impegno di azione politica fu recepito da molti eredi prossimi di Gioacchino, e grazie al trapianto di un’idea meramente spirituale, tesa ad identificare un momento chiliastico di respiro, dopo angosce orribili prima della beatitudine eterna, in un terreno pragmatico e sociale si aprono gli spazi dell’icona gioachimita come terreno fertile per movimenti sociali gnosticheggianti. Pur con tutta la sua simpatia per l’analisi gioachimita, Henry Mottu conclude la sua importante opera, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore (cit., p. 291), con parole che sono sostanzialmente un giudizio di eterodossia rispetto al cristianesimo10, pensato come “cristo-centrico” così come si configura in maniera speciale almeno a partire da san Bonaventura11, o almeno io ve lo leggo apertamente: «risolvere il problema di questo rapporto tra Cristo e lo Spirito, la Parola salvatrice e la manifestazione del Regno, la giustificazione mediante la sola grazia e la ricerca della giustizia, significherebbe probabilmente trovare la soluzione dell’enigma della teologia di Gioacchino; ma significherebbe pure uscire dalla nostra condizione di interpreti e togliere qualcosa allo strano fascino che la sua teologia non ha cessato di esercitare fino ad oggi». Come nota lo stesso Henry Mottu, in Gioacchino da Fiore troviamo esaltata l’umiltà di Cristo, in gran parte con accenti di comprensione monastica di questa virtù: quello che intende il nostro interprete è che non dobbiamo comprendere in Gioacchino l’umiltà nei termini analitici della futura Scolastica, che Gioacchino non amava sin dalla sua protostoria, ossia come sottodivisione della modestia che è inclusa nella temperanza (e nessun filosofo scolastico dissentirebbe).

Secondo il comune sentire semantico della letteratura monastica, a partire dalla Regola benedettina che recepisce esplicitamente Cassiano nelle sue Institutiones (4, 32-43), l’umiltà ha uno spettro semantico molto ampio, capace di includere una miriade di elementi della vita religiosa e non, sempre comunque un cammino ascetico, ma che proprio per questo ad una lettura analitica risulta una caratterizzazione semantica quantomeno vaga, al peggio ambigua. Più che una virtù analiticamente definibile, è il modo corretto in cui si devono istanziare nelle proprie vite tutte le virtù. Vi è però, prosegue Mottu, uno stridente silenzio sul trionfo della Croce, sulla morte che esalta Cristo perché avviene senza accettazione della violenza che lo ha stroncato, tanto che si può dire che l’umiltà di Cristo occupa lo spazio dell’intera cristologia di Gioacchino. Il fascino del discorso trinitario di Gioacchino si riversa tutto nella sua teoria stadiale della storia, secondo un disegno immutabile e lineare voluto dalla Provvidenza (che pare quasi limitare l’onnipotenza divina, e mi pare di potere dire che per Gioacchino l’idea stessa di Dio che cambia il passato non ha senso), senza le tensioni dialettiche che saranno di Hegel, quasi che il corso della storia risolvesse la tensione contraddittoria della Trinità che è quei-tre (e non già una qualunque terna) che sono uno.

2.

Le fonti più prossime al periodo in cui Gioacchino visse e che ci raccontano la sua vita sono state raccolte da Grundmann nella sua biografia dedicata all’abate florense, e si riconducono all’opera del vescovo Luca di Cosenza (H. Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, Roma, Viella, 1997, pp. 191-197) e di un anonimo monaco a lui vicino (Id., Gioacchino da Fiore, pp. 183-190). Sono poi da considerare i lavori e le acquisizioni della Commissione storica istituita in vista della procedura per la canonizzazione di Gioacchino, nell’ambito dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano. Facciamo risalire al 1135 l’anno della nascita di Gioacchino, in base alla testimonianza di un abate cistercense, Adamo di Perseigne, che nel momento in cui lo incontrò a Roma in una data tra il 1195 ed il 1198 ebbe l’impressione di incontrare un uomo di circa sessant’anni: più certo è invece il fatto che nacque a Celico, e che, dopo avere studiato a partire dai sette anni la grammatica e le materie umanistiche, iniziò la sua vita da adulto attraverso un’esperienza notarile, un dato significativo se associamo la pratica notarile ai mestieri degli operatori giuridici e compariamo questo dato con la sostanziale anomia del suo discorso profetico e spirituale (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, cit., pp. 30-32). Significativo come può essere l’analisi psicologica di un personaggio del passato, ossia meramente indiziaria e di fatto puramente astrazione ipotetica; in fondo, non si tratta altro che di un elemento significativo per una narrazione di filosofia della storia. Negli anni ’60, e già nel corso degli anni ’50, è a Palermo come funzionario amministrativo presso la corte normanna, presta servizio presso l’arcivescovo, sino a quando verso il 1168, certamente non prima del 1167, parte per i luoghi santi del Vicino Oriente, secondo itinerari che non sono ricostruibili a partire da una documentazione insufficiente (P. Dalena, I viaggi di Gioacchino e dell’abate Matteo in Oriente e in Sicilia, in Gioachimismo e profetismo in Sicilia, a cura di C.D. Fonseca, Roma, Viella, 2007, 29-39, pp. 30-31). La vita religiosa di Gioacchino coincide con l’abbandono della pratica notarile, e la sua scelta cadrà sulla vita eremitica, un’opzione tanto più disponibile quanto la geo-cultura della Calabria e del Meridione del XII secolo risentiva di influssi e presenze del cristianesimo orientale quanto certo non si poteva dire per le regioni settentrionali dell’Italia e dell’Europa (S. Lucà, Note per la storia della cultura greca in Calabria, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 74, 2007, pp. 43-101; F. Burgarella, V. von Falkenhausen, S. Tramontana, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, in Storia d’Italia, III, Torino, Utet, 1994). Non a caso, al ritorno in Sicilia si insedia in un gruppo monastico sui costoni dell’Etna. Si era recato quindi in Terrasanta non prima dell’anno 1167, secondo i lavori della Commissione storica istituita dall’Arcidiocesi di Cosenza, commissione che ha operato tra il 2001 e il 2005 in vista del suo processo di canonizzazione. Per l’esatta cronologia siamo di fronte ad un puzzle costituito dalle indicazioni biografiche, in cui è necessario tentare di mettere ordine: un tempo si proponeva addirittura la data alternativa del 1148 per il suo abbandono della pratica di funzionario amministrativo, ipotesi che condurrebbe a pensare che dal 1148 al 1167 abbia praticato la vita eremitica per un tempo molto lungo, e praticamente nessuna esperienza come funzionario amministrativo e notaio, sino a quella data del 1171 in cui sappiamo che entrò a far parte del monastero benedettino di Santa Maria di Corazzo, prima visitato sulla strada per la sede episcopale di Catanzaro, poi, dopo essersi recato a Rende, sede della sua assunzione dell’abito monastico. In una ipotesi, assai verosimile, si tratta di non più di tre anni di vita eremitica, nell’altra ipotesi di almeno ventitre anni di vita ermetica: questo lungo periodo in realtà non collima con le indicazioni delle fonti dirette, e metterebbe in discussione il valore delle fonti stesse, cosa che non pare affatto verosimile, anzi. Ricapitolando, prima di integrare la vita monastica, e divenire certamente abate di Corazzo nel 1177, fece senza dubbio la sua brava esperienza eremitica in una regione, le pendici dell’Etna, con presenze basiliane sufficientemente attestate. La durata della sua presenza in Terrasanta non è sicuramente determinabile: il lasso di tempo di inizio della vita eremitica siciliana oscilla da dopo il 1168 sino verosimilmente all’esordio del nuovo decennio 1770, esperienza che proseguì recandosi  a vivere in una grotta nei pressi di Cosenza, a Guarassano. Passa quindi un periodo nel monastero cistercense della Sambucina, e per un anno predica nella zona collinare di Rende. A Guarassano il racconto agiografico vuole che abbia incontrato il padre notaio e abbia rinunciato di fronte a lui a tutte le proprie ricchezze, un episodio che se da un lato sembra essere perfettamente coincidente con una figura retorica dell’agiografia dell’epoca (e che ritorna in narrazioni celebri come le agiografie di Francesco d’Assisi), d’altro lato collimerebbe con le tensioni che Gioacchino stesso esprime verso la propria famiglia in una sua opera – la Concordia Novi ac veteris Testamenti (V, 8) – e di cui ci racconta la biografia del vescovo Luca (traduzione italiana in: A. Staglianò, L’abate calabrese, cit., pp. 197-200).

Tra i confratelli di san Francesco d’Assisi si troveranno certo molti gioachimiti: Manselli però osserva che il francescanesimo si presenta come movimento di forte critica dello stato esistente della Chiesa cattolica prima di ogni influenza gioachimita, come mostra l’atteggiamento di sant’Antonio da Padova. Tuttavia, la presenza di un’anima “condescensiva” nell’applicazione della Regola minoritica produce un rigetto dell’innesto del gioachimismo nel tessuto francescano (R. Manselli, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 189-190). Resta il fatto che a differenza di Francesco d’Assisi, Gioacchino rifiuta una collocazione nel nuovo mondo urbano non già francescanamente per continuare a vivere in quel mondo pur esonerandosi dalle sue regole, bensì per rientrare apparentemente nell’universo della tradizione monastica che era e resterà tanto più legato all’universo del mondo feudale, oramai avviato al tramonto nell’Europa tutta, per sopravvivere a lungo solo nelle sue periferie, tra cui il Meridione d’Italia. Gioacchino transita quindi per il clero secolare – lo abbiamo già visto ricevere gli ordini minori dal vescovo di Catanzaro transitando al monastero di Corazzo –, si dà alla predicazione su quelle colline che danno sulla valle del Crati, magari proprio all’altezza del torrente Surdo. Questa predicazione è in qualche modo collegata al suo contatto con l’ambiente monastico dell’abbazia della Sambucina, ma la sua vita religiosa per ora si integra nella comunità benedettina di Santa Maria del Corazzo, dove diviene rapidamente priore e dove alla rinuncia dell’abate Colombano segue la sua elezione da parte dei monaci nel 1177: cercò di consolidare lo statuto dei possedimenti di questa abbazia, rivolgendosi al mondo cistercense, prima alla comunità della Sambucina, da lui già esperita nel passato, poi alla comunità laziale di Casamari, ma in entrambi i casi ottenne risposte negative, legate alla geopolitica di quei monasteri. Se dobbiamo prestare fede alle lamentele dei suoi compagni di comunità di Santa Maria del Corazzo, cui il Papa diede ascolto nel 1188 affiliando questa comunità all’Abbazia di Fossanova, una comunità cistercense collocata nell’attuale provincia di Latina, queste peregrinazioni di Gioacchino sembrano dirette più ad affrancarsi dai suoi doveri politici di abate che al rafforzamento del ruolo del monastero di Corazzo. Certo è che durante il suo soggiorno a Casamari, dove conobbe anche il suo biografo Luca Campano, poi vescovo di Cosenza, si consacrò alla sua opera di scrittore ed interprete delle Scritture, in cui poté immergersi totalmente con soddisfazione sua e dei suoi confratelli di Corazzo quando le loro strade si separarono appunto nel 1188, una volta che Gioacchino si ritira insieme ad alcuni discepoli a Pietralata, che preferisce chiamare Petra Olei, e la comunità ex-benedettina di Corazzo entra nella costellazione cistercense, come filiazione del già citato monastero di Fossanova.

La sua vocazione eremitica, che è in ultima analisi un rifiuto del mondo urbano associato al rifiuto anche del mondo feudale, lo conduce a cercare l’isolamento sull’altopiano silano, dove in una località ora indicata nella memoria storica come Jure Vetere (Per una mappa dei luoghi gioachimiani in Sila: G. Bertelli, D. Roubis, F. Sogliani, I siti florensi della Sila: la scoperta della prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore a Jure Vetere (S. Giovanni in Fiore), in I luoghi di Gioacchino da Fiore, 119-145, p. 138) fonda appunto nell’autunno del 1188 l’abbazia florense, dove si insedierà l’anno successivo, più precisamente il protomonastero di Fiore Vetere, nucleo di riferimento geografico, almeno sino all’incendio che lo devasterà nel 1214, di quella che diverrà la località di San Giovanni in Fiore. Suggestivo è considerare che la parola ‘fiore’ venne individuata da Gioacchino credendo di tradurre dall’ebraico la parola Nazareth, con significati escatologici e geografici che sono l’ordito con cui è tessuta la trama cristiana del suo discorso, un ordito capace di evocare un cristianesimo simbolico e emblematico che male si adatta alla razionalità del diritto canonico o della teologia scolastica (per il punto ‘etimologico’: S.E. Wessley, The Role of the Holy Land for the Early Followers of Joachim of Fiore, in The Holy Land, Holy Lands, and Christian History, ed. by R.N. Swanson, Rochester, Boydell Press, 2000, pp. 181-191, p. 185). In ogni caso, non prima del 1194 sarà chiarita la situazione feudale dei possedimenti dell’insediamento monastico di Jure Vetere, passato dalla forma originaria di eremiti isolati a quella di eremiti raggruppati in forma cenobitica (G. Andenna, Il monachesimo florense ed il papato sino alla metà del Duecento, in L’esperienza monastica florense e la Puglia, a cura di C.D. Fonseca, Roma, Viella, 2007, 29-60, pp. 31-32), ossia comunitaria, con il consueto intreccio di privilegi legati ai prodotti della terra, non prima cioè di un intervento esplicito di Enrico VI, dopo anni di confusione politica e giuridica. Le testimonianze esprimono una forma di vita religiosa gioachimita, che il successore di Gioacchino, l’abate Matteo, intende preservare e fare sviluppare, nella galassia della famiglia benedettina (V. De Fraja, L’ordine florense dalla fondazione al 1266, in Atlante delle fondazioni florensi, a cura di P. Lopetrone, I, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006, pp. 201-282; V. De Fraja, Atlante delle fondazioni florensi, II, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006). Il destino dei monaci florensi venne separato dai pontefici da ogni eventuale rigore contro la dottrina trinitaria del loro fondatore, mostrando quindi l’assenza di ogni accanimento nella politica ecclesiastica contro l’istituzione florense, pure in presenza di un intervento censorio in materia di ortodossia dottrinale (G. Andenna, Il monachesimo florense ed il papato sino alla metà del Duecento, pp. 40-41). Ma il loro destino è pur sempre breve (M. Salerno, “Fra cielo e terra”. Gioacchino e i Florensi tra vita religiosa e pratiche economiche, in Storia, religione e società tra Oriente e Occidente (sec. IX-XIX), a cura di A. Vaccaro, Lecce, ARGO, 2013, pp. 113-135): forse più che le fratture interne, in piena evoluzione e consolidamento a partire dai primi anni della seconda metà del XIII secolo, sarà forse la loro eccentricità rispetto al modello dominante ecclesiologico latino a condannarli alla marginalità, esemplificata nella loro scelta tra eremo e cenobio in stridente contr asto rispetto al modello dilagante urbano degli Ordini mendicanti.

È comunque negli ultimi anni della di vita di Gioacchino che la vocazione alla scrittura, coltivata anche grazie alle concessioni pontificie che lo esoneravano dal carico consueto di preoccupazioni amministrative di un abate, si traduce nella sua opera esegetica e teologica, ma che non potremmo certo definire filosofica in senso stretto. Ed è negli ultimi anni della sua vita, se non in quelli immediatamente successivi, che si consolida la raccolta di figure del Liber figurarum, in cui le didascalie possono per alcuni essere soppiantate dalle figure stesse12.

Occorre, per evitare ogni fraintendimento ed equivoco, chiedersi perché il ricorso sistematico al simbolico, al ‘pensare per figure’, come lo si è voluto chiamare, da parte di Gioacchino possa avergli procurato un posto disagevole nella cultura medievale dominante. La chiave di volta per comprendere il luogo del simbolo nella cultura medievale dominante sono i Libri carolini, che disponiamo in una edizione critica recente13: di fronte ad una più che esitante traduzione latina di un passo del Secondo concilio niceno del 787, traduzione che suggeriva la liceità dell’adorazione dell’immagine, superando la venerazione ad esse dovuta e allargando l’esclusiva adorazione dovuta a Dio, Carlo Magno assume in pieno la sua funzione di campione della teologia politica ed affida ad un membro della sua curia, Teodolfo di Orleans, di smentire quel proposito ritenuto deviante. Ecco che nel 793 sono composti i Libri carolini, che fissano una volta per tutte nel mondo latino cristiano – all’interno della teologia politica dominante – lo statuto dell’immagine, che non è mai oggetto di adorazione, bensì di venerazione, e che deve essere accompagnata dalle opportune strutture ermeneutiche per garantirne l’ortodossia. Maria Bettetini ha fornito un contributo estremamente utile per chi voglia accedere a questa fonte capitale per la geocultura latina medievale del sacro, un contributo che oppone la ‘silenziosa decorazione’ alla ‘fonte dello spirito’ (M. Bettetini, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito. Percorsi dall’epoca carolingia a Gioacchino, in Pensare per figure, pp. 9-31): l’immagine contiene un surplus di significato irriducibile alle operazioni linguistiche che si possono condurre introno ad essa, ossia l’immagine è una silenziosa decorazione, quindi incapace di dire qualcosa, quando non sia associata alle opportune didascalie (tituli)14 e ad una impalcatura ermeneutica, oppure l’immagine contiene questo surplus di significato e si rivela così una fonte, di fatto gerarchicamente sovraordinata al linguaggio, dello Spirito santo (C. Chazelle, Not in Painting But in Writing: Augustine and the Supremacy of the World in the Libri Carolini, in Reading and Wisdom: The De doctrina christiana of Augustine in the Middle Ages, ed. by E. D. English, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1995, pp. 1-22)? Mentre la risposta di Gioacchino mostra numerosi spunti in questa seconda direzione, e certo alcuni suoi interpreti nei secoli hanno voluto vedere nelle immagini – grafiche e/o linguistiche – che ci offre un eccesso di significato rispetto al linguaggio stesso, ed anche se è sempre possibile leggerlo in direzione alternativa perché nel senso della silenziosa immagine, la risposta dei Libri carolini è perentoria, così come è perentoria la messa al servizio della civiltà dell’interpretazione che Carlo Magno opera con la sua teologia politica. Considerata chiusa la fase della Rivelazione, considerato determinato dalla Tradizione – riconosciuta dalla Sede apostolica – il patrimonio della fede, Carlo Magno si considera uno dei termini dello schema ternario, che coinvolge papa, imperatore e Dio, in cui il Terzo divino investe il potere imperiale come legittimo grazie al ruolo di mediatore del pontefice romano: il primato della parola è sancito sull’immagine, per il semplice fatto che oggetto di interpretazione, l’arte in cui eccelse la civiltà romana grazie al monumento giuridico che seppe produrre, è il linguaggio, e non già uno stato di cose. Se è vero che Giovanni Scoto Eriugena, sulla falsariga del neo-platonismo, toglie l’uso della parola ‘simbolo’ dalla sola espressione symbolum fidei – il deposito della fede – per estenderlo a tutte una serie di espressioni semantiche che stiracchiano le ordinarie operazioni linguistiche di significanza15, è altrettanto vero che non esce dal paradigma tracciato dai Libri carolini, che condannano piuttosto ogni approccio gnosticheggiante all’immagine che ne voglia fare una pietra miliare di un percorso iniziatico. Non mi situo sulla stessa falsariga dell’analisi di Maria Bettetini, anche ciò che ella afferma non è scorretto: dopo i Libri carolini, «le immagini non potevano più essere buone o cattive, ma diventavano solo utili o inutili e, soprattutto, belle o brutte. Così come la cultura occidentale le ha poi considerate nei tredici secoli successivi» (M. Bettetini, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito, cit., p. 11). Forse farei meglio a dire che non avrei scritto quest’ultima frase nello stesso modo, poiché Bettetini dice chiaramente quello che per me è il fulcro dei Libri carolini: ciò che li sostiene è «l’esegesi delle Scritture come unica fonte di verità» (ivi, p. 13), tesi fondamentale del De doctrina christiana agostiniano. Prima della secolarizzazione moderna, finché l’identità dogmatica cristiana era percepita in modo sensibile, così come lo era quella musulmana nei territori islamici, o quella ebraica nelle comunità giudaiche, le immagini erano soprattutto percepite come segni non-linguistici, da cui l’interesse di Scoto Eriugena per una loro tassografia, incapaci di analisi ermeneutica senza l’ausilio di una struttura linguistica associata.

Questo era il luogo coerente delle immagini in una civiltà dell’interpretazione, fondata su due corpi testuali, quello giuridico e quello religioso. In assenza di tale struttura, le immagini sono oggetto di commento e di uso, belle o brutte, utili e inutili: l’autonomia dell’arte è l’esito del rifiuto di operazioni semantiche di tipo esoterico o iniziatico, ma si associa anche alla rimozione della valenza inconscia del simbolo e dell’emblema, e questa valenza ritornerà a fare sentire la sua voce silente, lasciando sempre aperta, a dispetto di ogni intenzione, la porta a strategie alternative di tipo esoterico o iniziatico. In fondo è l’interazione tra diritto romano e religione cristiana che ha evitato sia il rifiuto, sia l’esaltazione delle immagini: è tutt’altro che un caso il fatto che nel contesto musulmano l’immagine sia solo geometrica nei luoghi di culto, e che la tradizione giudaica arrivi a non volere neppure pronunciare il nome del Dio unico, od ancora che il protestantesimo abbia impoverito drasticamente le decorazioni dei luoghi di culto. Le prime due tradizioni sono sempre rimaste impermeabili all’eredità giuridica romanistica, la terza è un cristianesimo che nasce dall’atto di Lutero di bruciare in piazza la Summa angelica, testo di riflessione filosofica sulle basi del diritto canonico, ossia l’evacuazione dell’eredità romanistica dal corpo cattolico, rinnegano il percorso che da Eusebio di Cesarea passa per papa Gelasio I ed arriva a Carlo Magno. 

Se ora pensiamo ai disegni gioachimiani che tratteggiano diverse concezioni della Trinità (E. Honée, Symbolik und Kontext von Joachim von Fiores "antilombardischen Figuren: Zur Interpretation von Tafel XXVI in der Faksimile-Ausgabe des Liber Figurarum, in Pensare per figure, pp. 137-157; J. Devriendt, Du triangle au Psaltérion: l’apport de Joachim de Flore à l’une des représentations majeures de la Trinité, in Pensare per figure, pp. 187-202), e li pensiamo al di là di una mera funzione euristica, allora diventa chiaro che Gioacchino è uscito dalla teologia politica latina dominante, per la quale «un affresco di Cristo in croce ricorderà l’evento storico della morte di Cristo, senza nulla aggiungere riguardo alla persona e alle due nature» (M. Bettetini, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito, p. 15). Questa fuoriuscita dalla teologia politica latina carolingia non è sinonimo di esoterismo, se pensiamo al fatto che nel cristianesimo bizantino le icone si scrivono, un modo di esprimersi che non è solo proprio del discorso colto, quanto della lingua ordinaria della fede cristiana orientale. Questo modo di esprimersi non implica nessun esoterismo e nessuna tendenza iniziatica, anche se esclude la teologia politica carolingia: se pensiamo l’ermeneutica del testo giochiamiano in questa chiave, lo possiamo pensare altro dalla cultura cristiana latina dominante solo in quanto appartenente al discorso di un’altra geocultura cristiana, e non per altro. Resta il fatto che nella cultura latino l’espressione ‘pensare per figure’ è forse la cifra del fascino esercitato da Gioacchino da Fiore senza alcuna evocazione bizantineggiante, un fascino sulle cui derive sempre in agguato ha giustamente ammonito il cardinale de Lubac16: tuttavia, se ci situiamo sulla falsariga dei Libri carolini, non possiamo che ripetere il giudizio di un interprete recente su di questo libro che “is not only a treatise on images, it is also a spiritual declaration of war from Charlemagne against the Byzantines, where the liberal arts play a considerable role” (Å. Ommundsen, The Liberal Arts and the Polemic Strategy of Opus Caroli Regis contra Synidum (Libri Carolini), «Symbolae Osloenses», 77, 2002, 175-200, p. 197). È certo qui la cifra dell’incompatibilità di Gioacchino stesso con la civiltà latina dell’interpretazione, i cui due monumenti sono le glosse al corpo giuridico, sia esso canonico oppure romanistico, e le glosse alla Vulgata, il Testo sacro del cattolicesimo. Non si tratta di evocare per l’ennesima volta vicende processuali, quanto di prendere atto della refrattarietà del mondo latino cristiano al “pensare per figure”, ma non all’importanza della figura, che non è solo immagine anche alla portata degli analfabeti, ma è anche simbolo ed emblema della psicologia profonda dell’uomo, una dimensione che è stata scoperta dalla psicoanalisi nel contesto di una cultura novecentesca più che secolarizzata, ma che i Padri della chiesa, latini o greci che fossero, avevano già maneggiato in lungo ed in largo per una semplice ragione: il loro scopo principale non era costruire un discorso razionalizzato sul cristianesimo, bensì quello di costruire un discorso devozionale persuasivo, dato che volevano evangelizzare i loro interlocutori, convertirli alla fede cristiana. Tante volte ci imbattiamo in lunghe accumulazioni di percorsi per cui un simbolo cristiano è stato ripreso e/o copiato da un uso religioso pre-esistente. Il punto è che non c’è discorso devozionale di sorta senza simboli ed emblemi, e questi due elementi non sono pertinenza di un culto o di una riv elazione, essi sono espressione delle invarianti umane, o se si preferisce dell’inconscio, o come altro lo si voglia chiamare; anche se poi quei simboli ed emblemi nella tradizione cattolica latina non sono ritenuti capaci di significare senza l’ausilio del Testo sacro, ed anche se poi la Scolastica coltiverà il razionalismo sino a poter pensare di fare a meno di simboli che non fossero del tutto riducibili ad una formulazione linguistica17. Forse un’esasperazione di un rigoroso approccio filosofico analitico, forse anche un mutamento di prospettiva rispetto alla Patristica: lo scopo della Scolastica non è evangelizzare, bensì è mostrare a chi già crede (e quindi poter dare per scontati simboli ed emblemi) che ciò in cui crede è razionale – comunque, non si può negare la tendenza a mettere almeno tra parentesi l’Enigma nel culmine del razionalismo ermeneutico della filosofia cristiana insegnata nelle università tra XIII e XIV secolo18.

Che cosa stonava nelle analisi trinitarie gioachimite agli orecchi di un esponente della cultura dominante latina nel XIII secolo? Forse qualcosa che risuonava già nelle pagine di Ruperto di Deuz, autore di un De sancta trinitate et operibus eius (Ruperto di Deuz, De sancta trinitate et operibus eius, edidit H. Haacke, Turnholti, Brepols, 1971-1972, PL 167, CCCM, 21-22-23-24) databile al periodo 1112-1116, in cui la Trinità diviene l’articolazione di una serie di simboli che sovrintendono alla scansione della storia. Ed ancora di più nelle brevi pagine del trattatello Summa gloria del monaco benedettino di Autun (Onorio di Autun, Summa gloria de apostolico et augusto, in Patrologia Latina, 172, col. 1257-1270), in cui la scansione temporale riceve una precisa identificazione  tra storia ed escatologia, con cinque età che vanno dagli Apostoli all’Anticristo, e la quarta età, quella degli ordini monastici si identifica con i primi decenni del XII secolo di Onorio. Oppure ancora la prima parte dell’Antikeimenon di Anselmo di Havelberg, conosciuta sotto il titolo De una forma credendi e databile al 113519, in cui la varietà delle forme di vita religiose, analizzate nel quadro della divisione tra cristianesimo latino e cristianesimo greco, è pensato come strumento di ringiovanimento della Chiesa, e Voegelin vi vede una capitolazione del pessimismo agostiniano (ossia dell’agostinismo politico segnato dal peccato originale) in favore di un ottimismo del progresso20. Non  ci è dato sapere se queste fossero le letture di Gioacchino, e un’analisi del patrimonio librario dei luoghi dove transitò non sembra proprio confermarlo se non dopo il crinale del 1280 (anche se poi non conferma alcuna linea concettuale semanticamente determinata) (V. De Fraja, Le prime fonti di Gioacchino da Fiore. Libri e intellettuali nel Regno di Sicilia, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», 116, 2014, pp. 93-129), ma sono quei testi che promanano la stessa pericolosa vertigine di certi passaggi gioachimiani. Lo abbiamo già detto, lasciamo perdere la ricognizione delle analisi presunte o reali che promanano dai tribunali dell’epoca: i giudici medievali che si interrogano sulla conformità di un autore al deposito della fede, non fanno tanto opera di intellettualismo teologico, quanto opera di normatività sociale. Resta il fatto che collidere alla fine del XII secolo con l’approccio di Pietro Lombardo significa collidere con la massima espressione della filosofia cristiana del Medioevo, l’incipiente Scolastica. La Trinità, con la sua formidabile sfida al principio di contraddizione, si erige in terreno privilegiato per chi voglia dire l’indicibile: ogni ermeneutica trinitaria oscilla fra il rispetto linguistico del divieto di contraddizione e la banalizzazione della Trinità stessa – «in un senso sono tre, in un altro uno» –, da un lato, e dall’altro il superamento della contraddizione per parlarne solo in termini simbolici, usando un linguaggio che non è più il linguaggio21. La Scolastica scelse di praticare la prima strategia: non-banalizzazione del dogma trinitario e razionalizzazione attraverso l’ermeneutica del linguaggio. Il ‘pensare per figure’ si colloca sulla riva opposta, ed affida all’emblema la custodia del significato trinitario: l’emblema però non ammette una normalizzazione delle interpretazioni che lo riguardano, poiché esprime l’indicibile e l’indicibile non è normalizzabile. Se Pierre Legendre ha caratterizzato il periodo scolastico nel tentativ o di suscitare l’amore verso i censori, i custodi dell’architettura dogmatica della società22, diviene chiaro come porre l’emblema al centro del deposito della fede sia una minaccia terribile all’esistenza stessa del discorso colto religioso. La teologia politica carolingia non può fare a meno dei simboli, ma non si può disegnare la Trinità e pretendere che questo simbolo così vergato sia la verità della Trinità; se le figure di Gioacchino avessero solo valore euristico, ossia «questo disegno rappresenta la mia spiegazione della Trinità e quest’altro disegno rappresenta la tua, che non mi piace», avremmo solo un Gioacchino in rotta di collisione con le coordinate della filosofia cristiana dominante. Ma se avessero ragione quegli interpreti che vedono in quelle figure la verità stessa della Trinità, ossia figure che sono emblemi e simboli, come da noi definiti, con pretesa di discriminare il vero dal falso, allora Gioacchino sarebbe in rotta di collisione non solo con la Scolastica, bensì con la stessa geo-cultura cristiana dell’Occidente latino. Così lo inquadra Voegelin, in rottura con la filosofia della storia agostiniana, facendolo propugnatore del simbolo del Terzo Regno, età del compimento, del simbolo del leader, il dux che trascina nell’età del compimento e sostituisce la figura di Cristo (E. Voegelin, History of Political Ideas. II The Middle Ages to Aquinas, p. 132), del simbolo del profeta, del simbolo della comunità di persone spiritualmente autonome (Id., Science, Politics, and Gnosticism, II Ersatz Religion, in Modernity without Restraint, pp. 304-308). Può essere un eccellente motivo per amarlo oppure per detestarlo, e la sua propensione per lo stile eremitico è indicativo del luogo da lui occupato nel flusso della cultura latina dominante della sua epoca e di quelle successive.

La scelta eremitica di Gioacchino è ribadita dal suo rifiuto di associare la sua comunità a un qualche monastero da rivitalizzare, come gli proponevano le istituzioni politiche dell’epoca: egli preferisce dare vita ad una nuova comunità, distinta simbolicamente dalle comunità religiose già esistenti, non disdegnando di entrare in conflitti di matrice giuridico-feudale sull’uso delle terre con altre comunità religiose, conflitti normativi che dissimulavano anche conflitti culturali e di sensibilità religiosa. Fu papa Celestino III ad approvare l’istituzione di una nuova comunità monastica, la Congregazione florense, nell’agosto del 1196, una comunità spinta dallo specifico afflato escatologico del suo fondatore che la diresse sino all’anno della sua morte, il 30 marzo 1202, in località San Martino di Canale presso Pietrafitta, comunità che sotto il suo successore Matteo conobbe una proliferazione di possedimenti nell’Italia meridionale ed in altre parti d’Europa che sembrano indicare una normalizzazione rispetto alla tensione eremitica di Gioacchino, tanto che nel 1570 la congregazione perse anche formalmente ogni autonomia per riconfluire nella galassia cistercense da cui il fondatore aveva voluto differenziarla, secondo un progetto che è stato qualificato di moltiplicazione dei carismi e che sembra essere stato abbandonato quasi subito dopo la sua morte (V. De Fraja, Oltre Cîteaux. Gioacchino da Fiore e l’Ordine florense, Roma, Viella, 2006, cap. IV): Russo racconta con enfasi come il nostro abate del monastero divenuto cistercense di Corazzo insieme al suo confratello Raniero da Ponza nel 1189 si rifugia prima a Petralata, poi in Sila, ad Albaneto sulla confluenza del fiume Albo con il fiume Neto, da cui poi l’Archicenobio a S. Giovanni in Fiore. A dispetto della preferenza di papa Innocenzo III verso i Florensi nelle dispute normative che li opponevano contro comunità Basiliane e Cistercensi, resta il fatto che l’Ordine fu sempre osteggiato dalle realtà locali, come si esprime un interprete “in quel fervore di rinascita basiliana che, trascorsi i primi eccessi di latinizzazione, seguirono immediatamente alla conquista normanna”, sino alla sua scomparsa di fatto due secoli dopo che precede quella giuridica23.

3.

Che cosa accadde in Terrasanta a Gioacchino, che cosa accadde sul monte Tabor? Nel resoconto che si è voluto immaginare di questa esperienza, cronologicamente avvenuta o meno poco rileva, si gioca molto a livello simbolico dell’interpretazione che si voglia annettere al suo pensiero, un pensiero che alcuni apologeti contemporanei dell’abate si trovano a voler contestualizzare rigidamente nella sua epoca, per evitare di dare corpo a quella genealogia filosofica che il cardinale Henri de Lubac ha tracciato da Gioacchino alle utopie politiche ottocentesche (H. de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Paris, Lethielleux, 1981). Sono emblematiche le parole di Fabio Troncarelli, che difende Gioacchino dal rimprovero di avere “generato Hegel o Marx”, un’osservazione del tutto pregnante, e che sfonda una porta aperta, dato che una genealogia di pensiero non è una genealogia generazionale; meno convincente è affermare che de Lubac sia fuori bersaglio quando attribuisce a Gioacchino un ruolo di capostipite in una linea di pensiero, che non è una dottrina, bensì una famiglia di dottrine (rinvio al volume di C. O’ Regan di cui si può scorrere l’indice dei nomi per l’icona gioachimita: Gnostic Return in Modernity, Albany,  State university of New York Press, 2001), con l’argomento per cui ogni pensatore è un capostipite (F. Troncarelli, Gioacchino da Fiore, pp. 57-58), un argomento che taglia le gambe ad ogni tentativo di storia delle idee non-atomistico. L’idea che lo scritto trinitario anti-lombardiano sia l’espressione di una riflessione teologica immatura è difesa da Manselli, «una più precisa sensibilità teologica [...] avrebbe dovuto far notare come Gioacchino rimanga sempre al limite, del resto difficile a precisarsi, fra ortodossia ed eterodossia» (R. Manselli, Rassegna di studi gioachimiti, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 28, 1959, pp. 117-123, poi raccolto in R. Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, cit., pp. 19-20). Il resoconto che ci viene dato della sua esperienza sul monte Tabor è importante perché ci permette di comprendere se Gioacchino sia assimilato dal narratore a quelli che nel XVII secolo saranno chiamati “illuminati”: ancora di più che ad analisi di contestualizzazione storica di un determinato pensatore, mi piace rimandare all’analisi della percezione simpatetica che si produce dell’idea di illuminati, dato che questo livello è quello pertinente per comprendere l’icona gioachimita attraverso i secoli (P.-A. Taguieff, La foire aux Illuminés. Esotérisme, théorie du complot, extrémisme, Paris, Mille et une nuits, 2005, pp. 109-186). La particolarità di un “illuminato” sta nel fatto di avere ricevuto in un tempo cronologicamente ristretto – una notte, pochi istanti in una certa notte – una rivelazione privata da parte di Dio che gli permette poi di ricomprendere le sacre scritture senza avere ricorso ad alcuna mediazione, né normativa, né epistemologica. Bohme – dalla prolissità ‘tsunamica’24 – oppure Swedenborg – al di là della notorietà che Kant conferisce a Swedenborg analizzando i suoi sogni di visionario, può essere interessante vedere quella specie di catechismo di un cristianesimo non-trinitario, e molto altro, che ci ha offerto (J. Williams-Hogan, Swedenborg e le Chiese swedenborgiane, Torino, Elledici, 2004. La traduzione inglese del suo ‘catechismo’ è: E. Swedenborg, The True Christian Religion, Containing the Universal Theology of the New Chrurch, foretold b y the Lord in Daniel VII. 13, 14; and in Revelation XXI. 1, 2, Philadelphia, American Swedenborg printing and publishing society, 1887. L’originale latino suona: Id., Vera Cristiana religio, continens universam theologiam Novae Ecclesiae a Domino apud Danielem cap. VII: 13-14, et in Apocalypsi cap. XXI: 1, 2 praedicatae, Amsterdam, 1771) – sono dei classici esempi di illuminati, campioni del pensiero esoterico e di una rilettura del cristianesimo che non è né cattolica, né protestante (A. Doninelli, In attesa della ‘Terza Età dello Spirito’. Confluenza di temi gioachimiti e tradizione islamica tramite Jakob Böhme nel millenarismo esoterico tra ’800 e ’900, «Florensia», 18-19, 2004-2005, pp. 59-67; H. Corbin, “Mundus imaginalis”, e “Herméneutique spirituelle comparée”, in Face de Dieu, face de l’homme, a cura di H. Corbin, Paris, Flammarion, 1983). Chi ci racconta la vita di Gioacchino, nei vari secoli che seguono la sua morte, ci parla di un contatto con Dio sul Monte Tabor, ma ci parla anche di successive illuminazioni e visioni che costellano la sua vita: se la retorica del narratore pone sullo stesso livello le varie visioni, siamo di fronte al resoconto di un’esperienza mistica non dissimile da tante che vengono narrate nell’agiografia medievale; al contrario, se la retorica del narratore insiste sulla preminenza di una visione che può essere detta non solo una illuminazione, bensì l’Illuminazione, allora siamo di fronte ad una occorrenza del paradigma degli illuminati seicenteschi. Con questo linguaggio simbolico, che non è una dottrina particolare, bensì una cornice di possibili dottrine, si gioca l’appartenenza di Gioacchino al cristianesimo essoterico, con le sfumature sue proprie che lo differenziano da altri pensatori cattolici oppure protestanti, oppure la sua appartenenza al cristianesimo esoterico, quello che Voegelin per il Medioevo (ed oltre) chiama lo gnosticismo politico, all’interno di una visione della storia che rifiuta l’immanenza a favore della trascendenza del Dio trinitario25. E tutto questo senza cedere alle troppe ovvie suggestioni di vedere nelle profezie gioachimite un impulso alla devozione popolare, come avrebbe voluto Tondelli per il movimento dei flagellanti del 1260, tesi ricondotta nella sua dimensione meramente suggestiva da Manselli (R. Manselli, L’anno 1260 fu anno gioachimitico?, raccolto in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 34-35), che peraltro rifugge dall’idea che la Terza Età dello Spirito sia una nuova Rivelazione, tesi fatta propria in senso apologetico dal modernismo cattolico, quanto piuttosto l’età del trionfo del monachesimo rinnovato (Id., L’attesa dell’età nuova ed il gioachimismo, poi raccolto in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 38-40).

Tutto mi pare si giochi intorno a questa dimensione dell’Illuminazione o delle illuminazioni, anche il rifiuto appassionato del dantista Michele Barbi di vedere in Dante influenze gioachimite26, di quella drammatizzazione oliviana tra la vera Ecclesia spiritualis, anomica, e la secolare Ecclesia carnalis, normativista e calata nel mondo (R. Manselli, Firenze nel Trecento: Santa Croce e la cultura francescana, «Clio», 9, 1973, pp. 325-342, poi in R. Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 257-273, 261). Voegelin dice a mio parere con equilibrio che le visioni dantesche di Purgatorio, 29-33, sono toccate dalla tesi gioachimita della distinzione tra chiesa feudale corrotta e chiesa spirituale povera; dall’altra tesi gioachimita per cui il periodo di ingiustizia avrà come seguito una chiesa purificata e la venuta di un salvatore; ma al tempo stesso il contesto politico imperiale di Dante ci porta lontani dalle tematiche gioachimite, che in nessun momento si pone la questione di costruire una rete simbolica della narrazione imperiale, il cuore invece del problema dantesco (K. Voegelin, History of Political Ideas. III The Later Middle Ages, pp. 79-80). Non si deve comunque sottostimare che se la Terza Età può essere letta come una nuova Rivelazione, e certamente le letture in tal senso sono quelle che più sollecitano l’immaginario dell’uditorio, altrettanto è lecito negare che si tratti di una nuova Rivelazione, sino a identificare con Maria la Terza Età, alla quale compete un ruolo sponsale con cui sintetizza e sublima il ruolo della Chiesa sposa (G. Silvestre, Sacramento delle nozze e nuova evangelizzazione, Cosenza, Editoriale progetto 2000, 2005, p. 95). In questa contrapposizione concettuale, che quest’ultima sia o no la lettura meglio calata storicamente nell’esegesi dei testi di Gioacchino, in fondo non è rilevante: la stessa lettura alternativa della Terza Età come nuova Rivelazione è ben più debitrice della farina del sacco degli interpreti che non dello stesso Gioacchino, cosa che mi pare autorizzi un confronto interpretativo nel meta-linguaggio dell’interprete piuttosto che nel linguaggio oggetto dell’autore esaminato.

Resta il fatto che un paio di generazioni dopo Gioacchino da Fiore, san Bonaventura, ministro generale dell’Ordine dei frati minori, esalterà il cristocentrismo sino ad affermare esplicitamente che senza Cristo non ci si può occupare né di matematica, né di diritto, e che la logica senza Cristo è la scienza per eccellenza del demonio – così afferma in una delle sue ultime analisi, un discorso pronunciato di fronte ai suoi confratelli, raccolto tra le Collationes in Hexameron come il primo di questi discorsi. Angelo Clareno vedrà in san Bonaventura un aggressore dei gioachimiti all’interno dell’Ordine, in particolare Giovanni da Parma. Resta il fatto che se questo bonaventuriano è certo un discorso cristocentrico radicale, la Tradizione cristiana si forma attraverso san Bonaventura. Ma in Gioacchino vi è almeno una cristocentrismo standard rispetto alla tradizione cristiana? Henry Mottu, che pure si sforza di offrire un ritratto apologetico dell’abate calabrese, non può che rispondere no, come abbiamo già visto. Se cercassimo una risoluzione razionalista al problema del rapporto tra il Figlio Incarnato e la terza persona trinitaria, le parole della rivelazione e la concretizzazione nella storia della fede cristiana, ed ancora tra la dimensione paradossale della gratuità della grazia e del perdono nella dimensione della giustizia divina da un lato, e la inevitabile proceduralità ricorsiva della giustizia umana dall’altro, forse potremmo diradare le nebbie sulla teologia gioachimita, ma al tempo stesso mineremmo quel fascino impalpabile che il suo discorso, al di fuori esattamente di questo tentativo razionalistico, ha esercitato per secoli. A ciascuno poi il giudizio della accettabilità di questo fascino impalpabile (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 291). Altri interpreti filo-gioachimiti preferiscono trattare altri temi piuttosto che negare il docetismo gioachimita27: riprendiamo ancora Henry Mottu, in Gioacchino da Fiore troviamo esaltata l’umiltà di Cristo, perché «è innanzi tutto nella sua ermeneutica che Gioacchino non è cristocentrico» (ivi, p. 86)28, in un quadro per cui «la Chiesa spirituale dell’avvenire è una Chiesa senza Scrittura» (ivi, p. 87). «Non sono al centro del pensiero gioachimita né la risurrezione, né l’esaltazione e neppure la Croce, in quanto la crocifissione di Cristo è la realizzazione unica, definitiva e piena della salvezza [...] la riflessione di Gioacchino si limita all’umiliazione di Cristo e sembra ignorare il suo dominio su tutte le cose» (ivi, p. 171). In termini esegetici, i riferimenti alla lettera paolina ai Filippesi, 2,6-7, sono compiuti senza prendere in considerazione anche i successivi versetti 8-11: la prospettiva agostiniana di Cristo come nodo centrale della storia non è più proponibile nell’universo del discorso di Gioacchino. L’omissione è inquietante perché anche la vergine Ifigenia è umile nell’accettare la sua sorte di capro espiatorio al fine di permettere che i venti soffino per smuovere la flotta greca, ma la Redenzione si compie nell’istante della morte, prima è preparata, con cura certo attraverso lo svelamento delle cose nascoste dall’origine del mondo, e con il trionfo della Croce si dischiude. Non è l’esaltazione dell’umiltà di Cristo che è originale nell’analisi del suo messaggio, essa si ritrova in tanti altri autori, lo è invece il silenzio sul compimento che avviene sulla Croce. Questo permette di dare più forza storica all’idea di un’età successiva a quella di Cristo, l’età del Paraclito, ma lascia irrisolto il nodo del circolo mimetico, che nella lettura di René Girard sarebbe invece car atterizzato come intollerabile dal messaggio cristiano. La sola umiltà, per quanto grandissima e grandiosa, non è capace di opporsi al circolo mimetico: l’umiltà predispone alla misericordia divina, misura della remunerazione divina. L’idea che la giustizia divina si amministri in base alla misericordia, non già sulla falsariga di rigide regole di giustizia, anticipa la filosofia dell’amore divino francescana, tuttavia Gioacchino sottolinea che questo vale soprattutto per il giusto, mentre il malvagio si auto-condanna29. Ora, al capro espiatorio la logica del circolo mimetico chiede proprio l’umiltà di accettare che uno solo muoia per il bene di tutti: non dobbiamo fissare la nostra attenzione sulla giustizia e sulla consolazione, bensì sull’abiectio e sull’afflictio, dato che da esse si genera l’humilitatem, «quam solam requirit virtutem Deus in angelis et ho minibus» (G. da Fiore, Dialoghi sulla prescienza, cit., pp. 42-43). In Gioacchino cade la complessità cristologica che si ritrova in tanti Padri della Chiesa: Lattanzio, per esempio, nella sua Epitome esalta l’umiltà di Cristo, osservando che nella morte di Croce non si conserva nessuna dignità, Cristo muore miseramente perché tutti gli umili possano seguirlo nella sua morte, e la Croce lo innalza (46, 1-7). In Lattanzio humilissumus riecheggia ancora la discriminazione sociale di fronte ai tribunali, per cui l’uomo humilissimus si oppone all’uomo honestius, i quali, indipendentemente dalle loro qualità morali personali, per il fatto della nascita e dell’appartenenza alle classi sociali, saranno soggetti a diverse regole giuridiche (Lattanzio, Epitomé des Institutions divines, éd. par M. Perrin, Paris,  Les éditions du Cerf, 1987, pp. 182-183). In Gioacchino la dimensione dell’umiltà è schiettamente morale, con una valenza monastica non facilmente fissabile al di fuori di un qualche riferimento alle inclinazioni docetiste del mondo cristiano bizantino (G. da Fiore, Dialoghi sulla prescienza, cit., pp. 90-91)30, sino ad annullare la valenza normativa di una condotta del Cristo che rifiuta radicalmente le regole del circolo mimetico, ossia rifiuta sia di essere vittima, sia di essere persecutore. Come dice Lattanzio, il segno della Passione è capace di cacciare i demoni. E quando in Gioacchino l’umiltà non ha una dimensione schiettamente morale (ivi, pp. 44-47), l’umiliato è colui che soffre oggettivamente la persecuzione a causa di un altro, è per esempio un povero involontario (per usare categorie marxiane, ma anche presenti nei commentari al Decreto di Graziano o nel movimento francescano), ma questo basta per predestinarlo agli occhi di Dio. Tuttavia, mentre nelle categorie marxiane il povero dotato della sufficiente coscienza di classe è un potenziale eroe della rivoluzione (senza tale coscienza, è un povero traditore), nelle categorie medievali, analizzate dallo storico delle idee Brian Tierney con efficacia, il povero volontario raggiunge uno stato di valore morale, quello involontario uno stato di potenziale disvalore morale, dato che la mancanza di beni non accettata genera l’avidità (in latino, rapacitas) – ovviamente, il povero involontario che accetta la sua mancanza di beni non è toccato da nessun disvalore morale. Questa lettura “oggettivistica” degli ultimi che saranno i primi non poteva mancare di favorire degli spiriti che si accollavano il compito di realizzare sulla Terra la giustizia divina, e rendere con le armi in pugno gli ultimi primi. Anche questo è la perpetuazione del circolo mimetico, anche se gli “u mili” di Gioacchino attribuiscono ogni cosa buona che fanno al Creatore, mentre gli altri commettono il più grande peccato, l’ingratitudine (“nihil est ita Deo odibile quomodo ingratitudo”) (ivi, pp. 58-59). Sino a qui non si può dire che Gioacchino abbia negato il trionfo della Croce, bensì che nell’economia del suo discorso esso risulti omesso: non lo si può considerare per questo eterodosso, ma certo diverso da tanti altri pensatori cristiani. Non si può dire che egli abbia fatto l’apologia del capro espiatorio, ma nel suo esame della parabola terrena di Cristo manca l’atto finale della condanna di ogni capro espiatorio.

4.

Il mito dell’Evangelo eterno è stato studiato quale nota caratteristica della presenza di Gioacchino da Fiore nella cultura europea (M. Reeves, W. Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, Roma, Viella, 2000; G.L. Potestà, Gioacchino da Fiore nella cultura contemporanea): cosa ha affascinato pensatori tanto diversi quali i filosofi del Romanticismo Tedesco e un poeta come Yeats, tutti analizzati da Reeves e da Gould? Penso che la cosa più ovvia sia di passare a leggere direttamente l’opera appena citata in nota, ma io vorrei suggerire una chiave di lettura che si aggiunge alle poderose analisi di Reeves e Gould. Vediamo l’essenziale del materiale gioachimita che permette di fabbricare il mito dell’Evangelo eterno: lo svolgimento della storia porta impresso il segno della Trinità che vi agisce senza sosta, in omaggio all’idea anti-gnostica per cui Dio opera nella storia; Dio si rivela nella storia – e la Rivelazione è uno dei tre pilastri di un’epistemologia conforme al deposito della fede cattolico (gli altri sono il Magistero e la Tradizione) – e questo avviene secondo tre status, tre stadi che sono anche condizioni diverse, ognuno dei quali è associato ad una delle persone trinitarie, in una progressione che passa dall’età del Padre (pre-evangelica), a quella del Figlio (evangelica), sino a quella dello Spirito Santo (post-evangelica); l’età dello Spirito Santo deve ancora venire, ma un punto delicato – reso spinoso dal linguaggio per figure e non-analitico di Gioacchino – consiste nello stabilire se le età si succedano per superamento oppure per integrazione. Di primo acchito, sembra che esse siano semplicemente strettissimamente correlate, in omaggio alla stessa economia trinitaria, tanto da potere parlare della futura età dello Spirito Santo in base ai dati delle due età precedenti – questo non implica affatto un’idea di Evangelo eterno come di una nuova Scrittura oppure di un superamento della rivelazione dell’età del Figlio, ossia dei vangeli; Gioacchino conferisce all’intellectus spiritualis il compito di stabilire questo passaggio semantico dall’età del Padre – vetero-testamentaria – e dall’età del Figlio – neo-testamentaria – all’età dello Spirito Santo. Quello che è problematico è che nel suo commento ai Vangeli gli uomini spirituali appaiono come i soli e veri rappresentanti di Cristo, mentre i chierici, i dottori, i maestri della Chiesa ufficiale appaiono come usurpatori quando spendono il nome di Cristo, ragione ultima della loro scomparsa a favore dei primi31. Non è un giudizio specifico su una singola posizione di questo chierico, è un giudizio onnicomprensivo; sarebbe stato curioso che la Scolastica osannasse Gioacchino. Al tempo stesso, la teoria stadiale, con le sue ambiguità ad un occhio razionalista e normativo, risulta affascinante per chi razionalista non è e neppure affascinato dalla normatività. Tutto si gioca intorno all’alternativa tra lettura allegorica e lettura esoterica basata sui simboli: se le tre età gioachimite sono lette in chiave allegorica, allora l’allegoria ci fa conoscere in maniera efficace ciò che possiamo conoscere in altro modo, muovendoci sullo stesso piano, per esempio possiamo conoscere linguisticamente e razionalmente; se invece esse sono suscettibili solo di lettura esoterica basata sui simboli, allora tutto cambia, poiché il simbolo esoterico, secondo una linea che va da René Guénon a Henri Corbin e oltre – peraltro segnata dalla fascinazione verso l’esoterismo musulmano –,  annuncia un nuovo livello di coscienza diverso dall’evidenza razionale, ossia vuole dire l’indicibile, vuole con le parole, ed in ultima istanza con le figure, dire ci ò che il linguaggio non può dire. Prendiamo un testo celebre del Tractatus gioachimiano: “secondo l’intelletto spirituale, possiamo assegnare gli stessi quattro Vangeli a quattro periodi. Nel Vangelo di Matteo, che incomincia da Abramo, ritroviamo tutta la divina pagina dell’Antico Testamento, la quale annunciava che il salvatore del mondo sarebbe nato dal seme di David e di Abramo secondo la carne; nel Vangelo di Luca, che tratta dell’infanzia e della crescita di Cristo fino ai dodici anni, ritroviamo la dottrina della Chiesa appena nata, la quale, muovendo da Giovanni Battista, come per intervalli di tempo, andò accrescendosi fino ai nostri tempi, secondo il passo di Daniele, ‘molti passeranno e la scienza aumenterà’ (Dn 12,4); nel Vangelo di Marco, nel quale si tratta della piena maturità di Cristo, cioè del tempo della sua predicazione, ritroviamo la dottrina spirituale, di cui dice l’Apostolo, ‘parliamo della sapienza tra i perfetti’ (1 Cor. 2,6), la quale dottrina spirituale, cominciando nel tempo in cui sarà prossimo Elia, permarrà sino alla fine dei tempi; nel Vangelo di Giovanni ritroviamo quella sapienza ineffabile, che sarà nel tempo a venire, quando lo vedremo così come Egli è secondo quanto dice Paolo, «in questo momento vediamo attraverso uno specchio in enigma, allora vedremo faccia a faccia» (1 Cor 13,12)” (G. da Fiore, Trattati sui quattro Vangeli, Roma, Viella, 1999, pp. 5-6)32. Se la lettura è allegorica, senza nessuna pretesa di soppiantare gli schemi razionali della lettura esegetica consolidata, nessun problema; ma se si è mosso da un intento più o meno esoterico di cogliere significati indicibili nel discorso razionale, allora possono emergere punti problematici e fortemente originali: l’origine del Cristianesimo potrebbe essere intesa in Giovanni Battista; Cristo sembra distinguersi in un’epoca in cui è bambino e in un’altra e successiva epoca in cui è pienamente maturo, quasi ci fosse un Cristo in divenire. Non ci dice Gioacchino come vada letto il suo testo, non ci fornisce le istruzioni per l’uso, è comunque certo che molti hanno preteso e voluto usarlo in senso esoterico, con conseguente devianza (voluta) dal deposito della fede cattolica.

La lettura spirituale di un testo non può essere considerata problematica in un contesto cattolico, basti pensare all’opposizione tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale, e tuttavia lo può divenire se la lettura spirituale è intesa in senso anomico, ossia contrapposta ad una lettura normativista, quindi tale da mettere in discussione l’identità dogmatica della Sede apostolica. Gioacchino procede piuttosto con una profonda ispirazione verso le parole di Gesù che non supera la legge antica, bensì la porta a compimento: l’autorità del testo biblico non viene alterata, solo che attraverso la comprensione spirituale che da essi procede il loro significato sarà pienamente realizzato nella nuova età. Escludendo la possibilità di un nuovo corpus sacro ad integrare il canonico, Gioacchino incarna la figura di un «rivoluzionario conservatore» (M. Reeves, W. Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, cit., p. 8) che assegna agli ordini monastici contemplativi il ruolo di condurre la Chiesa verso la sua età finale. Se si fosse dato ascolto a questa idea, in un mondo medievale in cui già con Papa Innocenzo III ci si getta alle spalle lo slancio degli ordini monastici militari e si apre rapidamente agli ordini mendicanti tipicamente urbani, il valore profetico del pensiero gioachimita non si sarebbe impelagato nelle more della previsione storica. Dico le more della previsione storica poiché nella Tradizione cristiana – almeno quella pre-riformata – la profezia non può essere assimilata ad una previsione storica, forma di devianza ereticale poiché la contingenza radicale del mondo esclude ogni previsione storica determinata, esattamente come esclude la liceità dell’astrologia: Thomas Münzer alla guida della rivolta dei contadini romperà con questa tradizione, facendo della lettura dell’Antico Testamento una descrizione degli avvenimenti del futuro immediato, ma non bisogna dimenticare che nello stesso pensiero riformato Münzer, trascinatore della rivolta dei contadini nel 1524 sino al massacro finale, non godette dei favori di Lutero proprio perché negatore di ogni forma di teologia politica non-secolarizzata. Engels inaugurerà il filone marxiano che vedrà nella guerra dei contadini e nel suo apostolo Münzer l’epopea di una nuova escatologia politica secolarizzata, che per ironia della storia verrà radicata nel chiliasmo di Gioacchino (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito, cit., pp. 34 e 268-272): «Gioacchino è il teste esemplare della resistenza secolare dell’apocalittica ad ogni opera di riduzione del futuro all’‘aldilà’» (ivi, p. 242). Ed ancora Mottu, «il grande enigma storico dell’opera autentica di Gioacchino sta nel saper perché questo ‘sistema’, così medievale e monastico, abbia potuto servire da cauzione a movimenti protestatari così diversi nella storia. Dopo la ventata gioachimita infatti, il mondo occidentale non diverrà un immenso monastero, come se la storia potesse tornare indietro, ma prenderà invece sempre più coscienza della sua storicità. La speranza concreta di Gioacchino non stette al passo della sua teologia della storia e, mentre egli poneva la sua riforma all’insegna di un ritorno all’eremitismo primitivo, il suo ‘nuovo sistema profetico’ doveva invece provocare gli spiriti, le mentalità e le istituzioni a anticipare il futuro» (ivi, p. 272). Il tempo dello Spirito si manifesterà in una trascendenza ideologica rispetto ad ogni previsione concreta, detto altrimenti forgerà un apparato inossidabile rivolto verso il futuro.

Insomma, l’impeto profetico di Gioacchino venne trasmesso dimenticando il suo apparato conservatore, ed ecco che l’elemento rivoluzionario, non più contenuto dall’aggancio solido al presente per produrre una semantica edificante – e non già proteso ad una aleatoria previsione del futuro –, dilaga sino a configurare l’Evangelo eterno come nuovo corpus produttore di significato salvifico. Gerardo di Borgo San Donnino è la figura storica che si fa carico però di una icona dello spirito: egli attende un nuovo testo sacro, con una nuova rivelazione, e sta così per tutti i futuri cristiani anomisti, e fornisce loro un materiale gioachimita, a dispetto delle intenzioni di Gioacchino stesso. Senza dimenticare il fondamentale commento In Hieremiam, liberamente ispirato all’opera di Gioacchino, che ne esaspera però drasticamente l’aggancio alla contemporaneità storica, usando parole molto più esplicite per esaltare il ruolo dei monaci nella Terza età, inserendovi la figura dei nuovi Ordini mendicanti, ed i francescani in particolari – Gioacchino era già morto quando l’Ordine minoritico nacque –, e la dannazione della memoria di Federico II, assimilata alla via verso l’Anticristo. Hames in questo contesto mostra l’esistenza di una presenza culturale ebraica in Calabria senza i voli pindarici di padre Russo: il kabbalista Abraham Abulafia gioca un ruolo non trascurabile nella formazione dell’icona gioachimita attraverso la lettura anomistica degli Spirituali francescani, e se non è necessario ipotizzare un’influenza del misticismo ebraico su Gioacchino, Hames mostra che nella geo-cultura calabrese gioachimismo e kabbalismo si coniugano come nel caso di Abraham Abulafia, in una dialettica che non passa attraverso i casi di ebrei convertiti al cristianesimo come il celebre Pietro Alfonsi, che ebbe contatti con Gioacchino stesso (H.J. Hames, Like Angels on Jacob’s Ladder, Albany, SUNY Press, 2007, pp. 18-19. Si vedano almeno le conclusioni alle pp. 102-107). L’opera In Hieremiam che configura l’icona deviante gioachimita viene perfezionata nell’ambiente cistercense-florense e nell’ambiente francescano calabresi, a partire dall’originale del 1244 sino all’impiego del testo da parte di Salimbene da Parma negli anni ’80 del XIII secolo, quel Salimbene da Parma cronachista che ci è prezioso perché dipinge la sua stessa parabola come quella di un gioachimita pentito. Moynihan sottolinea come la versione lunga di origine francescana mostra le più pesanti modifiche rispetto a quello che poteva essere il nucleo di Gioacchino stesso33. Il fatto che il gioachimismo dissidente si forgia con scritti liberamente ispirati a Gioacchino (sui metodi retorici di questa produzione letteraria: V. De Fraja, Usi politici della profezia gioachimita, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», 25, 1999, pp. 375-400), e forgiati da francescani del movimento degli Spirituali installati in Calabria, mostra che si dà una specificità geo-culturale nello scontro più generale tra anime del francescanesimo che è in corso in quegli anni. E questa specificità si arricchisce anche delle pulsioni esoteriche di tecniche di origine kabbalistica come la decifrazione del significato recondito delle singole lettere dei nomi, una pulsione che si traduce nello scritto pseudo-gioachimita De semina scripturarum, scritto che Arnaldo da Villanova riterrà della mano di Gioacchino ed a cui apporrà una sua introduzione (R. Manselli, La religiosità d’Arnaldo da Villanova, cit., pp. 15-16), e che userà come fonte principale anche per la sua Allocutio super significatione nominis tetragammaton34dal sapore inequivocabilmente kabbalistico. In fondo, tutti gli autori analizzati da Reeves e Gould hanno la stessa cosa in comune con Gerardo e gli Spirituali francescani, sono degli anomisti. Cosa intendo dire?

Se la Rivelazione si presenta come un corpus di testi sintattici, la Tradizione ed il Magistero si presenta come testi prodotti a partire da operazioni di interpretazione sui testi della Rivelazione: il racconto delle tre età trinitarie di Gioacchino non è problematico per l’identità stessa della chiesa cattolica nella misura in cui non mette in discussione il fatto che qualunque operazione interpretativa deve partire da quei testi codificati e canonici. Non è solo questo un requisito per riconoscersi nell’identità cattolica, poiché la formazione della Tradizione e del Magistero è un processo di discriminazione tra interpretazioni accettabili, interpretazioni inaccettabili ed infine interpretazioni esclusive di altre. Sostenere che le Scritture sono soggette ad interpretazione privata significa rinunciare al Magistero ed alla Tradizione, un’operazione tipica non tanto del pensiero riformato, quanto della forma parcellizzata che lo stesso pensiero riformato a volte assume; ma sostenere che la Rivelazione è aperta, che c’è lo spazio per aprire un Evangelo eterno, questa è un’opzione incompatibile con un’identità dogmatica costituita a partire da una testo dato, proprio perché se il testo non è dato una volta per tutte – ed è invece variabile – il dinamismo del significato non è offerto dalle operazioni interpretative – che operano sempre sullo stesso testo – bensì dal mutamento del testo. Se ha ragione Pierre Legendre, ossia se la civiltà latina occidentale è un monumento romano-canonico, ossia una civiltà dell’interpretazione (P. Legendre, L’autre Bible de l’Occident: le Monument Romano-canonique, Paris, Fayard, 2009), la lettura di Gioacchino, deviante rispetto al paradigma dominante, diviene iconica per tutti i contestatori della natura normativista della civiltà latina occidentale. Non è tanto in specifiche operazioni esegetiche sul Testo sacro, quanto in questa struttura mentale che si cela l’interesse per il pensiero gioachimita: mentre le prime in fondo sollecitano l’interesse di chi presta una qualche fede al deposito della fede cristiano, la seconda è una matrice di una cultura e di una civiltà in generale. L’Evangelo eterno è un tradimento delle intenzioni di Gioacchino, ma dietro l’affabulazione intorno alle età trinitarie della storia vi è la tentazione anomica rispetto alla tradizione normativa che congiunge l’eredità romanistica e quella giudaico-cristiana.

5.

Gioacchino da Fiore avanza in coppia con Rabano Mauro nel IV canto del Paradiso di Dante35: secondo una lettura assai persuasiva che devo a Giulio d’Onofrio, ciò che li accomuna nella semantica poetica di Dante è il loro parlare per figure, il loro strabismo per un discorso del simbolo e dell’allegoria, che per Rabano, uomo dell’epoca carolingia ed autore del celebre inno Veni Creator, culmina nel Liber de laudibus Sanctae Crucis, da lui offerto al regnante Ludovico il Pio. Si veda la celebre iconografia associata nella vecchia edizione della Patrologia Latina; l’opera è costituita da figure in cui su uno sfondo di lettere che configurano un testo si disegna un’immagine geometrica oppure figurativa, e poi dalla spiegazione della figura cui segue una lunga didascalia in cui si separa il testo di lettere in continuo che fa da sfondo, ed una spiegazione dell’immagine36. Ludovico il Pio, rappresentato come miles christianus, è in piedi con una croce nella destra e uno scudo nella sinistra, sotto la corazza pettorale porta un chitone che arriva fino alle ginocchia, e sul nimbo la serie di lettere, che si inscrivono in esso, forma la frase: «Tu Cristo, incorona Luigi», mentre quelle che si inscrivono nella croce formano la frase: «Nel segno della tua Croce regni, o Cristo, che sei la vittoria e la vera salvezza secondo l’ordine». Eppure qualcosa mi sembra anche dividerli: certo ha ragione d’Onofrio quando sottolinea la loro propensione al parlare per figure, ma la normatività simbolica non è la stessa cosa dell’anomia simbolica, anche se sembra di un discorso per figure si tratta. Rabano Mauro fu una delle teste pensanti che legittimarono la teologia politica di Carlo Magno, innervata su una profonda tensione vero l’azione nomotetica in campo liturgico, quindi Rabano Mauro fu uomo del Mistero e del Simbolo, termini chiave del sacramento eucaristico, ma fu anche uomo della normatività che li fa manifestare nello spazio liturgico della messa. Possiamo dire altrettanto di Gioacchino da Fiore? A me pare di no, data la cattiva stampa di cui oggi gode la teologia politica è forse solo un motivo di merito sottolineare che Gioacchino sembra non averne alcuna; ma per lo storico delle idee è giocoforza osservare che tra Rabano Mauro e Gioacchino da Fiore vi è un divario di clima geo-culturale enorme. Si pensi ad un figura come quella di Barlaam Calabro ancora nel XIV secolo, troppo latino per i teologi bizantini, troppo greco per i teologici latini scolastici, segno vivente di una geo-cultura specifica della Calabria – su questa falsariga si può comprendere la sua polemica contro gli esicasti, connotati come dediti a «pratiche del più dozzinale realismo» e ad un «detestabile materialismo», mostrando una lontananza dall’idea di una pratica razionalizzabile dell’esperienza mistico-religioso, ed in senso inverso le accuse a Barlaam di preferire Platone ed Aristotele ai Padri della Chiesa, ossia la filosofia al deposito della fede che i Padri consolidano nella dimensione della Tradizione: «egli nacque scismatico e vi restò fino al 1342, cioè fino a quando si convertì alla Chiesa Cattolica. Abiurò una sola volta e soltanto i principi scismatici» (G. Schirò, Un documento inedito sulla fede di Barlaam Calabro, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, 155-166, p. 166. Barlaam appare come uomo schiacciato tra due mondi: ivi, p. 157). Dobbiamo peraltro considerare che nel secolo XIII, quello successivo alla morte di Gioacchino, la teologia politica cattolica raggiungerà le sue derivazioni più radicali, non solo nelle pagine teocratiche di canonisti come Enrico di Susa, cardinale di Ostia, ma pure nel sogno teocratico di Bonifacio VIII, un pap a che Agostino Paravicini Bagliani ha riscattato da una ingiusta leggenda nera (A. Paravacini Bagliani, Boniface VIII, Paris, Payot, 2003), alimentata proprio dal poeta Dante. Mi pare difficile che Dante, le cui posizioni politiche sono state ben inquadrate da Gilson in pagine dense ed efficaci (E. Gilson, Le metamorfosi della Città di Dio, Firenze, Cantagalli, 2010. Il testo originale francese deriva dalle lezioni che Gilson tenne all’Université de Louvain nel 1952), potesse simpatizzare per il Rabano Mauro della teologia politica carolingia: più probabile è che l’andare a braccetto con Gioacchino fornisca quarti di nobiltà a quest’ultimo, senza però che Dante defletta dalla sua ammirazione per chi non amò mai il diritto canonico ed eventualmente deprecasse ogni implicazione della Sede apostolica nella produzione di diritto.

Se vogliamo cercare di tirare le fila sulla dimensione del simbolo che si pone come alternativa alla capacità significante del linguaggio, il punto su cui si gioca la problematicità del pensiero gioachimita, dobbiamo cercare di porre il problema in termini concettuali minimamente lineari. Il simbolo occupa un posto di rilievo nella tradizione latina cristiana, ed in senso generale gli si deve assegnare quella funzione che Pierre Legendre, sulla scorta di Lacan, attribuisce all’emblema, termine calcato dal greco emballô, e che trova il corrispettivo nell’uso latino37, soprattutto a partire dal IX secolo con Giovanni Scoto Eriugena, di un’altra parola greca, il simbolo – i symbola, ossia le due metà di un osso oppure di una moneta che in mano a due persone distinte permettono loro di riconoscersi quando si incontrano (P. Legendre, Le désir politique de Dieu, p. 89)38. Per comprendere la problematica gioachimiana occorre integrare e superare la prospettiva tradizionale (G. Ladner, Medieval and Modern Understanding of Symbolism. A Comparaison, «Speculum», 54, 1979, pp. 223-256), per accedere ad una prospettiva di antropologia lacaniana attraverso la quale intendere il simbolismo prima come ausilio di significato, ed è la prospettiva tradizionale, poi come immagine o evocazione nel linguaggio capace di fare a meno di ogni spiegazione linguistica. Lo scopo ultimo è dire l’indicibile, ossia di porsi al di fuori del linguaggio e della sua limitazione semantica costituita dal principio di contraddizione, senza però rinunciare ad essere carichi di significato (P. Legendre, La 901e conclusion, cit., p. 224)39, per esplorare quella parte costitutiva della natura umana che Pierre Legendre in una prospettiva lacaniana chiama l’Abisso40, il nostro inconscio, sino ad approdare a concezioni per cui il simbolo o l’emblema manifestano quel significato che il linguaggio non riesce ad esprimere.

In questo senso proprio, un tentativo di dire l’indicibile è più di una qualche forma di teologia negativa, esso è esattamente dire-(non-linguisticamente, con o senza il linguaggio) ciò che il linguaggio non può dire. Del resto, la lettura che Timothy Knepper opera sullo Pseudo-Dionigi, autore tanto importante non solo per il pensiero medievale bensì anche per quello rinascimentale e successivo, indica proprio che la teologia negativa non può essere confinata in una dimensione meramente negativa, quella veicolata in greco dal termine tradizionale apóphasis, essa si integra invece nella dimensione ampliativa di un’altra e concorrente negazione, quella aphaíresis che da astrazione aristotelica diviene, passando per Plotino, un potente strumento della teologia negativa (oltre a numerosi articoli, si può vedere la monografia: T.D. Knepper, Negating Negation, Eugene OR, Cascade Books, 2014). In questo nuovo scenario del discorso razionale, che tanto mi pare abbia segnato la transizione dal tardo Medioevo sino alla filosofia moderna consacrata da Descartes, il simbolo trova la sua funzione eminente e la sua capacità di manifestare la differenza tra apóphasis e aphaíresis. Se in un’ottica razionalista questo approccio all’emblema può essere qualificato come potenzialmente pericoloso per le relazioni ordinate tra gli esseri umani, per altro verso  è semplicemente inevitabile, qualunque sia poi il nostro giudizio di valore, politico, morale, sociale: l’Enigma è il non-conosciuto, il non-conoscibile, su cui si fonda la possibilità stessa della sfera umana.

L’enigma è qualcosa che non può essere detto, l’indicibile, dal verbo greco ainissomai, ma può essere evocato sebbene solo e soltanto oscuramente (P. Legendre, Le désir politique de Dieu, cit., p. 134). Non si tratta di un punto marginale, al contrario: non è neppure necessario evocare la storia di Edipo e dell’enigma della Sfinge, da sphiggô, stringere (ivi, p. 170-171) – metafora (Il greco metapherô corrisponde al latino translatio,  il passaggio verso un nuovo significato, un trasloco dice Legendre) dell’enigma che ci soffoca, seppure essa sia così importante nella comprensione dell’uomo. Scava, scava, si arriva al desiderio incestuoso, ed alla barriera contro di esso, in cui l’enigma gioca un ruolo costitutivo. Non è in gioco una pratica sessuale, è in gioco l’identità del soggetto umano: nel discorso culturale medievale dominante, Dio era il garante dell’enigma, del suo esserci sempre (ivi, p. 177). Sebbene sia un’inclinazione dell’animo umano quella di conoscere la soluzione il più rapidamente possibile, anche senza farsi porre neppure la domanda – così Sancio Panza nel Don Quixote, che da sempliciotto svela le perversioni che gli astuti ammantano di razionalità –, Legendre ci ammonisce che assecondare questa inclinazione è la cura principale dei regimi totalitari, che forniscono così la perversa illusione di un enigma di cui si viene a capo senza sapere come (ivi, p. 134).

In quest’ottica l’approccio alle dispute filosofiche cambia di segno: sotto il razionalismo della disputa sugli universali si cela, secondo Legendre, una «guerra di emblemi», ossia la costituzione stessa del soggetto umano (ivi, p. 149), poiché «dire ce que sont les mots – tout comme dire ce que sont les images – touche aux entrailles humaines» (ivi, p. 148). Ecco che la posizione nominalista di Ockham, ma anche quella realista alternativa di san Tommaso, diventano in questa prospettiva una cifra della Modernità occidentale, ossia quella di separare il discorso sul potere dal discorso sulle manifestazioni del potere: sebbene tra loro distinte nel discorso colto, sono ancora più distinte (e tra loro omogenee) se comparate ad altre geo-culture, quella cinese per esempio, in cui la ritualità emblematica è una via di accesso necessaria alla comprensione del potere sociale. Insomma, dire cosa sono le parole e le immagini è anche un discorso primario che struttura il soggetto umano, dando luogo a contesti culturali alternativi: la nozione di imago dei, che per un pubblico specializzato evoca la dimensione personale nell’insegnamento di sant’Agostino, ha una valenza antropologica formidabile che il razionalismo non può adombrare. Se la persona è imago dei, allora in una persona vediamo Dio sia come immagine, sia come specchio, in una logica estetica che conduce Albrecht Dürer a tracciare sulla veronica che ha asciugato il viso di Gesù non già le sembianze divine, bensì quelle di lui stesso in un autoritratto (P. Legendre, Dieu au miroir, Paris, Fayard, 1994, pp. 59-60). L’immagine che rappresenta il Terzo divino, il nostro aggancio fuori di noi che ci consente di essere noi stessi, permette anche al Terzo di vedere noi che lo guardiamo. Le dispute teologiche e filosofiche hanno come posta ultima l’istituzione sociale «en ce sens qu’ils fonctionnent emblématiquement pour signifier politiquement» (Id., Le désir politique de Dieu, cit., p. 162): sotto l’apparenza puramente intellettuale, i grandi dibattiti sono la materia mitologica dell’intellettualismo occidentale, prima nel contesto che riconosce il valore normativo della cultura, poi anche in quel relativismo che offre l’illusione di una cultura anomica (ivi, p. 163).

La massima medievale secondo la quale l’imperatore, poi il papa, hanno il diritto nel loro petto – omnia iura habet in scrinio pectoris sui – rientra per Legendre negli «argomenti emblematici», non dimostrazioni nel senso moderno della razionalità, bensì una «parole articulée pour être vue» (ivi, p. 224), una parola che ci viene da dentro perché viene da fuori, da quello che chiamiamo Terzo. Se si dà l’inevitabilità del discorso simbolico e il suo rapporto ingarbugliato con la razionalità, quest’ultima cerca di occultare la natura emblematica di questo fondamento41. Sono gli stessi glossatori giuridici a tradire questa forza dirompente di una proposizione che si percepisce come metafora fondatrice, quando cercano di smontarne il rinvio all’Altro assoluto, all’indicibile: Cino da Pistoia, elencato da Kantorowicz nella sua minuziosa analisi delle analisi dei glossatori sul tema (E. Kantorowicz, The King’s Two Body, Princeton, Princeton University press, 1957, p. 154), invita a non comprendere la massima alla lettera – ossia a collocarla nell’ermeneutica linguistica – ed a comprendere che il petto del principe contiene tutti gli esperti di diritto, e la bocca del principe manifesta la voce di questi. Lettura rassicurante, tesa a togliere ogni dimensione angosciante e dirompente alla massima simbolica, per anestetizzarla in una stenografia mnemonica. All’interno di una civiltà dell’interpretazione, il simbolo irriducibile al linguaggio o è tollerato, oppure è relegato alla periferia del discorso, dove la marginalità e la devianza tendono a confondersi, che è la cifra della condanna dell’esoterismo da parte della cultura dominante latina. I testi sacri non sono ipso facto l’Emblema assoluto: questo è solo un fraintendimento, poiché i Testi sacri, si chiamino Torah, Evangeli oppure Corano – ma anche Corpus iuris (P. Legendre, Les enfants du texte, p. 131)–, manifestano un modo della presenza della metafora fondamentale, e questo modo è il Simbolo assoluto (ivi, p. 202)42.

Il simbolo percorre tutto il pensiero latino cristiano intorno al sacro. Attingendo a piene mani dal serbatoio della tradizione neo-platonica, in cui si rincorrono e si confondono, si raggiungono e si differenziano il platonismo cristianeggiante ed il cristianesimo platoneggiante, il pensiero cristiano pur nella sua risoluta scelta non-esoterica – che spinge l’esoterismo ad essere un fiume carsico, non più visibile in superficie ma dalla sorgente inesauribile – non può assolutamente prescindere dal simbolo: è il caso di Giovanni Scoto Eriugena, uno dei protagonisti intellettuali della stagione politica carolingia43; è il caso di Gioacchino da Fiore, di cui si è voluto dire che praticasse il pensare per figure e che certamente è stato così percepito dai suoi immediati contemporanei che ne hanno deprecato la strategia retorica. I suoi contemporanei, collocati al di fuori della geo-cultura meridionale, avrebbero anche potuto pensare che la prosa di Gioacchino esprimesse una sensibilità cristiana assai vicina al mondo bizantino, e proprio per questo l’avrebbero ancora deprecata; i nostri contemporanei, salvo lodevoli eccezioni, tendono a sottovalutare questa dimensione della prosa gioachimiana. Si nutre poi anche del discorso non-colto, devozionale e pulsionale, e produce un nuovo simbolismo del regno animale che integra e trasforma il simbolismo dell’epoca classica greca44.

Per quanto enorme, questo spettro semantico non copre tutta la latinità cristiana: il rigore analitico della scolastica, con la sua tensione verso lo stile analitico, rifiuta il simbolo nella sua dimensione più voluttuosa, per confinarla nell’inconscio da cui però non potrà mai essere espulso, oppure alla manifestazione del mistero che si celebra nella liturgia, regno della performatività deontica, in cui la parola produce effetti; la razionalità del diritto romano medievale e di quello canonico non assumono il simbolo nella loro retorica di comunicazione, anche se forgiano norme simboliche e mettono il nuovo diritto al servizio del mistero del deposito della fede cattolica, tanto che alla fine del Medioevo il giurista Alciati redigerà un testo di tavole simboliche che mostrano il discorso morale delle virtù. Molta strada è stata percorsa da quando Rufino, uno dei primissimi commentatori del Decretum di Graziano, descriveva la funzione del potere nello stato adamitico come duobus quasi funiculis suspensa (Rufino, Summa decretorum, ed. by H. Singer, Paderborn, F. Schoningh, 1902, p. 4. Questi due fili sono la rettitudine della giustizia e la luce della conoscenza), ponendo al cuore del diritto deposito della fede ed emblema, ma anche avviando un percorso che quel fondamento indicibile cercherà di adombrare, e così Legendre può commentare «la poésie, notamment sous ses formulations picturales et musicales offertes au grand nombre, se trouve dans la position structurale d’exercer la fonction mythologique en rappellant nos attaches imparlables, ces ficelles de fiction ... par lesquelles les institutions tiennent debout» (P. Legendre, Le désir politique de Dieu, cit., p. 124). Se si è dentro all’identità dogmatica, in questo caso cristiana, il nostro sostegno indicibile è percepito come assolutamente reale; se si è all’esterno di tale identità, lo si percepisce come fittizio: il punto inescapabile è che quei fili, qualunque sia il materiale che li componga, ci devono essere, altrimenti non c’è il soggetto umano. Il razionalismo può adombrare l’emblema, giammai eliminarlo, poiché senza simboli non vi sarebbe nessun uomo a desiderare la razionalità. E vi è poi lo spazio dell’esoterismo, in cui il simbolo non convive più, non desidera più convivere con il dicibile, dato che l’indicibile è tutto ciò che conta e niente più (questo è l’esito che affascina molti in R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Paris, Gallimard, 1962, poi tradotto in italiano, Id., Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1990). L’esoterismo si caratterizza in questi termini come un’impresa deontica alternativa a quella di un’identità religiosa dogmatica, per esempio quella cattolica: l’esoterismo in questa prospettiva è refrattario all’approccio positivista verso il simbolismo, perché lo rubrica come folklore, come superstizione,  come inconscio collettivo. Al contrario, chi si colloca in una prospettiva di identità dogmatica, conferisce al suo discorso un valore veritativo, e non già meramente descrittivo: così René Guénon può tuonare in termini apocalittici contro l’approccio psicoanalitico al simbolismo (Id., Tradition et «inconscient», «Etudes traditionnelles» (1949), poi in Simboli della Scienza sacra, pp. 46-49), non poi troppo differentemente da quanti in ambito cattolico diffidano dalla psicoanalisi. Non già perché l’approccio al simbolo sia condotto in maniera fallace, quanto perché, sia per chi ricerca la Tradizione nascosta alla maggioranza degli uomini, sia per chi ricerca la razionalità totale del trascendente, l’antropologia dogmatica osserva dall’esterno la costituzione del soggetto umano che le diverse strategie intraprendono senza assumere la necessità di una difesa partigiana di quel discorso lì, e lo fa essenzialmente con la ricognizione delle immagini, poiché «l’esthétique nous enseigne que l’institution du sujet suppose la mise en scène sociale d’un miroir de l’indicible de l’amour» (P. Legendre, Les enfants du texte, cit., p. 56). Al di là delle fondamentali motivazioni personali, si può dire che la conversione di Guénon al credo musulmano manifesti la sua vana ricerca di una concezione del simbolo sufficientemente protesa verso l’Enigma nel contesto cattolico, cosa non sorprendente se seguiamo le analisi di Legendre sul razionalismo della teologia colta scolastica che impoverisce e depaupera la dimensione simbolica. E l’antropologia psicoanalitica, in versione junghiana, non poteva confortarlo, vista la sua negazione della verofunzionalità fondamentale dell’Enigma. Guénon aveva compreso che il simbolo e l’emblema, estraniati da un discorso identitario forte, restano gingilli e ninnoli, inchiostro e pietra, materia assemblata nella mera sfera empirica45.

Per dire l’indicibile, sempre ai recessi della psiche umana occorre fare riferimento, anche se solo implicito per perseguire una reiezione (la rimozione di un significato fondamentale) che prima o poi presenterà il suo conto. Se possiamo comprendere il conto che presentava la cultura dominante del XIII secolo a Gioacchino, possiamo anche comprendere il conto che i simboli e gli emblemi di Gioacchino presentano ad ogni forma di razionalità scolastica, e capire il successo che un pensiero ispirato alla metodologia gioachimita potesse avere alla fine del periodo medievale, quando il razionalismo scolastico doveva fare i conti con la divisione di fatto della Chiesa, tra Riforma e Controriforma, in ogni caso una sconfitta del sogno razionalista nella sua capacità di unire il corpo della Chiesa.

Note

1 Per il lavoro di Pietro Aimone, ed una raccolta della scarna bibliografia esistente, rinvio alla sua analisi dal titolo Summa in Decretum Simonis Bisianensis, II, Prolegomena. Indices, Fribourg 2007, pp. IV-V. Il testo della Summa non è più disponibile sul web, bensì nell’edizione a stampa:
Summa in Decretum Simonis Bisianensis, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2014.
2 Henry Mottu (La mémoire du futur: signification de l’Ancien Testament dans la pensée de Joachim, de Fiore, in L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale, a cura di A. Crocco, San Giovanni in Fiore, Centro internazionale di studi gioachimiti, 1986, pp. 13-28, spec. pp. 24-27) sottolinea la dimensione di protesta etica del discorso di Gioacchino, di cui parla anche Fournier (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, pp. 7-10).
3 Per una sintetica rassegna delle posizioni storiografiche su Clareno, rinvio a F. Accrocca, Un ribelle tranquillo, Assisi, Edizioni Porziuncola, 2009, pp. 194-197.
4 Così si esprime Cesare Vaiana (Il gioachimismo di Giovanni da Parma, in Giovanni da Parma e la grande speranza, cit., pp. 61-100, qui pp. 71-73). L’autore concorda con Henry Mottu nel fatto che il problema di una lettura razionalistica di Gioacchino, andando oltre alle sue stesse intenzioni e quindi di fatto forzandole, è di dedurre che il suo sistema non è cristocentrico (ivi, p. 93).
5 Per la tesi, cfr. D. Ruiz, Frère Hugues de Digne, O. Min., et son oeuvre (édition critique). Une histoire par les sources narratives, la codicologie et la doctrine (XIIIe-XVe siècles), Université Paris-X, Nanterre 2009. Per una riflessione specifica sul gioachimismo, si veda D. Ruiz, Es tu infatuatus sicut alii qui istam doctrinam secuntur? La nature du joachimisme du franciscain Hugues de Digne (ca. 1200 – ca. 1255), in Expériences religieuses et chemins de perfection dans l’Occident médiéval, Parigi, Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 2012, pp. 277-292.
6 Mons. Antonio Staglianò ha presentato la sua relazione in occasione di un convegno a san Giovanni in Fiore nel settembre 2009 (A. Staglianò, La dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore tra simbolismo metaforico e riflessione speculativa, in Pensare per figure, a cura di A. Ghisalberti, Roma, Viella, 2010, pp. 77-105).
7 Così si esprime Fournier, evocando il rifiuto delle dottrine di catari e valdesi (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, pp. 30-32).
8 Cito da: Gioacchino da Fiore, Agli Ebrei, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, pp. 140-143, che riproduce il testo dell’edizione critica Adversus Iudeos, a cura di A. Frugoni, Roma, Istituto storico italiano per il medioevo, 1957. È oggi disponibile una nuova edizione critica (Exhortatorium Iudeorum, a cura di A. Patschovsky, Roma, Istituto Palazzo Borromini, 2006) e una traduzione italiana condotta su questa nuova edizione critica (Esortazione agli Ebrei, a cura di R. Rusconi, Roma, Viella, 2011).
9 Una pista di ricerca ulteriore sulla vicinanza di Gioacchino allo spirito del cristianesimo orientale si può trovare nella questione del Filioque, che dall’XI secolo divideva formalmente le due Chiese. La lettura dominante degli interpreti va nel senso della latinità di Gioacchino, ma la discussione merita di essere approfondita e probabilmente andrebbe nel senso contrario all’opinione dominante: H. Mottu, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, cit., p. 256.
10 Ben più duro il giudizio di Fournier (P. Fournier, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, pp. 34-35), che comunque ritiene che «Joachim était un saint homme», ma che non può leggerlo, per ovvie ragioni, con le lenti del Concilio Vaticano II.
11 Vanno menzionate, ma mi paiono poco persuasive, le difese appassionate condotte da A. Crocco, Genesi e significato dell’“Età dello Spirito” nell’escatologia di Gioacchino da Fiore, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, San Giovanni in Fiore, Centro di studi gioachimiti, 1980.
12 Antonio Staglianò cita il contributo di Fabio Troncarelli che considera l’opera pienamente gioachimita, e che solo per distorsione divenne gioachimista, ossia tradimento del pensiero del maestro e forma standard, però, nella cultura occidentale, di leggerlo o di ‘vederlo’ (A. Staglianò, L’abate calabrese, cit., p. 62).
13 Opus Caroli regi contra synodum (Libri carolini), ediderunt A. Freeman, P. Meyvaert (Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2, suppl. 1), Hannover, Hahn, 1998. L’editrice critica ha inaugurato l’interesse per quest’opera nella seconda metà del XX secolo con il suo studio seminale (A. Freeman, Theodulf of Orleans and the Libri Carolini, «Speculum», 32, 1957, pp. 663–705), sino agli esiti raccolti in: A. Freeman, Theodulf of Orléans: Charlemagne’s Spokesman Against the Second Council of Nicaea, Aldershot, Ashgate, 2003.
14 Nell’opera di un prestigioso intellettuale dell’epoca carolingia, Rabano Mauro, Liber de laudibus Sanctae Crucis, le figure sono accompagnate dalla declaratio figurae, l’inevitabile didascalia. Per di più, le stesse figure sono immerse in un mare di lettere che ne è lo sfondo, ed il testo che fa da sfondo è ritrascritto a seguito della figura, per sottolineare il primato del linguaggio e delimitare saldamente la possibile pulsione verso l’indicibile. La monografia di riferimento è quella di M.C. Ferrari (Il ‘Liber sanctae crucis’ di Rabano Mauro, Bern, Lang, 1999), ma si può vedere una bella riproduzione delle immagini tratte da un manoscritto vaticano nell’edizione critica nel Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis (100-100A, Turnhoult, Brepols, 2000). Sebbene non contenga tutte le immagini, in rete si trovano riprodotte a colori le immagini di un manoscritto conservato a Berna, all’indirizzo http://www.e-codices.unifr.ch/it/thumbs/bbb/0009.
15 F. Paparella, Le teorie neoplatoniche del simbolo. Il caso di Giovanni Eriugena, Milano, Vita e pensiero, 2008, pp. 144-147. In queste pagine è mostrata la differenza tra simbolo ed allegoria, il primo apertura sulle verità metafisiche ultime (metafora fondamentale), la seconda strumento ermeneutico di livello meno primario. Esaltazione del simbolo, certo, ma in una stretta dipendenza dal linguaggio, così come mostra tutta l’accurata tassonomia offerta da Paparella. A proposito di Eriugena, Paparella evoca la «dialettica di nascondimento e di rivelazione del simbolo» (Id., Le teorie neoplatoniche del simbolo, p. 153), che è equivalente al dire l’indicibile della contemporanea antropologia psicoanalitica di Jacques Lacan.
16 H. de Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, I-II, Paris,  Lethielleux, 1979-1981. Può essere utile vedere la lunga recensione di P. Deghaye (P. Deghaye, Henri de Lubac et Joachim de Flore, «Journal for the Study of Western Esotericism», 3, 1986, pp. 25-40). Il problema che il cardinale de Lubac solleva sin da Exégèse médiévale (H. de Lubac, Exégèse médiévale, Paris, Aubier, 1959) è la teologia scritturale che presiede all’esegesi gioachimita: anche se l’espressione non vi ricorre, sotto accusa è proprio il “pensare per figure”.
17 Anche se la Scolastica è segnata dall’aristotelismo, contiene tracce anche profonde del platonismo in quasi tutte le sue anime. Gioacchino era impermeabile alle categorie del neo-platonismo, ed in questo non segue i Padri della Chiesa greci, ma non segue neppure lo spirito filosofico che oramai dominava nel mondo latino a lui contemporaneo. La sua esegesi non solo è separata dalla filosofia, sembra disdegnarla (H. Mottu, La manifestazione dello Spirito, cit., p. 106).
18 Non si può però evitare di osservare che quando gli approcci all’immagine che hanno comunanza di famiglia con quello gioachimita sono intesi come ‘teologia figurativa’, un elemento di gnosticismo cristiano emerge con decisione e chiarezza, cosa che colloca questa chiave di lettura nella dimensione assolutamente centrifuga che ha avuto lo gnosticismo rispetto al paradigma dominante cristiano, quello gnosticismo così lucidamente tracciato da Eric Voegelin. La sua critica contro Gioacchino si spinge lontano, sino a fargli carico di avere prodotto un vero e proprio Koran gnostico all’interno del cristianesimo, ossia una guida corretta alla lettura del Testo sacro e una formulazione della verità che rende tutte le fonti precedenti pleonastiche (E. Voegelin, The New Science of Politics, in Modernity without Restraint, ed. by M. Henningsen, Columbia-London, University of Missouri Press, 2000, p. 201) – in altri termini, ciò equivale alla messa alla berlina del concetto epistemologico di Tradizione, tipicamente cattolico. Per la nozione di ‘teologia figurativa’, che è esplicitamente non solo storiografica bensì anche teoretica: M. Rainini, Disegni dei tempi. Il “Liber figurarum” e la teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, 2006.
19 Non disponiamo di un’edizione critica definitiva, si veda il testo latino e la traduzione francese, nonché il commento in G. Salet, Anselme de Havelberg: Dialogues, Livre I, “Renouveau dans l’Eglise”, Paris, Les Editions du Cerf, 1966. Rinvio anche allo studio di J.T. Lees, Anselm of Havelberg. Deeds into Words in the Twelfth Century, Leiden, Brill, 1988.
20 K. Voegelin, History of Political Ideas. II The Middle Ages to Aquinas, Columbus-London, University of Missouri Press, 1997, p. 128. Anche se si deve leggere Voegel interprete di Gioacchino con le precauzioni enunciate per esempio da M. Riedl, (Gioacchino da Fiore padre della modernità: le tesi di Eric Voegelin, in Gioacchino da Fiore nella cultura contemporanea, a cura di G.L. Potestà, Roma, Viella, 2005, pp. 219-236), resta il fatto, come dice lo stesso Riedl in chiusa del suo contributo, che «ci si può chiedere come mai i simboli di Gioacchino giochino effettivamente un ruolo prominente nelle autointerpretazioni dei movimenti e delle società moderne. In queste domande stanno altrettanti importanti compiti per la ricerca del futuro. Poiché sarebbe troppo semplice cavarsela dicendo che si tratta sempre e comunque di coincidenze e fraintendimenti» (ivi, p. 233). Alla luce di questa sua affermazione, mi pare ingenerosa l’apertura in cui scrive «è addirittura dubbio se Voegelin avesse una conoscenza degna di nota dei suoi scritti» (ivi, p. 219). Mi pare sia più un omaggio alla scienza ordinaria – intesa in senso kuhniano – della mappa sociologica accademica che un sentimento profondo dell’autore, visto come chiude poi il suo contributo: del resto, affermare che Gioacchino è padre della modernità è una proposizione che ha senso solo nel metalinguaggio dell’interprete, e non si può neppure di trovarla come tale nel lessico del linguaggio oggetto di interpretazione.
21 Vi è un’altra alternativa, quella della logica paraconsistente, che permette di permanere in un razionalismo che non è quella della filosofia moderna seicentesca oppure settecentesca. Ma questa via non concede al simbolo uno statuto diverso dal razionalismo della logica classica.
22 Sono censori, non nel senso contemporaneo di censura solo morale, quanto nel senso con cui si poneva l’apposizione “il Censore” al nome del romano Catone, difensore dell’ordine tradizionale. Sono garanti della normatività sociale, ossia della sua struttura dogmatica. Rinvio a: P. Legendre, L’amour du censeur, Paris, Seuil, 1974.
23 F. Russo, L’eredità di Gioacchino da Fiore. La Congregazione florense, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 21, 1952, 131-144, p. 137. Sui monasteri basiliani, a titolo di esempio: A. Basile, I Conventi Basiliani ad Aulinas sul M.S. Elia e di S. Elia Nuovo e S. Filareto nel territorio di Seminara, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 14, 1945, pp. 19-36, 143-158, 261-278, con l’affermazione riportata nel testo che si colloca nel periodo storico di Gioacchino, a p. 36.
24 Rinvio a: F. Cuniberto, Jakob Böhme, Brescia, Morcelliana, 2000; C. O’Regan, Gnostic Apocalypse. Jacob Boehmes’s haunted narrative, Albany, State university of New York Press, 2002. Per dare un’idea concreta della sua prolissità esorbitante tipica di un ‘illuminato’, il commento del libro della Genesi dovuto a Bohme occupa 854 pagine fittamente stampate nella traduzione inglese del 1924, poi ristampata anastaticamente come: J. Boehme, Mysterium Magnum. An Exposition of the First Book of Moses called Genesis, Cambridge, The Lutterworth Press, 2002.
25 Rinvio a: L. Parisoli, Eric Voegelin e la categoria storiografica dello gnosticismo politico, «Palomar», 8, 2008, pp. 81-93. Per usare l’immagine usata da Isaiah Berlin della volpe e del porcospino, Voegelin resta comunque un porcospino, un erudito che afferma di sapere una sola cosa – l’opposizione nel cristianesimo tra visione gnostica e non-gnostica – e si oppone alla mille cose che sa la volpe, perché spesso sono furbate.
26 Rinvio ai rilievi critici di: R. Manselli, Dante e l’«Ecclesia Spiritualis», poi raccolto in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 69. Nello stesso volume, si veda anche: Id., A proposito del cristianesimo di Dante: Gioacchino da Fiore, gioachimismo, spiritualismo francescano, e l’altro contributo Dante e gli spirituali francescani.
27 Devo la suggestione della questione del docetismo come rilevante e strategica per comprendere le analisi di Gioacchino da Fiore a Filippo Burgarella, con il quale ho spesso discusso sulla presenza tutt’altro che trascurabile di influenze cristiano-orientali in Gioacchino.
28 Il giudizio, risalente a Morton Bloomfield sin dal 1957, pare difficilmente contestabile, semmai se ne possono contestare le conseguenze che se ne fanno derivare.
29 G. da Fiore, Dialoghi sulla prescienza, edizione bilingue a cura di G.-L. Potestà, Roma, Viella, 2001, pp. 44-45. È riprodotto il testo dell’edizione critica: G.L. Potestà, Dialogi de prescientia Dei et praedestinatione electorum, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1995. Nella filosofia francescana Dio può salvare Giuda e dannare Pietro: una rivoluzione concettuale si opera a partire da fermenti della spiritualità cristiana.
30 Siamo di fronte ad un afflato iperbolico che riveste la virtù dell’umiltà, che non sarebbe fuori posto in un sermone veemente, ma che produce un certo sentimento di disagio semantico in un contesto di argomentazione teologica.
31 H. Mottu, La manifestazione dello Spirito, p. 260, p. 280. Il riferimento è al Tractatus, 189, 28 e 190, 4, secondo la paginazione della vecchia edizione Buonaiuti del 1930. Per la traduzione italiana da me citata, Trattati sui quattro Vangeli, p. 142.
32 Henry Mottu procedeva sull’edizione critica di Buonaiuti del 1930, questa traduzione italiana usa l’edizione di Francesco Santi del 1996. Nonostante ciò, la traduzione francese di Mottu, resa in italiano, conserva la sua vitalità concettuale: H. Mottu, La manifestazione dello Spirito, p. 132.
33 R. Moynihan, The Development of the ‘Pseudo-Joachim’ Commentary ‘Super Hieremiam’: New Manuscript Evidence, «Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen Age – Temps Modernes», 98, 1986, pp. 109-142; M. Reeves, The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages, Oxford, Clarendon press, 1969, pp. 149-159, in particolare pp. 156-158; B. Töpfer, Das kommende Reich des Friedens, Berlin, Akademie-Verlag, 1964, pp. 108-115 (tradotto come: B. Töpfer, Il regno futuro della libertà, Genova, Marietti, 1992). Vi è anche la proposta di Wessley (E. Wessley, The Role of the Cistercians in the Writings of the Early Disciples of Joachim of Fiore, in Naissance et fonctionnement des réseaux monastiques et canoniaux, Saint-Etienne, Publications Universite Jean Monnet, 1991, pp. 81-102), che alcuni leggono come tesa ad esonerare di ogni responsabilità Gioacchino rispetto a questa produzione letteraria: a mio avviso, una lettura in questo senso di Wessley è una risposta ambigua ad una domanda mal formulata.
34 Entrambi i lavori di Arnaldo di Villanova risalgono ad un periodo tra il 1280 e il 1290 quando si trovava a Montpellier.
35 Sulla consolidata presenza dell’insegnamento degli spirituali a Firenze, grazie a Pietro di Giovanni Olivi, rinvio a: R. Manselli, Firenze nel Trecento: Santa Croce e la cultura francescana, poi in Id., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo.
36 Lo si può vedere nella vecchia Patrologia latina, vol. 107, coll. 133-294, in particolare alle colonne 141-142 per l’immagine di Ludovico il Pio, e per la spiegazione di questa immagine colonne 143-146. Ma nell’edizione critica apparsa nel CCCM 100-100A, Turnhoult 2000, si trovano, come abbiamo già detto, le riproduzioni a colori delle immagini versificate tratte da un manoscritto conservato nella Biblioteca Vaticana.
37 P. Legendre, Le désir politique de Dieu, Paris, Fayard, 1988, p. 86. L’etimologia rinvia al gettare all’interno, ossia “l’emblématique met sur le devant de la scène le sujet rempli de signes et pose la question d’un remplissage de l’identité”, tanto che le formulazioni del diritto che disciplina una società, mediante le procedure ermeneutiche che lo costituiscono, implicano un quadro di riferimento emblematico, a dispetto di ogni razionalismo che tende a farlo scomparire dalla scena dell’analisi linguistica. Come ricorda Bruno Pinchard in un suo articolo che evoca la lettura da parte di Henri de Lubac di Gioacchino da Fiore (B. Pinchard, Sujet théologique, sujet initiatique: l’interprétation du joachimisme par Henri de Lubac et la figure de Dante, «Les Etudes philosophiques», 2, 1995, 247-267, p. 247) il nome che gli inglesi hanno dato al razionalismo pratico è ‘secolarismo’ (la frase è attribuita a Alexander Erdan, l’autore de La France mystique. Tableau des excentricités religieuses de ce temps, Amsterdam 1858).
38 Si veda anche: P. Legendre, La 901e conclusion, Paris, Fayard, 1998, p. 245, che esprime l’idea dell’umano come simbolo vivente. La radice greca comune delle due parole è nel verbo ballô (Id., Le désir politique de Dieu, cit., p. 149). L’emblema è inciso sul legno, marchiato sul ferro: «les théories nous entrent dans la peau».
39 L’indicibile copre la parte più spaventosa e selvatica di ogni uomo, eppure ineliminabile (Id., La 901e conclusion, cit., p. 248): l’indicibile è connaturato alla razionalità prima dell’uomo, cercare di sradicare l’indicibile è ritorcere la ragione contro la ragione stessa.
40 Rinvio per una sintesi ed una utile comparazione nel contesto genealogico a: F. Talahite, L’engendrement chez Luc Boltanski et Pierre Legendre: lectures crosiées, «Enfance, Famille, Générations», 14, 2011, pp. 113-138, disponibile sul sito dell’omonima rivista, http://www.efg.inrs.ca/index.php/EFG.
41 P. Legendre, Les enfants du texte, Paris, Fayard, 1992, p. 117. Un esempio per tutti: la ricerca di buone ragioni per una norma, sino alla teoria tommasiana per cui una legge ingiusta non è una legge, adombra la natura ultima del normativo, quella di essere l’immotivato puro (P. Legendre, La 901e conclusion, p. 128). Questo è manifestato, non già dimostrato, nel libro di Giobbe: questo libro fa parte della tradizione giudaico-cristiana e manifesta una metafora fondamentale di due identità, l’ebraica e la cristiana.
42 L’illusione dell’iper-razionalismo è il controllo totale della metafora fondamentale: se lo fosse, non sarebbe la metafora fondamentale. Un mito cessa di essere operativo, ossia di produrre i suoi effetti normativi, se sa di essere un mito (P. Legendre, Les enfants du texte, p. 68).
43 Nel già citato F. Paparella, Le teorie neoplatoniche del simbolo, opportunamente Paparella inserisce nel titolo del secondo capitolo l’espressione ‘le fonti del dire traslato’, che pure in grammatica si chiamano figure retoriche. Mentre il termine ‘figura’ può evocare letture difformi dal razionalismo della tradizione latina, il dire traslato evoca una simbologia ontologicamente seconda rispetto al linguaggio, secondo una tradizione neo-platonica che forma le basi del discorso cristiano.
44 Un’opera fondamentale su questa dimensione specifica della grammatica del sacro nella tradizione cristiana è quella di L. Charbonneau-Lassay (Le bestiaire du Christ, Paris, A. Michel, 2006), un’opera pubblicata per la prima volta nel 1943 praticamente senza alcuna diffusione e poi riedita in diverse ristampe dai contorni iniziatici e dai costi esorbitanti, certo legate ad una libera ermeneutica della personalità dell’autore, legato alle riviste del pensiero tradizionale guénoniano (Etudes traditionnelles, ma non solo), e che citava tra le sue fonti il gruppo ermetico ed iniziatico de l’Estoile internelle. È inutile un approccio razionalista a questa grande enciclopedia dell’emblema e del simbolo: se si considerano le immagini riportate come descritte dal testo scritto, se ne può lamentare l’origine spesso indeterminata o nebulosa; se però le immagini sono considerate come emblemi e simboli, esse valgano in quanto tali.
45 Questo non esclude che ci siano prospettive esoteriche più concilianti con la Modernità, che rifiutano l’atemporalismo guénoniano pur volendo perseguire in un’antropologia esoterica, e che non hanno problemi con le prospettive junghiane. Un rappresentate illustre ne è Gerhard Wehr, per cui rimando a: P. Deghaye, Un ésotériste chrétien: Gerhard Wehr, «Journal for the Study of Western Esotericism», 11, 1990, pp. 46-56.

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