di Domenico Campana

Poche notizie si hanno della vita e dell’opera di Iacopo (o Giacomo) di Gaeta (Caieta o Gaieta o ancora dei Gaieti di Cosenza), umanista ed intellettuale raffinato, erede del pensiero filosofico di Bernardino Telesio, e attivo nella cultura calabrese di fine Cinquecento. Il suo nome non viene citato nei due volumi Letteratura italiana. Gli Autori. Dizionario bio-bibliografico e Indici (2 voll., Torino, Einaudi, 1990-1991), ed imprecisati sono anche luogo e data di nascita.

Membro dell’Accademia Cosentina, Iacopo di Gaeta è menzionato con ammirazione da Tommaso Campanella, con una precisa determinazione geografica, nella sua Metaphysica (1638): «Ergo Caieta cosentinus omnes, in dicendo quid est pulchrum, exuperavit scriptores, quamvis principia metaphysicae non attigerir. Nos in cantione nostra de pulchro omnia expressimus; et pulchri diximus esse amorem, boni vero fruitionem» (T. Campanella, Metaphysica, p. ii, lib. vi, cap. xvi, De pulchro; vedi edizione parziale in 3 voll. a cura di G. Di Napoli, Bologna, Zanichelli, 1967, vol. ii, pp. 234-236), in riferimento agli studi dell’umanista sul bello e sulla sensibilità estetica, contenuti nel trattato Ragionamento chiamato l’academico, overo della bellezza (1591).

Il Gaeta è citato ancora da Campanella nel sonetto «Al Telesio cosentino» come uno dei discepoli del filosofo che nel «Brettio campo cantan le glorie tue con nobil cetra»: «Il buon Gaieta la gran donna adorna / con diafane vesti risplendenti, / onde a bellezza natural ritorna». Nell’esposizione in prosa del Sonetto egli dice: «Ma il Gaieta, che scrisse della bellezza, avanzò tutti, secondo ch’è dice in Metafisica» (T. Campanella, Opere letterarie, p. 236). Iacopo viene ancora citato dallo Stilese nella Poetica, dove leggiamo: «et Caieta noster elegantem edidit libellum» (T. Campanella, Poetica, in ivi, p. 500). Questi riferimenti testuali attestano come, durante la permanenza di Campanella a Cosenza, tra i due pensatori si fosse stabilito un dialogo e un rapporto di stima.

Nell’Introduzione alla riedizione del Ragionamento, Anna Cerbo conferisce vigore all’ipotesi campanelliana dei natali bruzi dell’umanista, circostanza peraltro rafforzata dalla familiarità e dalla naturalezza di rapporti umani tra Iacopo e gli altri intellettuali dell’Accademia Cosentina, oltre che dall’attaccamento intellettuale ed emotivo (quale emerge dalle pagine del Ragionamento), che ne fa a tutti gli effetti uno dei continuatori dell’insegnamento telesiano (I. di Gaeta, Ragionamento chiamato l’academico, overo della bellezza, a cura di A. Cerbo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996).

Il trattatello, compiuta testimonianza di una delle tendenze prevalenti della cultura filosofico-letteraria in Calabria di fine Cinquecento, tra i pochi documenti ufficiali del xvi secolo attestanti l’esistenza dell’Accademia Cosentina come istituzione permanente e attiva della città di Cosenza, può essere utile nel restituire al lettore non pochi elementi dei caratteri tipici e delle consuetudini vigenti tra i letterati e gli umanisti facenti parte dell’Accademia. Proprio in ragione di quanto detto, è da considerare il legame umano e culturale tra Iacopo di Gaeta e gli altri «ragionatori» della istituzione cosentina, indicati tutti come condiscepoli del grande maestro, Bernardino Telesio (1509-1588), e variamente evocati dal trattatista, quasi a dare legittimità, attraverso i loro precedenti lavori e giudizi critici, alle lezioni del Ragionamento.

Bernardino Telesio è indicato nell’opera come «non mai a bastanza lodato maestro e padre della Cosentina Academia»(Ragionamento, p. 54). Il filosofo cosentino si impone in tutta la sua importanza sin dal Proemio del Ragionamento, nelle cui pagine Iacopo fa chiara ammissione di imitatio del suo ingegno e della sua filosofia. L’opera si attesta anche nel segno della continuità culturale in una fase cruciale per le sorti dell’Accademia, quella cioè che vede nel 1588 la morte di Bernardino Telesio, e, nello stesso anno, la prosecuzione della vita dell’Accademia, sotto la guida di un altro illustre intellettuale cosentino, Sertorio Quattromani (1541-1603). Di quest’ultimo, il Gaeta cita i Discorsi (in S. Quattromani, Scritti varii, a cura di L. Stocchi, Castrovillari, 1983). Non mancano altri riferimenti ad intellettuali cosentini facenti parte dell’Accademia: Guido Cavalcanti, poeta e traduttore di alcuni versi latini, autore de La vita e i miracoli di S. Francesco di Paola, e delle Aggiunte alla Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta per Lodovico Castelvetro; e, nella chiusa del trattato, il cosentino Fabio Cicala, altro accademico che Iacopo di Gaeta vede «apparecchiarsi a ragionar d’amore»(Ragionamento, p. 84).

Alcuni sparuti cenni biografici su questo minore della scuola cosentina ci vengono forniti da Salvatore Spiriti, il quale ci informa che «fu giureconsulto di professione, ma non si contentò di avere solo la cognizione delle leggi, perchè volle avere anche quella delle due lingue più dotte, della Poesia e della Filosofia telesiana» (S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, Napoli, Stamperia de’ Muzj, 1750, pp. 96-97). Lo Spiriti lo ricorda inoltre come autore del madrigale Al sacro tempio, che te inalza il mondo (riportato a p. 87 del Ragionamento), originariamente incluso nella raccolta in onore di Giovanna Castriota, volume curato da Scipione de’ Monti (Rime et versi in lode della Ill. et Ecc. S. D. Giovanna Castriota Carr. Duchessa di Nocera, et Marchesa di Civita Sant Angelo, Vico Equense [Napoli], G. Cacchi, 1585, p. 70), e del sonetto De le lagrime tue son fatti i rivi, scritto in occasione della morte di Isabella Quattromani, moglie di Giovan Battista Ardoino. Fonte dello Spiriti, per quanto concerne le notizie biografiche sul di Gaeta, è la «Tavola de gli autori» contenuta nelle Rime in lode di Giovanna Castriota, curata da Giovan Giacomo De Rossi: «Giacomo dei Gaieti di Cosenza è dottor di legge, ma è molto intendente delle lingue, e della poesia, e della philosophia telesiana» (Rime, s.n.).

Nella Storia della letteratura italiana, Francesco De Sanctis lo cita insieme al Bombini e al Montano (cfr. p. 685 dell’edizione a cura di M.T. Lanza, Milano, Feltrinelli, 1970; nello stesso volume, a p. 893, nell’Indice dei Nomi possiamo leggere: «Giacomo di Gaeta, filosofo della metà del sec. xvi, autore di un trattato di estetica, De pulchro»).

1591

È l’anno della pubblicazione, a Napoli, presso lo stampatore Giuseppe Cacchi, de Il Ragionamento chiamato l’academico, overo della bellezza. Il trattato verte intorno ai temi filosofici del bello, reinterpretati alla luce della filosofia di Bernardino Telesio, «sensato filosofo, et insieme ragionevole sopra ogni altro» (Ragionamento, p. 56). L’intento di Iacopo è quello di applicare i principi metafisici del naturalismo telesiano – ovvero nell’ottica di una generale rivalutazione delle categorie del sensibile – al campo dell’estetica, dunque alla teoria del bello.

Del trattato in questione si conoscono oggi solo quattro copie rintracciabili: un esemplare, reperito da Giorgio Fulco, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, mentre le altre tre sono custodite rispettivamente presso la Biblioteca Provinciale di Avellino, la Biblioteca Oratoriana dei Girolamini di Napoli e la Biblioteca Nazionale di Roma. I quattro esemplari non presentano differenze tipografiche di rilievo, ed identiche sono le lezioni ed i titoletti marginali, mentre in tutti e quattro gli esemplari ritrovati è errata la numerazione, ma non la successione, delle pagine da 50 a 60 (cfr. la Nota al testo dell’edizione del Ragionamento a cura di A. Cerbo, p. 41).

La Cerbo rileva come il Ragionamento rappresenti una rigorosa indagine espositiva sulla bellezza, una riflessione sul perché l’uomo sia naturalmente attratto dal bello, e sulla relazione tra bello e buono (tema classico della tradizione platonica) esistente in natura e nell’arte. L’approccio scientifico e consequenziale della trattazione, e l’uso di un linguaggio colto e raffinato ci permette di parlare di quest’opera come dell’esposizione di una vera e propria dottrina estetica, fondata su una solida tradizione letteraria e filosofica. Tenendosi fermo alle riflessioni dei tre grandi trecentisti (Dante, Boccaccio e Petrarca), Iacopo cerca di inserire le loro idee in un sistema naturalistico, contrapposto all’estetica mistica della trattatistica medievale e neo-platonica – da Ficino al Bembo e al Tasso (cfr. Introduzione al Ragionamento, pp. 31-32).

Il trattatello, che si compone di 95 pagine, fu dato alle stampe preceduto da una Dedica dell’autore al «Signor D. Geronimo Acquaviva» (Girolamo Acquaviva, 1521-1592), decimo duca d’Atri, scrittore di versi e principe dell’Accademia del Lauro, e accompagnato in chiusura da un epigramma in latino di Francesco Mauro, membro dell’Accademia degli Svegliati. Una ulteriore precisazione concernente la genesi del testo ci è fornita dallo stesso Iacopo, il quale ci informa, proprio in apertura del Ragionamento, che il lavoro gli è stato commissionato dal Principe dell’Accademia, Sertorio Quattromani. Insieme al volume, pubblicato da quest’ultimo solo due anni prima, dal titolo La filosofia di Berardino Telesio ristretta in brevità (1589), il Ragionamento costituisce il segno più tangibile della continuità culturale degli insegnamenti di Bernardino Telesio.

L’opera, scritta in volgare e con alcune peculiari forme latineggianti tipiche della prosa del Petrarca e di Dante, sembra voler imitare, nell’impostazione di fondo, il modello letterario del Decameron; l’articolato è infatti una lezione di estetica sviluppata in forma allocutiva e rivolta alla «nobile et intendente brigata» (A gli Accademici di Cosenza), in compagnia della quale Iacopo si appresta «a ragionare di bellezza» (Ragionamento, pp. 53-54).

Aperto da un breve proemio nel quale Iacopo ricorda le varie accezioni tematiche della bellezza tramandate sino ai suoi giorni, con particolare riferimento a «coloro che infino a questa ora ne hanno parlato», e cioè ai cultori del neo-platonismo estetico quattro-cinquecentesco, fautori di una«bellezza considerata in astratto a guisa d’una celestiale idea» (Ragionamento, p. 54), il trattatista chiarisce ben presto i suoi intendimenti: ritrarre, in modo da far distinguere le più piccole linee del suo ragionamento, una nuova e più pregnante determinazione del bello, da rintracciare nella sua connotazione più concreta, secondo cioè la suggestione telesiana di una conoscenza derivata dai sensi ed investigata nel vero. Pur non sfuggendogli la fascinazione particolare della bellezza fisica, alla bellezza finalistica della perfetta proporzione fra le parti del corpo umano e dell’armonia dei corpi celesti e del cosmo, in voga all’epoca, Iacopo oppone l’idea di un bello che affonda le sue radici nell’etica.

Superando le consuetudini culturali del manierismo cinquecentesco e l’approccio puramente descrittivo della bellezza fisica, il di Gaeta indaga più profondamente le ragioni biologiche e le finalità metafisiche dell’uomo. Il corpo è visto in funzione dello spirito; e, sempre unito e partecipe nell’attività e nel funzionamento delle sue singole parti (ciascuna reciprocamente coordinata dall’ufficio di tutte le altre), deve essere pronto nel seguire i dettami dello spirito e nel discernere ciò che è bene e ciò ch’è male. Deve quindi essere ben temperato per non rendere impotente lo spirito nelle sue azioni, «pronto» e «abile» a tutti i movimenti suggeriti dallo spirito per la conservazione di entrambi. Abilità, forza e velocità sono quindi considerati strumenti al servizio della tendenza vitale dello spirito.

La bellezza, dice il trattatista, è «quasi un velo o corteccia, o soprafaccia del buono»(Ragionamento, p. 60). L’umanista è consapevole che «gli antichi filosofi [...] terminarono la predicazion di bellezza [...] considerando delle cose solamente l’esteriore e ’l di fuori, e non in conoscere e sperimentare la vera bontà e qualità interna» (ivi, p. 59). Ma l’ideale estetico di Iacopo non si esaurisce in questa definizione del bello: egli approfondisce la tematica fornendo una definizione del medesimo; la bellezza spiega, non è una sostanza «che per sé si mantenga», ma una qualità, una proprietà comune con la quale chiamiamo tutte le cose belle. Belle sono tutte le cose intelligibili, le cose cioè che si possono comprendere attraverso l’intelletto: sono belle le virtù, le scienze, le arti e tutto ciò che «si può solamente imaginare con l’intelletto» (ivi, p. 55). Di contro, non tutte le cose sensibili possono ricevere la denominazione di bello: i nostri sensi conoscono le differenze e le qualità delle cose o «nelle parti estreme e superficiali del corpo», con il «senso esteriore», o nelle «parti interne» con «il senso interiore». Tutto ciò che viene conosciuto attraverso il senso esteriore (le voci, i colori, la posizione di una figura umana) può essere senza dubbio detto bello. Quanto invece è sentito con il senso interiore (gli odori, i sapori e i piaceri sessuali), può dirsi bello solo per metafora o traslazione. In quest’ultimo caso non si può parlare di bello o di brutto, bensì di buono o non buono. Quando però tali cose o atti superano l’iniziale contatto con il senso per diventare ricordi e mutando quindi in cose dell’intelletto, al quel punto possono dirsi belle (ivi, pp. 55-56).

La distinzione tra senso esteriore e senso interiore pare a Iacopo non collimare con i principi filosofici del «Maestro», per il quale «tutti i sensi che in noi si fanno sono nelle parti di entro, e nello spirito istesso» (Ragionamento, p. 56). Iacopo dirime l’apparente divergenza della distinzione dei due sensi rifacendosi ancora ad un concetto centrale della filosofia telesiana, lo spiritus, e quindi all’attività dei sensi in relazione alla mutevole natura ed ai movimenti dello stesso. Lo spirito telesiano, comune a tutti gli animali e di natura sottilissima e leggierissima similmente al fuoco, nell’uomo è strumento dell’anima (la più nobile delle cose, creata ed infusa direttamente da Dio) e mediatore tra senso ed intelletto. Esso entra in contatto ed interagisce con le cose esterne, e muta così, «muovendosi», la sua intensità. Tale movimento può farlo diventare a volte «leggiero e semplice», ma può anche «alterarlo», «allargarlo», «ingrossarlo» perché «sbattuto» dalla veemenza delle passioni e «costretto più del dovere». Alla differente forza delle passioni corrisponde una diversa veemenza del moto dello spirito, e con ciò un diverso grado di piacere o di dolore. Un movimento superficiale dello spirito corrisponde al «senso esteriore», un movimento profondo invece al «senso interiore». Ne consegue che quando lo spirito si muove leggermente, si rallegra e conosce la bellezza; un movimento violento fa invece conoscere allo spirito non il bello o il brutto, ma il dolce o l’amaro, la gioia o il dolore (ivi, pp. 75-76). Chiarito ciò, Iacopo cerca a questo punto la sostanza della quale la bellezza è sintomo esteriore. Questa sostanza, del tutto assente nelle cose non belle, è la bontà, cioè la capacità, secondo il volere di Dio, di conservazione delle cose. Dio «ha messo in tutte le cose un appetito [...], secondo il quale per natural inchinazione et istinto, [...] si muova ciascuna verso quello che fa e s’appartiene alla conservazione propria sua, e fugga, in quanto può, la distruzzione et annullamento dell’essere naturale» (ivi, p. 58). Il bello è così la manifestazione più superficiale della bontà intesa quale istinto conservativo della vita, è il sintomo, indizio o segnale di quella. Il pensatore approda così ad un sistema estetico-filosofico implicante la differenziazione tra bene e bello, espresso attraverso una serie di esempi: «il bello e il buono si ha come il verisimile al vero, e lo apparente all’esistente [...], come la corteccia alla polpe, e come la superficie al corpo, et altre tali rassomiglianze» (ivi, p. 59). La bontà è infatti relativa al soggetto che la contempla, il quale può intenderla in due modi, o come conservazione della cosa nella quale essa si trova, o come conservazione di sé medesimo (il tema del rapporto tra pulchrum e bonum, lo ricordiamo, era stato affrontato da S. Tommaso).

Proprio sulla scorta delle acute ed inedite dissertazioni riguardo al rapporto tra il bello e i segni sensibili, e il bene e il segno inteso come semeion, apparsa per la prima volta nel Ragionamento, Campanella, nel capitolo xvi (De pulchro) del libro vi della Metaphysica, continuerà ad analizzare la differenza tra sensi esteriori (vista ed udito) e sensi interiori (tatto e gusto), tra bello e bontà. Nell’Epilogo Magno, lo Stilese definirà il bello «apparenza del buono»).

Il sentimento estetico di Iacopo si esprime attraverso un rapporto di conoscenza tra il soggetto agente ed il bello che viene osservato, un rapporto che esclude qualsiasi interesse utilitario poiché è un rapporto che è pura contemplazione; quest’ultima è la principale caratteristica del rapporto estetico dell’uomo con le cose belle: le facoltà che si attivano davanti al bello sono infatti la vista, l’udito e l’intelletto, facoltà che non implicano un possesso ma che anzi osservano l’oggetto come una realtà del mondo. Della contemplazione della bellezza fa parte il piacere; il bello «muove e cagiona il diletto» quale potenziamento del soggetto davanti al rilucere del bene. Davanti al bello il nostro spirito prova piacere perché, nel partecipare alla conservazione della cosa bella, si ricorda della sua propria conservazione. Con ciò, lo spirito ama osservare e contemplare il bello perché induce diletto: 1) attraverso la vivezza delle cose (la luce, i colori, i movimenti, la voce); 2) attraverso l’imitazione perfetta delle azioni dell’uomo e delle cose della natura, dalla quale dipendono le arti; 3) attraverso l’adeguatezza delle cose in vista del loro fine; e, infine, 4) attraverso la rarità delle cose prodotte dalla natura o dall’ingegno dell’uomo. Legata all’ultima modalità del bello è la tematica della meraviglia: le cose grandi e rare, così straordinarie da non sembrare umane ma divine, accendono in noi il sentimento della meraviglia, facendoci trascendere a Dio.

Insieme alla bellezza della natura, Iacopo tratta anche quella dell’arte, teorizzando la coscienza del godimento estetico. Il fondamento di tutte le arti è, per Iacopo, l’imitazione, la rassomiglianza o similitudine. Poiché «le arti tutte sono o imitazione della natura, o imitazione de gli sperimenti, che nella natura si sono veduti, è ragionevole adunque che, ovunque fatta per modo conveniente, [...] o morte o vita che ella ci rappresenti, [...] se ne tragga da noi piacere e diletto» (Ragionamento, p. 72). La bellezza artistica è quella che riesce a riprodurre perfettamente le cose e le azioni, cioè il vero e la realtà. Quindi, nell’arte non esiste il brutto: anche il brutto di natura diventa bello, a condizione che sia bene imitato: «le arti non ricevono perfezione o loda, né biasimo e mancamento, nel [...] rappresentare cosa bella, o sparuta o laida, ma sì dalla convenevolezza che hanno con quello che s’imprende ad imitare» (Ragionamento, pp. 72-73).

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