di Emilio Sergio

1509

Bernardino Telesio nasce a Cosenza nel 1509, da Giovan Battista (?-1531) nobile letterato (figlio di Berardino Telesio e di Giovanna Quattromani) e Vincenza Garofalo (fl. 1508/1509-1527/1528), figlia di Francesco Garofalo, dottore in legge. Bernardino è il primo di otto figli: Valerio (ca. 1510-1579), Paolo (ca. 1511-1561), Gerolamo (ca. 1512/1513-1537/1543), Tommaso (ca. 1523-1569), Giovanni Andrea (fl. 1556), Francesca (?-ca. 1569/1570), Giovannella (?-1570). Per una ricostruzione dell’albero genealogico dei Telesio, cfr. V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, 1988, pp. 12-13 e p. 154, nota 1.

1515-1516

In prima età scolare, Bernardino viene educato nell’ambiente familiare e parentale, in cui spicca la figura dello zio Antonio (vedi Antonio Telesio, 1482-1534).

1517/1518-1521/1522

Bernardino lascia Cosenza per seguire lo zio Antonio a Milano, dal quale apprende i primi rudimenti di greco e di latino. A Milano i due restano verosimilmente fino al 1521. A quest’anno risale la cacciata dal capoluogo lombardo del governatore francese Lautrec (Odet de Foix, 1484-1528) da parte di Prospero Colonna (1452-1523), alleato di Carlo V. Al dicembre del 1521 risale l’ingresso degli Imperiali a Milano, con la conseguente proclamazione del duca Francesco II Sforza, e al 1522 risalgono i tumulti che culminarono nella sconfitta dell’esercito francese da parte delle truppe imperiali, nella famosa battaglia della Bicocca. È dunque probabile che i Telesio si spostino da Milano già nel 1521. Di certo, il 1523 segna il loro trasferimento a Roma: nello stesso anno Antonio Telesio pubblica una Epistola ad Alexandrum Cacciam Florentinum ob Clementis VII. Pontificatum Maximum (Romae, F. Minitium Calvum). L’epistola reca la data del 13 dicembre 1523.

La presenza di Antonio Telesio a Milano è confermata da diverse testimonianze. La più importante di tutte è la Oratio in funere Ioh. Iacobi Trivultii (Mediolani, per Augustinum de Vicomercato, 1519), scritta in memoria di Gian Giacomo Trivulzio (1440-1518). L’orazione fu letta dal Telesio nel corso della solenne cerimonia funebre che si tenne a Milano il 19 gennaio 1519. Il Trivulzio aveva già stretto, oltre un decennio prima, un rapporto con Aulo Giano Parrasio (a Milano dal 1499 ca. al 1506), come è attestato dal ms Vat. Lat. 5233, f. 176r della Biblioteca Apostolica Vaticana (Praefatio ad Caesa Commentaria in Laudem Io. Iaco Trivulcii).

Oltre al Trivulzio, in questo periodo i Telesio frequentano diversi membri dell’intellettualità milanese. Lo zio Antonio ha modo di esercitare l’attività di professore di greco e di latino, e il giovane Bernardino fu tra i suoi allievi, insieme ad alcuni nomi illustri, fra cui si ricordano quelli di Gian Giacomo Ammiano e di Rodolfo Collino, i quali, a partire dagli anni Venti, ricopriranno rispettivamente gli incarichi di Rettore e professore di latino, l’uno, e di professore di greco, l’altro, nel celebre Collegio di Zurigo. Sul periodo milanese, la più autorevole delle fonti resta la biografia di Antonio Telesio scritta da Francesco Daniele nel 1762, pubblicata nell’edizione delle opere di Antonio Telesio (F. Daniele, Antonii Thylesii Consentini Vita a Franciscio Daniele conscripta, in Opera, Neapoli, excud. Fratres Simonii, 1762, pp. x-xi: «Hinc Mediolanenses singulari flagrantes studio patriam Academiam viris omni disciplinarum genere ornatissimis augendi exornandique, eum [Antonius Thylesius] amplo et magnifico constituto stipendio, acciverunt, ut publice Graecos Latinosque scriptores iuventuti suae interpretaretur […]. Inter alios sollertissimos discipulos qui eum Mediolani docentem frequentes audivere, recensetur Johannes Iacobus Ammianus […], Rodulphus Collinus […] et Bernardinus Thylesius fratris filius, qui illuc Consentia se contulerat, quo commodius apud patruum bonis litteris vacaret»). Giuseppe Carafa riporta, a proposito del soggiorno milanese del Telesio: «Docuit etiam Mediolani, uti testatur Gesnerus in Bibliotheca, qui Telesium magnis laudibus extollit videndi» (G. Carafa, De Gymnasio Romano et de eius professoribus libri duo, Romae, typis Antonii Fulgonii, 1751, lib. ii, cap. i, p. 313). Della presenza di Antonio Telesio a Milano si ricorda anche Matteo Bandello (1485-1561), che ne lascia memoria nelle sue Novelle (edite per la prima volta in Lucca, per Vincenzo Busdrago, 1554; ried. Firenze, Tipografia Borghi e compagni, 1832), in una novella a Mons. Giovanni Gloriero: «Sempre di voi sono stato ricordevole; dopo che un dì nel convento delle Grazie di Milano, in compagnia del dotto messer Stefano Negro, di messer Valtero Corbetta, uomo ne l’une e l’altra lingua erudito (e se male non mi sovviene, credo ci fosse anco messer Antonio Tilesio) dei Commentari delle lezioni antiche di Celio Rodigino a lungo ragionammo» (p. 539), ed in una seconda novella, indirizzata a Francesco Peto Fondano: «Quel giorno che voi alla presenza della nuova Saffo, la Signora Camilla Scarampa e Guidobona, in casa sua recitaste l’arguto vostro epigramma fatto in lode della […] Signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, il nostro messer Antonio Tilesio molto quello commendò. Onde io per l’amicizia che seco ho, lo pregai che anco egli volesse alcuno de’ suoi poemi recitare. Egli, che è gentilissimo, non sostenne essere troppo pregato, ma con quella soavissima sua pronunzia recitò il suo Pomo Punico, o vero, come volgarmente si dice, granato; di modo che il vostro e il suo poema a tutti mirabilmente piacque. Tutti e due poi, non contenti di averli recitati, di vostra mano scritti me li deste. Indi ragionandosi di varie cose, la signora Camilla pregò Tilesio che con alcuna novella ci volesse alquanto intertenere. Il che egli graziosamente fece, narrandoci una non molto lunga novelletta che a tutti fu grata» (p. 734).

1523-1527

Bernardino frequenta, insieme allo zio Antonio e ai giovani patrizi cosentini presenti a Roma in quegli anni (Coriolano Martirano, 1503-ca.1557/1558, Giovanni Antonio Pantusa, (1501-1562 ), l’ambiente della corte pontificia di Clemente VII e della Biblioteca Vaticana, animata da diversi intellettuali e patroni, come Paolo Giovio (1483-1552), Marco Girolamo Vida (1485-1566), Gian Pietro Carafa (1476-1559, futuro Paolo IV), Tommaso De Vio (Cajetanus, 1469-1534; a Roma nel 1524 e nel 1527), Gian Matteo Giberti (1495-1543, datario papale, sebbene nel lasso di tempo che va dal 1522 al 1527 egli si trovi a Roma solo per brevi periodi), Marcello Cervini (esperto di astronomia e allievo del Piccolomini a Siena, a Roma dal 1524 al maggio del 1525). Il Giovio, che a Roma fu titolare della cattedra di filosofia morale negli anni 1514-1519, 1523-1527 e 1540-1549, nei suoi Elogi dei letterati illustri, ricorda che Antonio Telesio fu chiamato a Roma da Clemente VII per tenere «un corso su Orazio» (Elogium Virorum litteris Illustrium, Basileae, 1577, p. xxiii: «At Romae in Gymnasio Horatium comiter et tenere professus sacerdotium a Gilberto promeruit, effugitque cladem Urbis, ut in patria non plane senex interiret»). Una notizia analoga è riportata da Giuseppe Carafa nel suo De Gymnasio Romano: «Antonius Tilesius Consentinus excelluit Gloria Oratoriae Artis, atque Poeticae in Romano Gymnasio» (G. Carafa, De Gymnasio Romano et de eius professoribus libri duo, 1751, p. 313). Nell’ambiente della Biblioteca Vaticana (luogo certamente frequentato dai docenti dello Studium Urbis), i Telesio possono avere conosciuto personalità eminenti come Gian Giorgio Trissino (1478-1550) e Giano Lascaris (1445-1534/1535). Una prova tangibile del fermento culturale presente nel quinquennio antecedente al Sacco di Roma (1527) ci viene dalla quantità di opere pubblicate dallo stampatore apostolico Francesco Minizio Calvo (ca.1499-1548). Dal 1523 al 1527 troviamo, oltre alle opere di Antonio Telesio (Poemata, 1524; De Coronis, 1525; In Odas Horatii Flacci Auspicia ad Juventutem Romanam, 1527), scritti e raccolte di Angelo Poliziano, di Paolo Giovio, di Iacopo Sannazaro, di Erasmo da Rotterdam, di Niccolò Machiavelli, e classici del pensiero greco e latino, come Ippocrate, Galeno, Virgilio e Plutarco (cfr. F. Barberi, Le edizioni romane di Francesco Minizio Calvo, 1952, pp. 57-98).

Nella prima edizione dei Poemata di Antonio Telesio (maggio 1524), si trova una poesia dal titolo Nenia de obitu patris, rivolta al padre Berardino (1450/1460-ca.1519).

Nel 1526, in occasione delle nozze tra Scipione Capece (ca.1480-1551) e Giunia Caracciolo, Antonio Telesio fa pubblicare un Epithalamium in Nuptias Scipionis Capycii & Iuniae Caracciolae (Neapoli, Evangelistam Papiensem). Il testo è un documento importante che testimonia l’esistenza di un rapporto tra i Telesio e una delle figure più importanti della intellettualità del viceregno, forse risalente già ai primi anni Venti del xvi secolo.

Negli anni successivi (1546), il Capece si rese autore di un poema naturalistico dal titolo De principiis rerum, che costituì un punto di riferimento per la cultura scientifico-umanistica del xvi secolo. Non è un caso che, molti anni più tardi, nel dialogo Il Gonzaga (1580), Torquato Tasso ricorderà il «Signor Capece ne la corte di Salerno» come esempio di gentiluomo virtuoso nonostante l’audacia delle idee («non sol aristotelico d’opinione ma seguace anco d’Alessandro»). Cfr. T. Tasso, I dialoghi, vol. i, a cura di Cesare Guasti, Firenze, Felice Le Monnier, 1838, p. 45.

maggio-luglio 1527-novembre 1529

Al maggio del 1527 risale il famoso ‘Sacco di Roma’, compiuto dalle truppe imperiali di Carlo V, che si avvalsero per l’occasione anche della milizia mercenaria reclutata da Georg von Frundsberg (1473-1528). Antonio Telesio riesce a riparare e a fuggire nella Repubblica di Venezia, seguito verosimilmente dal giovane Bernardino.

Durante il Sacco di Roma, compiuto dalle truppe imperiali di Carlo V, che si avvalsero per l’occasione anche di una milizia mercenaria reclutata dal Frundsberg, Antonio Telesio riesce a riparare e a fuggire nella Repubblica di Venezia, seguito verosimilmente dal giovane Bernardino.

Nel suo Musaeum Historicum et Physicum (Venetiis, apud Juntas, 1640, pp. 77-80), il filosofo e medico Giovanni Imperiali (?-1653) riferisce dell’arresto di Bernardino Telesio durante il Sacco. Per quanto plausibile, la memoria dell’Imperiali non risulta documentata. I biografi citano quasi sempre una lettera di Coriolano Martirano al fratello maggiore Bernardino (c.1490-1548), contenuta nella raccolta delle Epistolae familiares, edite a Napoli nel 1556 presso lo stampatore G.A. Simonetta. Ma nella lettera in questione non v’è alcun riferimento al Sacco, né alla prigionia del giovane Bernardino, né al suo successivo rilascio attraverso la mediazione dei Martirano. L’epistola, che riportiamo qui di seguito («Thilesius iunior, etiam si non Patruum Thilesium haberet, ob suam indolem et egregias virtutes nobis charissimus esse debebat. Adde quod civis est; et ab illa familia, cum qua consuetudo nobis veterrima intercessit. Eum si tibi commendem, videar iniuriam nostrae cum Thilesiis amicitiae facturus. Tum etiam tuae consuetudinis oblitus; tantum te admoneo quicquid huius causa feceris te in Thilesii nepotem, in iuvenem egregium, in civem, in nostri quam amatissimum collaturum», ff. 8r-v) si limita apparentemente ad attestare i rapporti di consuetudine e familiarità che i Martirano avevano nei confronti del filosofo cosentino. Resta da chiedersi piuttosto perché e in quale periodo (dato che l’epistola non reca data) Coriolano abbia inviato la lettera a Bernardino. Sulla scorta dell’Imperiali, Luigi De Franco ha ritenuto, come già aveva fatto il Fiorentino, di poter collegare il testo della lettera di Coriolano Martirano alle circostanze relative alla prigionia e alla scarcerazione di Bernardino Telesio. Sempre dall’Imperiali si apprende che, durante il Sacco, alla morte del conestabile di Borbone – comandante della milizia mercenaria –, «nel comando gli succedeva Filiberto d’Oranges, a cui fungeva da segretario il su ricordato Bernardino Martirano» (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 17). Di poco aiuto è la testimonianza di Paolo Giovio, il quale si limita a ricordare che Antonio Telesio «effugit cladem Urbis» (P. Giovio, Elogium virorum illustrium, Basileae, Petri Pernae, 1577, p. xxiii)1. Così le due epistole di Coriolano Martirano ad Antonio Telesio, inviategli presumibilmente verso il 1528-1529 – contenenti l’esplicito riferimento del Martirano alla presenza di Telesio a Venezia –, cfr. C. Martirano, Epistolae familiares, cit., ff. 31v-32v.

Non c’è dubbio che per comprendere l’intera vicenda occorre avere notizie più precise sulle biografie dei fratelli Martirano, e in particolare di Bernardino, destinatario della lettera summenzionata. Secondo Salvatore Spiriti, Bernardino Martirano si mise al seguito del vicerè Charles de Lannoy (1487-1527) sin dall’autunno del 1523, quando questi si recò in Lombardia «per li torbidi allora surti tra ’l pontefice Clemente VII, e i comandanti delle Truppe Cesaree» (S. Spiriti, Memorie degli Scrittori Cosentini, 1750, p. 53), partecipando alla battaglia di Pavia (24 febbraio 1525). Come ricorda Elena Valeri, «in occasione di quella missione, protrattasi per alcuni anni, il Martirano ebbe modo di conoscere il conestabile Carlo di Borbone, passato dal campo francese a quello spagnolo, e di divenire in breve tempo suo fidato collaboratore» (E. Valeri, Martirano, Bernardino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, 2008). La memoria dello Spiriti pone qualche interrogativo nella ricostruzione del quinquennio 1523-1527, a partire dalle testimonianze della presenza di Bernardino Martirano a Roma nelle fasi che precedettero l’invasione della città da parte delle truppe imperiali di Carlo V (6 maggio 1527), e per la presenza nella stessa città del fratello minore, Coriolano. Per questo, è necessario ripercorrere brevemente la biografia di Charles de Lannoy. Quest’ultimo fu nominato da Carlo V vicerè di Napoli, carica che mantenne dal 16 luglio 1522 al 20 ottobre 1523. Alla fine del 1523 fu eletto capo delle armate imperiali. Nel 1524 prese parte alla campagna militare in Lombardia, e fu presente nella battaglia di Pavia (24 febbraio 1525). Egli si recò nuovamente a Napoli nel 1526 per far fronte alle pressioni della flotta francese, e il 1° dicembre si incontrò a Gaeta con Ascanio Colonna (ca. 1490-1557). Dopo essere stato battuto dalle truppe pontificie a Frosinone (30 gennaio), il Lannoy tentò (25 marzo 1527) di trattare una tregua con Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1478-1534). Nel frattempo, il duca Carlo di Borbone (Charles de Bourbon-Montpensier, 1490-1527) continuò la marcia verso Roma al comando delle truppe imperiali, perdendo la propria vita nelle fasi iniziali del conflitto. Il 6 maggio 1527 la città fu invasa dalle truppe di Carlo V e dalle milizie del Frundsberg. Clemente VII capitolò il 5 giugno. Le armate occupanti lasciarono Roma solo nel febbraio del 1528, mentre Charles de Lannoy morì, colpito dalla peste, il 23 settembre 1527, a Gaeta.

È dunque evidente che Bernardino abbia sostato solo per breve periodo a Roma, cioè, al seguito del Lannoy, a partire dal 25 marzo del 1527. Altrettanto evidente è l’ipotesi della presenza a Roma del fratello di Bernardino, Coriolano; e ciò permette di supporre che la lettera inviatagli da quest’ultimo, più volte citata dai biografi come testimonianza di una collaborazione dei Martirano alla presunta scarcerazione di Bernardino Telesio durante le prime fasi del sacco (giugno o luglio 1527), consista di fatto nell’avvertimento, di Coriolano al fratello, di prendere in considerazione che a Roma, durante i tumulti del 1527, si trovassero personalità di rilievo, come il giovane Telesio, che andavano trattate con un certo riguardo. L’epistola sopra citata attesta che il fratello minore di Bernardino Martirano si trovasse già da qualche tempo stabile a Roma, e non potè essere scritta e inviata da Coriolano più tardi del luglio del 1527.

A Venezia, Antonio Telesio ottiene l’incarico di professore di latino presso il Consiglio dei Dieci, cominciando il suo corso di lezioni il 17 ottobre 1527: «In questa mattina fu prinzipià a lezer in Humanità per Antonio Telesio Consentino, noviter condutto a lezer alli Secretarii per il Consiglio dei Dieci; con 100 ducati all’anno» (F. Daniele, Antonii Thylesii Consentini Vita, in A. Telesio, Opera, 1762, p. xv; Carmina et epistolae, 1808, p. xxiii). Dall’opera di Giacomo Morelli, in cui sono riportate alcune parti dei Diari di Marin Sanudo (1466-1536), leggiamo: «ex Ephemeridibus manuscriptis Marini Sanuti, Thylesium Venetiis anno 1527, humanas litteras scribis reipublicae innoribus publico stipendio tradere coepisse, idque munus ad an. 1530» (I. Morelli, Bibliothecae Regiae, tomus primus, Bassani, ex Typographia Remondiniana, 1802, pp. 456-458, qui p. 458). Sempre a Venezia, Antonio Telesio fu precettore dell’umanista Sebastiano Corradi (ca. 1510-1556). Nella Repubblica veneta Antonio e Bernardino restano fino al settembre-ottobre del 1529. Al periodo compreso tra l’estate del 1527 e l’estate del 1529 risale presumibilmente il soggiorno di Bernardino Telesio a Padova, dove venne in contatto con l’ambiente dell’aristotelismo padovano (F. Daniele, Antonii Thylesii Consentini Vita, p. xv).

I registri dell’Università di Padova (Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini: ab anno 1526 ad annum 1537, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova, Antenore, 1970) non recano traccia della presenza di Bernardino né come studente, né come doctor artium et medicinae. Lo stesso De Franco trova incerta (oltre che non verificabile) la fonte citata nel 1726 da Niccolò Comneno Papadopoli nella sua Historia Gymnasii Patavini (Venetiis, 1726, p. 248), poi riportata nella riedizione del 1733 della biografia del Lotter, in cui si fa riferimento sia ad un «Albo dei Siciliani» («ex Albo Siculorum (ad annum 1535)» che ad «Atti del Collegio Filosofico di Padova» («et Actis Collegii [Patavini Philosophici]»). Sempre De Franco rinvia ad uno dei rari passi autobiografici del Telesio, contenuti nel Proemio al De Natura (1565), in cui il filosofo cosentino dichiara a chiare lettere che «neanche in questa ultima fase della vita mi è stato concesso tempo per dedicarmi alla filosofia, senza aver mai avuto grande libertà di tempo né grande tranquillità d’animo, né l’insegnamento di un chiaro maestro né la frequentazione delle rinomate accademie italiane, ma per la maggior parte del tempo in solitudine, oppresso da fastidiosissime incombenze ho letto e riletto le opere greche, riuscendomi poco perspicue quelle in lingua latina poiché piene di termini incomprensibili»: «At neque adhuc mihi confisus, cui, ut dictum est, extremum modo vitae tempus philosophari licuit, et nequaquam in magno ocio magnaque animi tranquillitate, neque in publicis inclitisque Italiae academiis a praestante aliquo viro edoceri, sed in magnis plerunque solitudinibus, molestissimis oppresso impedimentis, Graecorum monumenta evolvere, Latina non satis percipienti, ignota referta vocibus» (Prooemium, pp. [3-4], c.m.). Tuttavia, è plausibile che Bernardino abbia fatto, proprio allora (più precisamente nel 1528), la conoscenza dello studioso aristotelico Vincenzo Maggi (ca.1498-1564), lo stesso a cui mostrerà a Brescia, nel 1563, la versione definitiva del suo De natura iuxta propria principia, liber unus et secundus (1565). A Padova, il Maggi ottenne il titolo di doctor artium et medicinae nel 1528 (cfr. L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, 1995, pp. 18-22).

Anche il sopra citato Gian Pietro Carafa, figlio di una delle famiglie più antiche della nobiltà napoletana, si rifugiò a Venezia dopo il Sacco di Roma, e non si può escludere che, durante il soggiorno nella repubblica veneta, i Telesio l’abbiano frequentato, tenuto conto dei rapporti di patronage che si instaurarono, nei decenni successivi, con i membri della famiglia Carafa; in particolare, con Alfonso Carafa (†1581), Giovanna Castriota e, successivamente con il figlio, don Ferrante, IV duca di Nocera (†1593). Nella geneaologia dei duchi di Nocera, Ferrante Carafa risulta citato sotto il nome di Ferrante o Ferdinando II; per questo motivo, in alcuni casi è citato come II duca di Nocera (espressione che, di fatto, risponde a Ferrante I, II duca di Nocera, padre di Alfonso Carafa). Cfr. B. Aldimari, Historia Geneaologica della famiglia Carafa, 1691, t. ii, pp. 235-244, e t. iii, pp. 170-174.

Sulla formazione del giovane Bernardino, come si è detto, una decisiva influenza fu esercitata dallo zio Antonio. Quest’ultimo, a Venezia, pubblicò, presso lo stampatore Bernardino Vitali (fl. 1494-1539), il De coloribus libellus (Venetiis, giugno 1528) e l’Imber aureus (Venetiis, maggio 1529). Nel 1529 i Telesio si imbarcarono per fare ritorno in Calabria. Le circostanze avventurose relative al loro rientro (l’imbarcazione che li trasportava rischiò di naufragare all’altezza del canale di Otranto e solo fortunosamente riuscì a sbarcare sulle coste dell’Alto Jonio, «apud Rossanum Calabriae urbem») sono narrate in una lettera di Antonio Telesio all’amico Benedetto Ramberti (1503-1547), datata 25 novembre 1529. (F. Daniele, Carmina et epistolae, Neapoli, ex Typographia Regia, 1808, pp. 40-45).

Tra le opere di Antonio Telesio pubblicate durante il soggiorno veneto, una particolare menzione merita il De coloribus, uno dei testi più importanti del xvi secolo, ristampato innumerevoli volte, e più volte citato da letterati e umanisti del Cinquecento e del Seicento, nel quale troviamo, oltre ad una ricca terminologia sui colori, importanti suggestioni filosofiche – sul rapporto fra natura e arte, e sull’universalità del sentire – filtrate da testi virgiliani e ciceroniani, che lasciarono un’impronta indelebile nella mente del giovane Bernardino (cfr. E. Sergio, Telesio e il suo tempo: considerazioni preliminari, «Bruniana & Campanelliana», xvi, 2010, 1, pp. 111-124, spec. 121-124).

28 aprile 1531

In data 28 aprile 1531, Bernardino Telesio, «clericus cosentinus», è procuratore di Giovanni Maria Bernaudo, che rinuncia al decanato della chiesa di Cosenza (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iii, p. 401, doc. 16983).

Sempre nel corso del 1531, più precisamente ad un periodo compreso tra fine ottobre e inizi novembre, si lascia risalire la morte del padre di Bernardino Telesio, Giovanni (Battista): in data 5 novembre 1531 viene concessa a quest’ultimo l’indulgenza plenaria (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iii, p. 405, doc. 17023). Nel regesto telesiano, è questo l’ultimo atto riferibile al padre di Bernardino (cfr. V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 152, doc. 16d).

luglio 1531

Ormai stabile a Napoli, con la nomina di segretario del viceregno, Bernardino Martirano pubblica per i tipi di Johannes Sultzbach il commento di Parrasio all’Ars Poetica di Orazio (A. Iani Parrhasii Cosentini in Q. Horatii Flacci Artem Poeticam Commentaria luculentissima, cura et studio Bernardini Martyrani in lucem asserta, Neapoli, Ioannis Sultzbachii, vi Idus Iulias, 1531). L’edizione è corredata da una importante epistola dedicatoria di Bernardino al cardinale Benedetto Accolti (1497-1549). Scrive Elena Valeri: «La lettera al cardinale Benedetto Accolti premessa al testo rappresenta l’unico scritto del Martirano dato alle stampe in vita, fatta eccezione per alcuni versi dedicati all’umanista campano Giovanni Francesco (Giano) Anisio, che li inserì nei suoi Variorum poematum libri duo (Napoli, G. Sultzbach, 1536, f. 32)» (E. Valeri, Martirano, Bernardino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, 2008). L’epistola al cardinale Accolti esprime anche, come ha osservato Francesco D’Episcopo, «una professione di fede del discepolo nel messaggio culturale del maestro», cioè Aulo Giano Parrasio (F. D’Episcopo, Aulo Giano Parrasio, fondatore dell’Accademia Cosentina, Cosenza, Pellegrini, 1992, p. 34), definito dal Martirano come «praeceptor meus, vir magno ingenio, et doctrina» (f. 2r).

gennaio 1532

Giano Piero Cimino, allievo del Parrasio e membro del cenacolo umanistico dei fratelli Martirano, attende alla realizzazione di un’edizione dell’Ars grammaticalis di Flavio Sosipatro Carisio (Institutionum grammaticarum libri quinque a Jano Parrhasio olim inventi ac nunc primum a J. Pierio Cymmino Jani auditore in gratiam adulescentium Consentinorum editi, Neapoli, ex officina J. Sultzbachii Hagenovensis Germani, 1532). Nell’Epistola dedicatoria a Coriolano Martirano, già vescovo di S. Marco Argentano («Io. Pierius Cyminius Cosentinus amplissimo praesuli Coriolano Martyrano S. Marci episcopo utriusque linguae peritissimo»), Cimino ricorda di essere stato, negli anni dell’adolescenza, allievo del Parrasio («Annus iam agitur, ni fallor, quartus et decimus, amplissime simul et eruditissime praesul, ex quo A. Ianus Parrhasius, praeceptor olim meum»); menziona il padre di Coriolano e Bernardino Martirano, Giovan Battista, la statura intellettuale di Antonio Telesio e la giovane età del nipote Bernardino, chiamato per l’occasione «Thylesinus» («eruditissimus vir Antonius Thylesius noster, qui ante cineres aeternitatis nomen est assecutus, necnon Bernardinus Thylesinus, ita pangento carmini ac orationi salutae promptus, ut Thylesii patrui alumnus merito videatur»); rammenta i suoi maestri presso lo Studium napoletano («Hieronymus Rufus Neapolitanus, […] et [Ioannes] Philocalus Troianus meus, publicus Latinitatis professor et diligentissimus»). L’epistola conferma l’ipotesi della permanenza di Bernardino Telesio a Napoli nel corso del 1532, ed è una testimonianza importante del clima culturale vigente a Napoli presso la cerchia degli studiosi cosentini. Nell’opera è contenuta un’ode di Leonardo Schipano («Leonardi Schipani ad Cosentiam Carmen»), che ricorda le origini cosentine del Cimino, e alcuni versi dell’orientalista Johann Albrecht Widmanstetter (sotto il nome di «Lucretius Oesiander»). Cfr. F.S. Carisio, Institutionum grammaticarum libri quinque, Neapoli, ex officina J. Sultzbachii, 1532 [f. 2r] (ried. in Corpus Grammaticorum Latinorum Veterum, collegit auxit recensuit ac potiorem lectionis varietatem, adiecit Friedericus Lindemannus, iv,i, Charisius, Lipsiae, sumptibus et typis B.G. Teubneri, 1840, pp. iii-vi).

Le date del trasferimento di Antonio Telesio a Napoli si evincono da una lettera indirizzata a Benedetto Ramberti, datata «Neapoli, xii dec. 1531». L’ultima lettera spedita da Cosenza reca la data «[Consentiae] xii kal. Oct. 1530» (A. Telesio, Opera, 1762, pp. 231-232, 230-231. L’Opera contiene due lettere al Ramberti che non risultano nella raccolta dei Carmina et epistolae, 1808. Una terza, inviata da Napoli in data 12 aprile 1532, è stata invece ristampata nelle pp. 48-49. Nella stessa raccolta si trova anche una lettera a Galeazzo Capella (1487-1537), inviata da Napoli il 12 settembre 1532, ivi, pp. 50-52, e una di Giano Teseo Casopero ad Antonio Telesio, datata 9 gennaio 1533, ivi, p. 58, che conferma la presenza del Telesio a Portici, presso la dimora dei Martirano). Intorno al dicembre del 1531 si può collocare la data del trasferimento di Bernardino Telesio a Napoli (non prima né dopo, come attesta un breve di Clemente VII a Pedro De Mendoza, datato 6 novembre 1531, in cui Bernardino è raccomandato al vicerè della Calabria per alcuni affari che dovrà svolgere a Napoli, cfr. Regesto Vaticano della Calabria, vol. iii, pp. 401 e 405, docc. 16983 e 17024).

Dopo l’elezione del nuovo vicerè, Pedro de Toledo (1484-1553), Bernardino Martirano continua a svolgere la mansione di segretario del Regno nel Regio Consiglio Collaterale (composto da un segretario, tre consiglieri e quattro reggenti) fino all’anno della sua morte, il 1548. È a partire dalla prima metà degli anni Trenta che il Martirano avvia i lavori di allestimento e ristrutturazione della sontuosa villa Leucopetra, sita presso Portici. La villa di Portici costituì da subito un punto d’incontro e di riferimento dell’intellettualità calabrese e napoletana, in un periodo segnato dalla scomparsa di Iacopo Sannazaro (1530) e dall’esaurirsi delle attività dell’Accademia Pontaniana. Il cenacolo di letterati ed eruditi che prese a riunirsi a Leucopetra riprendeva in parte gli ideali umanistici e l’ispirazione filologica del Parrasio, basata sullo studio dei classici greci e latini, dando al movimento culturale iniziato da quest’ultimo una forma e una struttura più ampie.

Una testimonianza importante di quegli anni è rappresentata dal Carmen nuptiale in Fabritii Maramauri nobilis et strenui ducis et Portiae Cantelmiae coniugis rarissimae nuptiis (Neapoli, imprimebat Ioannes Sullzbacchius, 1533) di Giovanni Filocalo (1497-1561). Nel Carmen nuptiale, il Filocalo presenta un elenco degli esponenti coevi più illustri del mondo letterario meridionale successivi a Iacopo Sannazzaro, tra i quali figurano Giano Anisio (1475-1540), Girolamo Borgia (1475-1550), Marcantonio Epicuro (1472-1555), Benedetto Di Falco (c.1500-c.1568), Berardino Rota (1508-1585), Scipione Capece (ca.1480-1551). A questi bisogna aggiungere quegli intellettuali calabresi che, sia pure per brevi periodi, si trovarono a frequentare il milieu di Leucopetra: Antonio e Bernardino Telesio, Niccolò Salerno, Giano Teseo Casopero, Luigi Lilio, Giano Piero Cimino, Aulo Pirro Cicala, Leonardo Schipano.

Nel réseau culturale napoletano sopra citato figurano, accanto ad autori come Scipione Capece e Antonio Telesio, personalità come Johann Albrecht Widmanstetter (1506-1557), Agostino Nifo (1469/70-1538) e Simone Porzio (1496-1554), allievo del Nifo. La studiosa Eva Del Soldato ha ricordato di recente che, «Quando nel 1525 il maestro [Nifo] fece ritorno a Napoli, Porzio lo seguì. Insegnando a partire dal 1529 presso lo Studio partenopeo [affiancato dal Nifo nel 1531], divenne in breve tempo una figura di riferimento della vita culturale cittadina. Entrò in tal modo in contatto con religiosi come Girolamo Seripando, poeti come Luigi Tansillo e Marcantonio Flaminio, liberi pensatori come Ortensio Lando, medici come Paolo Grisignano e Giovanni Filippo Ingrassia, e ricevette onori e stima da parte del viceré Pedro de Toledo e anche del signore di Salerno, Ferrante Sanseverino» (E. Del Soldato, Simone Porzio (1496-1554), in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia, 2012). Seppure negli anni Trenta il Porzio non vantasse ancora la produzione filosofico-scientifica che vedrà la luce delle stampe negli anni successivi (produzione che non passò inosservata a Bernardino Telesio, v. infra), non c’è dubbio che egli costituì, nel distretto napoletano, insieme al Nifo, al Capece e a molti altri, un interlocutore di rilievo per le discussioni sulla filosofia naturale nel secondo quarto del xvi secolo.

Sulla presenza del Nifo a Napoli, cfr. Margherita Palumbo, Nifo, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 78, 2013; Carlo De Frede, Docenti di filosofia e medicina nella università di Napoli dal secolo xv al xvi, Napoli, Litografia editrice A. De Frede, 2001, pp. 58-62. Sull’importanza della villa Martirano come centro di aggregazione dell’intellettualità calabrese e napoletana, cfr. E. Imbrogno, Un episodio di mecenatismo all’ombra di Carlo V: ville e raccolte d’arte dei fratelli Martirano, in Dal Viceregno a Napoli. Arti e lettere in Calabria tra Cinque e Seicento, a cura di I. di Majo, Napoli, 2004, pp. 13-69; E. Sergio, Parrasio in Calabria e la fondazione dell’Accademia Cosentina (ii): 1521-1535, «Bollettino Filosofico», 2009, pp. 487-516.

1534

Morte di Antonio Telesio. Della morte dell’umanista cosentino dà notizia il teologo Giovanni Antonio Pantusa (ca.1500-1562), nell’epistola dedicatoria a Pietro Antonio Sanseverino (1508-1559), principe di Bisignano, del suo Liber de Coena Domini: «Eo igitur animo, quo nos donamus, accipe, princeps Illustrissime, lucubrationes has nostras, quas si gratas tibi fuisse significabis, et me ad maiora audendum et coeterorum etiam doctorum et peritissimorum hominum (qui in patria nostra non pauci sunt) studia et ingenia ad idem faciendum excitabis; quibus et nomen tuum egregie illustrabitur et illi maiorum nostrorum, qui ingeniorum claritate et doctrinarum laude universae Italiae fuerunt ornamento, vestigiis studiosius inherebunt. E quibus [Consentinis] (ne omnes recenseamus) nostra aetas Parrhasium in primis est admirata, tum rerum gravitate tum dicendi copia nemini suae aetatis inferiorem, et ex oculis nostris nuper ablatum Thylesium, et carmine et oratione insignem ac nemini secundum, et utrumque in utraque lingua praestantem, qui ambo immatura morte intercepti complures studiorum suorum labores imperfectos reliquerunt» (G.A. Pantusa, Liber De Coena Domini, Romae, Bladum de Asola, Kalendis Junis 1534, p. [3]). Sulla prematura scomparsa dell’umanista cosentino si sofferma anche il Giovio, che nei suoi Elogi dei letterati illustri ricorda che Telesio «in patria non plane senex interiret» (P. Giovio, Elogium Virorum litteris Illustrium, Basileae, Petri Pernae, 1577, p. xxiii).

Data l’assenza di documenti al riguardo, non si è in grado di affermare con certezza che Antonio Telesio sia rientrato a Cosenza prima della sua morte (seppure sia probabile). Sulla base delle notizie relative alla biografia di Bernardino Telesio nel triennio che va dal 1536 al 1538, è lecito presumere che dopo la scomparsa dello zio, Bernardino, ormai ventiseienne, abbia fatto ritorno a Cosenza.

1535

Il 1535 è una data cruciale per la storia europea e per la storia del viceregno di Napoli. Nell’autunno del 1535 Carlo V rientra in Italia dopo avere riportato una memorabile vittoria a Tunisi. Per l’occasione, l’imperatore passò in rassegna le terre meridionali del Regnum Italicum, passando per la Sicilia, rendendo omaggio alla città di Cosenza, dove fu accolto con grandi onori il 7 novembre. La città lo accolse con scenografie trionfali, curate da Bartolo Quattromani: Cosenza fu rappresentata da una figura femminile, e l’imperatore vincitore, identificato con i personaggi di Scipione e di Ercole, fu celebrato come figura eroica, restauratrice di una nuova età di pace. Cfr. M.A. Visceglia, Il viaggio cerimoniale di Carlo V dopo Tunisi, in Carlos V y la quiebra del humanismo político en Europa (1530-1558), a cura di José Martínez Millán, Madrid, 2001, vol. ii, pp. 133-172.

Nel corso del trionfale ingresso di Carlo V in Cosenza, a presiedere la cerimonia di festeggiamento, insieme agli altri rappresentanti del sedile cosentino, troviamo Giovanni Pantusa (padre di Giovanni Antonio, 1501-1562), con la carica di sindaco. All’epoca, la città era governata da due sindaci, l’uno dei cittadini onorati, l’altro dei nobili. Giovanni Pantusa rivestiva la carica di sindaco degli onorati, mentre Ferrante Bernardo era sindaco dei nobili. Va ricordato che, mentre Carlo V si trovava a Cosenza, giunse a rendergli visita Pier Luigi Farnese (1503-1547) quale delegato di Paolo III, recando con sé l’invito da parte del pontefice a rendergli visita a Roma, per discutere alcuni punti cruciali della politica italiana ed europea.

Da quanto ci riferisce Salvatore Spiriti nelle sue Memorie degli Scrittori Cosentini (Napoli, nella Stamperia de’ Muzj, 1750, p. 30), si trovava allora a Cosenza uno degli antichi maestri di Aulo Giano Parrasio, cioè Giovanni Crasso Pedacio (c.1560-c.1535), autore di un componimento dal titolo Ad Augustum, et invictissimum Carolum V, Caesarem pro Tunetana expeditione (Romae, apud Minutium Calvum, 1535). Lo stesso Spiriti riporta in nota al suo testo l’incipit del componimento del Crasso (ibid., n. 2).

Secondo D. Zangari (L’entrata solenne di Carlo V a Cosenza. Con due tavole di fac-simili della relazione anonima, 1940, pp. 14-15), non si può escludere che la relazione delle feste cosentine, stampata in Napoli il 15 marzo 1536 e inviata da Cosenza il 13 novembre 1535, sia stata composta da Bartolo Quattromani, e spedita a Napoli a Giovan Battista Martirano o al figlio Bernardino.

Durante la sua permanenza a Cosenza, Carlo V fu anche ospite (l’8 novembre) del principe di Bisignano, Pietro Antonio Sanseverino, che lo accompagnò a visitare il feudo di S. Marco Argentano il 10 dello stesso mese. Se Telesio si trovava a Cosenza in quel periodo, si può presumere ch’egli abbia partecipato, insieme agli altri nobili e cittadini cosentini, ai cerimoniali di festeggiamento dell’imperatore vittorioso.

A Napoli Carlo V giunse il 25 novembre, e, prima di fare il suo ingresso in città, in attesa che si completasse l’allestimento degli apparati per il suo ingresso trionfale, egli trascorse alcuni giorni (dal 22 a 24) a Leucopetra, nella «sontuosa» villa dei Martirano (cfr. M. Borretti, Il viaggio di Carlo V in Calabria (1535), p. 11). Come ha scritto Elena Valeri, l’ospitalità concessa dall’imperatore al Martirano costituì «un privilegio assoluto, […] una sorta di riconoscimento ufficiale, al massimo livello del potere politico, del prestigio acquisito dall’alto funzionario della corte vicereale» (E. Valeri, Martirano, Bernardino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, 2008).

10 gennaio 1536

Francesca Telesio, sorella di Bernardino, sposa Giovan Battista Caputi. Giovan Francesco Caputi, figlio di questa unione, nipote di Bernardino, sarà uno degli amici e corrispondenti di Sertorio Quattromani (F. Bartelli, Note biografiche, p. 15; V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 26, doc. 57).

1 settembre 1536

Motu proprio di Paolo III Farnese per il conferimento di un beneficio ecclesiastico a Bernardino Telesio, «clerico Cusentino», definito nell’atto «familiaris nostro […] etiam continuus commensalis» (S.G. Mercati, Appunti telesiani, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», vii, 1937, p. 216; l’atto, conservato nel vol. 22 dell’Arch. Vatic. Secr. Cam., fol. 175r-176v, è stato pubblicato per intero dal Mercati nelle pp. 216-218). Il Mercati ipotizza anche, sulla scorta dell’espressione usata da Paolo III («familiaris nostro […] continuus commensalis»), che nel corso dell’anno il Telesio abbia trascorso un periodo soggiorno a Roma (forse nella primavera del 1536, quando Carlo V, dopo aver trascorso i primi mesi dell’anno a Napoli, giunge a Roma, il 5 aprile, accolto da Paolo III).

Nel corso del 1536 si trovano a Roma sia Nicola Ardinghelli (1503-1547) che Marcello Cervini (1501-1555), i quali frequentano il gruppo dei segretari del cardinale Alessandro Farnese (1520-1589). Quattro anni più tardi, l’Ardinghelli prenderà il posto del Cervini come segretario del Pontefice, e al 1542 risale un documento attestante l’esistenza di un rapporto tra l’Ardinghelli e Tommaso Telesio, fratello minore di Bernardino (v. infra). Nello stesso lasso di tempo si trova a Roma anche Mons. Giovanni Gaddi (1493-1542), fratello minore del cardinale Niccolò Gaddi (1490-1552), che fu elevato alla porpora cardinalizia da Clemente VII il 3 maggio 1527, e successivamente eletto (31 gennaio 1528) arcivescovo di Cosenza, carica che mantenne fino al 21 giugno 1535, quando l’amministrazione della diocesi fu affidata al nipote Taddeo (cfr. V. Arrighi, Gaddi, Niccolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, 1998). Come si vedrà nelle lettere seguenti, le vicende di Giovanni e di Niccolò Gaddi sono di un certo interesse per la ricostruzione delle relazioni intrattenute da Bernardino Telesio nel periodo che va dai primi mesi del 1538 fino alla prima metà degli anni Quaranta, essendo più volte citati nell’epistolario di Annibal Caro (v. infra).

1536-1538

Ad un periodo compreso fra il 1536 e il 1538 risale, grosso modo, il primo ritiro di Bernardino Telesio nella Grancia del monastero di Seminara, sito nella diocesi di Oppido. Nella Oratione in morte di Berardino Telesio philosopho (1596), Giovan Paolo d’Aquino, scrive al riguardo: «Costui [Telesio], per poter meglio investigare i secreti della natura, per molti anni si disgiunse dalla frequenza de gli huomini, et lasciò la patria, i parenti, gli amici, et si raccolse in un monastero di frati di San Benedetto, et ivi habitò, perché vide, che la solitudine era la porta della contemplatione» (G.P. d’Aquino, Oratione, p. 17). Il ritiro telesiano può avere avuto inizio nell’estate del 1536, come attesta un documento, datato 9 agosto 1536, che si collega al motu proprio di Paolo III (v. supra), nel quale si assegnano a Bernardino Telesio uno o due benefici nella diocesi di Mileto e di Oppido (F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. iii, 479, doc. 17727); e non può essersi protratto oltre la fine di febbraio o gli inizi marzo del 1538, com’è accertato da una lettera di Annibal Caro a Benedetto Varchi, datata 10 marzo 1538 (v. infra). Nel convento benedettino il filosofo cosentino tornerà anche nei decenni successivi. E, sempre negli anni seguenti, come attesta una lettera indirizzata al cardinale Guglielmo Sirleto, datata 23 dicembre 1569, Bernardino ricorderà: «in una Badia di Mons. Di Selve, qual’ho tenuta molti et molti anni in fitto, […] ho fatto bona parte della vita mia» (cfr. L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 44-45).

La scelta di Seminara non fu affatto casuale: nel xvi secolo la diocesi di Mileto fu una delle più attive e fiorenti della Calabria Ulteriore e il monastero di Seminara fu uno dei principali centri di aggregazione della spiritualità e della cultura in Calabria. Il monastero ospitava anche religiosi di altri ordini, come quello dei Cappuccini. Giovanni Fiore da Cropani, nel tomo secondo della sua Della Calabria illustrata, ricorda fra le figure più importanti del centro diocesano Fra Giovanni di Seminara (1493-1593) che vestì prima l’abito dell’Osservanza, poi quello dei Cappuccini, e prima di passare con quest’ordine in S. Elia di Galatro, dimorò in Seminara. Avendo egli dedicato all’ordine 60 dei suoi 100 anni, si può presumere che sia entrato nell’Ordine Benedettino intorno al 1533. In quel periodo era vescovo di Mileto Quinzio De Rusticis, cui succede nel 1541 Giovan Pietro Ferretti da Ravenna, sostituito nel 1545 da Gregorio Casella, frate domenicano ed insigne teologo, e, nel 1561, dopo un’altra breve permanenza del De Rusticis, da Innico d’Avalos di Aragona, nobile napoletano, fatto cardinale nel 1561 da Pio IV. Nel 1573 il d’Avalos rinunzia in favore di Giovan Maria de Alessandris, vescovo di Oppido e già vicario generale di Mileto, il quale manterrà questa carica fino al 1585, prima dell’elezione di Marco Antonio del Tufo, nobile napoletano (G. Fiore da Cropani, Della Calabria illustrata, rist. dell’ediz. del 1743, Napoli, presso la Stamperia di Domenico Rosselli, t. ii, a cura di U. Nisticò, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 248-249, 254, 424, 564-565, 569, 591).

13 maggio 1536

Paolo Telesio, canonico cosentino, è procuratore di Giovanni Antonio Pantusa, Tesoriere della Chiesa di Cosenza (Regesto Vaticano della Calabria, vol. iii, 473, doc. 17670). La presenza del canonista a Cosenza non è priva di rilievo: il Regesto Vaticano della Calabria ci attesta l’esistenza di rapporti intrattenuti con la famiglia Telesio e la sua figura di intellettuale e teologo non passò inosservata al Telesio che in quegli anni andava completando il suo percorso di formazione. Prima di intraprendere la carriera ecclesiastica, il Pantusa fu autore nel 1525 di un commento alla Metafisica di Aristotele (Ioannis Antonii Pandosii Cosentini ... Questiones super duodecim libros Methapisice Aristotelis, Romae, apud Antonium Bladum de Asola die 4. mensis Octobris, 1525), in cui sono prese in esame e dibattute le principali correnti dell’aristotelismo scolastico (la scuola tomista e quella scotista).

Il teologo cosentino prende in esame gli argomenti pro e contra le principali tesi contenute nell’opera dello Stagirita e, sia pure mantenendo una certa equidistanza formale tra Tommaso e Scoto, tende a privilegiare le tesi di quest’ultimo. Si tratta di un tentativo giovanile di critica dell’aristotelismo scolastico nella versione tomista, un approccio che lo stesso Pantusa abbandonerà negli anni successivi, avvicinandosi alle dottrine dell’Aquinate e agli ambienti dell’Ordo Praedicatorum. Questa operetta giovanile era sicuramente nota ai cosentini che a Roma ebbero modo di conoscere e frequentare il Pantusa. Il Telesio può avervi trovato un utile strumento per impadronirsi dei rudimenti della filosofia aristotelica e del dibattito vigente intorno ad una delle opere più importanti della filosofia antica.

 10 marzo 1538

Annibal Caro invia a Padova una lettera a Benedetto Varchi (1503-1565), nella quale si attesta l’effettiva permanenza del Telesio a Roma. Nella lettera il Caro scrive che

«Il Tilesio venne a pranzo con esso noi, e, levati da tavola, Monsignore [Giovanni Gaddi] mi chiamò in camera, e per se stesso, m’entrò nelle cose del cardinale [Niccolò Gaddi], ed io lo tirai destramente in su le nostre. […] Tanto ho detto al Tilesio ora; se ’l cardinale arà voglia di beneficare messer Lorenzo [Lenzi], si vedrà, perché la cosa vi cade per se stessa. […] Io vicitai il cardinale, il quale mi fece gran cera; e nel ragionare mi disse mille beni di messer Lorenzo, ed io non lassai indietro l’occasione: in somma, gli ha un buon animo addosso, ed avemo compilato, il Tilesio ed io, di dar fuoco alla faccenda, e non si mancherà di qua ogni sollecitudine; e quando sarà il tempo, ci metteremo il Molza e messer Marcello [Cervini] e tutti, che giudicheremo a proposito.
L’Ardinghello [Niccolò] è ancora nella Marca; quando tornerà, metteremo su ancora Sua Signoria. In tanto, dite a messer Lorenzo che stia saldo e che se Dio e la fortuna e gli amici l’aiutano, non si disaiuti da se stesso; e di quello si farà, sarete ragguagliato. Le lettere mi scrivete sopra questa materia, mandatele più cautamente, perché l’ultima volta ho avuta per man di messer Antonio [Allegretti], del quale non suspico; ma potrebbe dare in Monsignore. Mandatele a Venezia in mano di Michele Tramezzino libraio o di messer Paolo Manuzio che le mandi qui a Francesco; ché se si sa per Monsignore che io sapessi la trama, si dorrebbe di me a cielo. E per questo ho detto ancora al Tilesio che dica al cardinale che io non so niente della cosa, ancora che Sua Signoria Reverendissima gli avesse commesso che mi conferisse ogni cosa.
[…] Fatemi servitore di Monsignor Bembo e di Monsignor di Cosenza [Taddeo Gaddi]. E voi state sano ed amatemi.
Di Roma, a’ 10 di marzo 1538»
(A. Caro, Lettere familiari, 1531-1544, pubblicate di su gli originali Palatini e di su l’apografo parigino, a cura di Mario Menghini, Firenze, G.C. Sansoni, 1920, pp. 73, 74-75, 76).

Una seconda lettera del Caro a Benedetto Varchi, spedita sempre a Padova, menziona nuovamente Bernardino Telesio, nel ruolo di mediatore con il cardinale Niccolò Gaddi per la concessione di alcuni benefici a Lorenzo Lenzi (1516-1571), nipote del Gaddi per parte della sorella Costanza:

«Mi meravigliava ben io che questo cristiano [forse Niccolò Gaddi] stesse tanto in un proposito: ma non m’inganna di molto. Io v’ho scritto per altra che la cosa era ridotta a un termine che non mancava se non che egli volesse quel che mostrava di desiderare, la qual cosa a voi di costà è parsa sempre punto risoluta. Ma ora, in su lo stringere, il Telesio l’ha trovato, non solamente volto a non farlo, ma molto crucciato con Lorenzo, ed allega che di costà gli sia rapporto che sia più desviato che mai, e che tutto il giorno è col signor P…. [forse Piero Strozzi] e con voi; che se non fa altro, mi parrebbe pur troppo bene avviato. Ma io vo pensando che questo sia un volersi ritirare in dietro e che egli abbia messa innanzi questa pratica per iscoprir paese di qua, e così la ’ntendo io, perché non mi si fa a credere che doppo la partita sua di costà, Lorenzo abbia potuto far tanti disordini che ne sia così presto giunta la querela, tanto più che mi disse bene e di lui e di voi; il che non può stare insieme co ’riprenderlo de la pratica vostra; sì che credete a me che questa è stata una lustra. Il Tilesio dice che tenterà di nuovo. Intanto, se vi pare di farvi giustificazione alcuna, sarà bene che a Lorenzo diciate la querela de l’amico, ma non il ritiramento, perché mi pare che la tema di perdere una tale occasione gli possa esser buon freno a tenerlo a le mosse. […] Sua Signoria Reverendissima [Niccolò Gaddi] partirà con la Corte [si intende al seguito di Paolo III, il quale partì da Roma il 23 marzo, per giungere a Nizza il 17 maggio, nel tentativo di discutere la pace fra Carlo V e Francesco I] fra due dì’, e per aventura tornerà di costà. Voi sapete ora come le cose passano: rimediate al bisogno. Avanti che parta lo visiterò per ritrarne qualche altra cosa. In tanto state sano, tenete le mani addosso a Lorenzo; ed a lui, a l’Ugolino [Ugolino Martelli, 1519-1592] ed al Francese [Mattio Franzesi o Francesi, ca.1503-1555, v. infra] mi raccomandate.
Di Roma, a li 23 di marzo 1538».
(ivi, pp. 80-81).

Un’altra lettera del Caro, scritta «Al signor Gio. Francesco Caserta a Napoli», da Roma, in data 7 settembre 1538, conferma ulteriormente la permanenza di Bernardino Telesio a Roma:

«[…] Mandovi un sonetto che ’l Tilesio m’a fatto fare a dispetto de le Muse, per un vostro giovinetto, credo figliuolo de la Contessa di Matalona […], e non mi son potuto contenere di non far menzione de la sua bellissima madre […].
Di Roma a li 7 di settembre 1538»
(ivi, p. 125; cfr. Lettere inedite di Annibal Caro, con annotazioni di Pietro Mazzucchelli, tomo i, Milano, Tipografia Pogliani, 1827, p. 31).

19 marzo 1539

Nel 1539 è certo che Bernardino Telesio si trovi nuovamente a Cosenza, come risulta da un atto in cui egli nomina suo procuratore il chierico Tiburzio de Biretijs, per stipulare con il cardinale di S. Teodoro, Nicola de Gaddi, amministratore perpetuo della diocesi di Cosenza, l’acquisto di un terreno nella località detta «Vigna della Corte», di proprietà della Chiesa di Cosenza (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 20, doc. 22). In una nota del Regesto si afferma inoltre: «è questo il più antico documento qui rinvenuto [presso l’Archivio di Stato di Cosenza] che dà notizia di Bernardino Telesio in Cosenza: riguarda l’acquisto del suolo sul quale avrebbe dovuto sorgere il mai realizzato Palazzo Telesio, in quella stessa precisa area oggi occupata dal moderno palazzo della Direzione Generale della Cassa di Risparmio di Calabria, all’inizio di Corso Telesio, tra il cinquecentesco Palazzo Sersale e la via Antonio Serra, già di S. Chiara» (ivi, p. 20, nota 2).

20 novembre 1540

Una quarta lettera di Annibal Caro inviata a «M. Mattio Francesi [Franzesi], a Roma», in data 20 novembre 1540, testimonia ancora della presenza di Bernardino Telesio negli ambienti romani. Questa volta il Caro scrive da Montegranaro, nelle Marche, e non perde occasione per porgere i propri saluti, tra gli altri, anche al Telesio:

«Favore strabocchevole mi farete a darmi qualche nuova di Monsignor Vostro [Niccolò Ardinghelli], e mantenermi in grazia di Sua Signoria. Servigio grande mi sarà che mi raccomandiate al Signor Casale, che mi ricordiate a la grandezza del Tilesio, che mi conserviate l’amor del Busino, e che mi salutiate M. Giuliano [Ardinghelli, fratello di Niccolò] e gli altri amici. Piacer singolare arò poi d’intendere che voi stiate sano e di buon voglia. E a voi sempre mi raccomando.
Di Monte Granaro, a li 20 di novembre 1540».
(A. Caro, Lettere familiari, 1531-1544, pubblicate di su gli originali Palatini e di su l’apografo parigino, a cura di Mario Menghini, Firenze, G.C. Sansoni, 1920, p. 234).

Una seconda serie di documenti conservati presso l’Archivio Vaticano e l’Archivio di Stato di Parma, insieme ad alcune lettere tratte dagli epistolari di Niccolò Gaddi e di Giovanni Della Casa, ci indica spostamenti e soggiorni del Telesio nel periodo compreso tra il 1540 e il 1545. Il principale polo d’attrazione degli interessi del Telesio resta Roma (e non Napoli, eletta in passato, dopo le affermazioni del Bartelli, come il centro nel quale Telesio avrebbe a lungo soggiornato nel corso degli anni Quaranta): ma altrettanto interessanti sono gli spostamenti del Telesio a Viterbo, a Bologna e, come si vedrà in conclusione, a Padova. Cfr. F. Bartelli, Note biografiche, cit., p. 23: «è indubitato che [dal 1534 al 1563] Bernardino passò la maggior parte di quel tempo in Calabria e in casa del duca di Nocera». L’ipotesi del Bartelli (che contestava le tesi del Fiorentino) è stata in seguito ripresa da Cesare Vasoli nella sua introduzione alla rist. anast. del De rerum natura libri IX (Hildesheim, Georg Olms Verlag, 1971, p. v).

1540-1550

In un periodo che si può far risalire, grosso modo, alla metà degli anni 1540, a Roma, sotto il pontificato di Alessandro Farnese (Paolo III, 1468-1549), Telesio acquista fama di filosofo antiaristotelico. Stando alle notizie contenute nella Oratione (1596) di Giovan Paolo d’Aquino, Ippolito Capilupi (1511-1580) avrebbe scritto al re Francesco I di Francia per comunicargli la lieta notizia che in Italia il giogo di Aristotele sarebbe stato finalmente scosso, poiché «uno Italiano havea cominciato à scrivere contra la dottrina di Aristotile»: «Quanto fu stimato dal Cardinal Contareno, et dal Cardinal Farnese, vero Mecenate di Letterati? Il quale affermandosi un giorno da alcuni Philosophi, che la dottrina Telesiana non era vera, disse loro, Hora, che non ci è il Telesio, tutti oppugnate le sue ragioni, ma come egli è presente, ciascheduno tace, et si arretra. Et ritrouvandosi un giorno Monsignor Hippolito Capilupi Vescovo di Fano con Franciesco Re di Francia, gli disse, come uno Italiano havea cominciato à scrivere contra la dottrina di Aristotile, et che si confidava mostrare con ragioni chiare, et vive, che era tutta fondata sopra principij falsi, et quel generoso Prencipe volle intendere il nome, et la patria del Telesio, mostrando di ciò una allegrezza grande, et rivolto al Capilupo, disse, Io prometto, che se costui fa quel che dice, che io sono per dargli diecemila fiorini d’entrata. Ne e da maravigliarci, che la fama sua trapassasse tanto oltre, perche questa sua dottrina tirava à se la benevolentia di tutti» (G.P. d’Aquino, Oratione, p. 10).

È il fratello di Ippolito Capilupi, Lelio (c. 1498-1560), a dedicare al Telesio un’ode, Ad Bernardinum Thylesium, riportata da Francesco Daniele nella sua edizione dei Carmina et epistolae di Antonio Telesio. Il sonetto, al di là del suo valore poetico, è una ulteriore testimonianza della diffusione della filosofia telesiana nelle corti italiane: «Telesio, Voi che col veloce ingegno / Trascorso avete in sì pochi anni il Mondo; / Misurando la Terra e il Ciel profondo, / Già siete giunto di saver al segno: Mostratemi il cammin, se ne son degno, / Da seguir Voi col bel lume giocondo; / Che trar mi po’ dal tenebroso fondo / D’alta ignoranza, onde ho me stesso a sdegno. / Forse che allor in tanto onor fallito / Potrò col dotto stil ritrar in parte / L’angelica beltà, che v’innamora; / E cantando portar in ogni parte / Il nome vostro, che Cosenza onora; / Ed io con Voi sarò mostrato a dito» (A. Telesio, Carmina et epistolae, 1808, p. 36). L’ode fa parte di una raccolta di Rime che fu pubblicata a Venezia nel 1555 (Libro quinto delle Rime di diversi illustri Signori Napoletani e d’altri nobilissimi ingegni, Vinegia, Gabriel Giolito de’ Ferrari et Fratelli, p. 424). Del valore documentale del componimento s’era avveduto già il Bartelli: «ci dimostra che il Telesio, molti anni prima del 1565, aveva compiuto il suo lavoro, e che la fama se n’era sparsa per l’Italia» (F. Bartelli, Note biografiche, 1906, p. 31). Non è inutile ricordare che, insieme al fratello Camillo (già allievo del Parrasio), Ippolito e Lelio erano i figli di Federico Capilupi (1461-1518), segretario particolare e consigliere della famiglia Gonzaga, molto legati alla moglie del duca di Mantova, Isabella d’Este (1474-1539), che li aveva allevati e fatti istruire dopo la morte del padre.

Il Vasoli aggiunge che la «notizia tramandata dal d’Aquino è difficilmente controllabile» (C. Vasoli, Introduzione a B. Telesio, De rerum natura libri IX, rist. anast dell’ed. 1586, p. v); riesce tuttavia difficile supporre che nella Oratione la notizia avesse un carattere esclusivamente laudatorio. Sempre il Vasoli indica come «abbastanza probabile» che, nel periodo successivo al ritiro in Seminara, «Telesio […] trascorresse un fruttuoso periodo di studio e di lavoro a Roma e a Napoli» (ibid.). E più avanti aggiunge che a Napoli (ospite dei Carafa), «forse tra la fine degli anni Quaranta e il 1553, egli si dedicò probabilmente al primo abbozzo del De rerum natura e degli opuscoli di filosofia naturale, suscitando un vivo interesse tra gli intellettuali napoletani» (pp. xi-xii)2. Come il Vasoli, anche altri biografi (Bartelli, De Franco, Bondì) tendono ad individuare negli anni Quaranta il decennio nel quale il Telesio si mosse tra Napoli e Roma, soggiornando in entrambe le città, rendendosi noto ad intellettuali e patroni per la diffusione dei primi abbozzi delle opere che pubblicherà nei decenni successivi. Senza dubbio, come annota il Bartelli, l’episodio riportato dal d’Aquino deve farsi risalire a non più tardi del 1547, anno in cui «il re Francesco I cessò di vivere» (F. Bartelli, Note biografiche, 1906, p. 31).

Nella Oratione, il d’Aquino cita il cardinale Alessandro Farnese (1520-1589) e il cardinale Gasparo Contarini (1483-1542). Negli anni Quaranta, un favorevole clima culturale si era instaurato nello Studium urbis come nell’ambiente della corte pontificia, improntato ad un mecenatismo che proseguiva il periodo del pontificato di Clemente VII. Come ha affermato Clare Robertson (Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 45, 1995), il cardinale Farnese, nipote di Paolo III (1468-1549), fu il più importante mecenate delle arti attivo a Roma nei decenni intorno alla metà del xvi secolo. Una istituzione culturale al tempo ancora viva e operante era l’Accademia Romana, originariamente fondata da Pomponio Leto nel 1460, animata nel xvi secolo da figure come Paolo Giovio (1486-1552), Gianfrancesco Bini (c. 1485-1556), Claudio Tolomei (1492-1535) e Giovanni Della Casa (1503-1556). Dallo stesso Tolomei, nel 1532, fu fondata l’«Accademia della Virtù», che restò attiva almeno fino ai primi anni Quaranta. Quest’ultima è solo un aspetto di un fenomeno ben più vasto di patronage e di promozione dello studio delle lettere e delle arti, in cui l’architettura (da Vitruvio a Leon Battista Alberti), come parte integrante delle ‘arti meccaniche’, ebbe un ruolo cruciale nella generale rivalutazione della cultura umanistica e dei nuovi saperi scientifici. A queste istituzioni si affiancò anche l’«Accademia dei Vignaiuoli», frequentata da personalità come Lelio Capilupi e Francesco Maria Molza (più saltuariamente da Mons. Della Casa), che ebbe tra i suoi intenti quello di tradurre la poesia classica nella lingua volgare (cfr. P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento, 1948, pp. 391 sgg.). All’«Accademia della Virtù» e dei «Vignaiuoli» si aggiunse, istituita da Paolo III Farnese, e, successivamente condotta, sotto il pontificato di Pio IV, da Carlo Borromeo (1538-1584), l’«Accademia delle Notti Vaticane», attiva soprattutto tra il 1562 e il 1564, formata da diverse personalità, come Ugo Boncompagni (1501-1586), Tolomeo Gallio (c.1526-1607), Curzio Gonzaga (1530-1599), Agostino Valier (1531-1606), Sperone Speroni (1500-1588), Giovanni Delfino (1545-1622), Giovannni Battista Amalteo (1525-1573). Su quest’ultima istituzione, cfr. F.W. Lupi, Introduzione a S. Quattromani, Scritti, 1999, pp. xx-xxi; e  M. Losito, Villa Pia e l’Accademia delle Noctes Vaticanae. La cultura umanistica di San Carlo Borromeo e Regesto documentario, in La Casina Pio IV in Vaticano, a cura di D. Borghese, Torino, Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, Allemandi, 2010, pp. 96-106 e 195-224.

Infine, anche concedendo che, subito dopo il ritiro in Seminara, cioè tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, Telesio si rechi saltuariamente a Napoli, non si può fare a meno di prendere in considerazione, oltre ai documenti summenzionati, i principali eventi politico-sociali che interessarono la capitale del viceregno in quello stesso periodo, condizionando in maniera decisiva la vita culturale e i rapporti esistenti tra il ceto intellettuale e la classe dirigente. Già dalla seconda metà degli anni Trenta, infatti, il ceto ‘accademico’ a Napoli aveva cominciato a subire una progressiva perdita di potere e, nel quinquennio 1543-1547, il vicerè Pedro de Toledo impose il divieto di riunirsi in circoli e accademie. Ad essere colpito fu innanzitutto il circolo del Capece, che, dopo la morte del Sannazaro (1530) e il declino dell’Accademia Pontaniana, aveva stabilito nella sua dimora il luogo privilegiato per le riunioni fra dotti, letterati e uomini di scienza del suo tempo. Questa circostanza può suggerirci che, da un certo momento in poi, il Telesio non trovasse un clima favorevole per restare a Napoli, tenendo anche conto che, a partire dal 1543, lo stesso Capece fu costretto a trasferirsi a Salerno e a trovare protezione presso il principe Ferrante Sanseverino (1507-1568).

Una serie di documenti, in parte conservati presso l’Archivio Vaticano, in parte custoditi presso l’Archivio di Stato di Parma, insieme ad alcune lettere tratte dagli epistolari di Niccolò Gaddi e di Giovanni Della Casa, ci attestano, di fatto, gli spostamenti e i soggiorni del Telesio nel periodo compreso tra il 1540 e il 1545. Da questi documenti si può evincere che, seppure Telesio abbia effettuato dei soggiorni a Napoli per breve tempo, all’inizio degli anni Quaranta egli si trasferì a Roma (e, nel periodo immediatamente successivo, in altre sedi).

1 marzo 1540

Da un atto conservato nell’Archivio Vaticano risulta che Bernardino Telesio si trova a Roma, procuratore di Tommaso Cesario, presbitero cosentino e rettore di una parte di S. Biagio di Spezzano Grande (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 41, doc. 18198). Non sono chiari i rapporti esistenti fra quest’ultimo e i due Cesario, umanisti cosentini, l’uno, Giovanni Antonio (fl. 1500-1521), allievo di Aulo Giano Parrasio (1470-1521), e l’altro, Giovanni Paolo (c.1510-c.1568/1570), figlio di quest’ultimo, professore di lettere latine a Roma intorno alla metà del XVI secolo.

21 ottobre 1540

Da un atto conservato presso l’Archivio Vaticano si attesta che Bernardino Telesio, in Viterbo procuratore di Giovanni Paolo Granso, chiede l’annullamento della pensione sui frutti del canonicato e della prebenda di S. Croce in Aprigliano, a favore di Paolo Telesio (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 54, doc. 18322). La presenza di Bernardino a Viterbo, in un periodo in cui Giovanni Antonio Pantusa risulterebbe ancora non trasferito a Roma, conferma una certa continuità nei rapporti tra i due cosentini. Occorre ricordare che al Pantusa era stata affidata la diocesi di Viterbo sin dal 1532, al seguito del cardinale Niccolò Ridolfi (1501-1550).

Questo atto fornisce anche un altro elemento di rilievo, e cioè che il Telesio si trovava in Viterbo prima dell’insediamento del cardinale Reginald Pole (nominato il 12 agosto 1541 legato del patrimonio di S. Pietro in Viterbo), animatore della cerchia religiosa degli ‘spirituali’ per la discussione delle idee riformate di Juan de Valdés (ca.1500-41), insieme a personalità come Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Mario Galeota, Apollonio Merenda, Ludovico Beccadelli, Bernardino Ochino, Alvise Priuli, Pietro Martire Vermigli, Giovanni Morone. Tra il 1541 e il 1542 giunsero a Viterbo Vittoria Colonna, corrispondente del Pole, e il cardinale Girolamo Seripando. Verosimilmente Telesio non frequentò nel 1541 la cerchia del Pole, il quale trasferì a Viterbo un interesse per Erasmo, Lutero e Valdés che era germinato nell’ambiente napoletano intorno alla metà degli anni Trenta, insieme a molte delle figure sopra ricordate. Ma non può non colpire il fatto che quasi tutte le personalità con cui il Pole si intrattenne nel corso degli anni Quaranta erano ben note al Telesio, dal Merenda a Mario Galeota, da Vittoria Colonna al Flaminio, dal Beccadelli al cardinale Morone. Cfr. V. Mignozzi, Tenenda est media via: l’ecclesiologia di Reginald Pole (1500-1558), Assisi, Cittadella, 2007; D. Romano, Reginald Pole tra Erasmo e Valdés: dal De Unitate Ecclesiae alle meditazioni sui Salmi (1536-1541), «Rivista Storica Italiana», cxxiv, 2012, 3, pp. 831-75. Si vedano anche M. Firpo, Tra «alumbrados» e «spirituali». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze, Olschki, 1990; A. Pastore, Galeota, Mario, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998; A. Olivieri, Merenda, Apollonio, ivi, vol. 73, 2009; S.M. Pagano e C. Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Città del Vaticano, Archivio Vaticano, 1989; F. Gui, L’attesa del Concilio: Vittoria Colonna e Reginald Pole nel movimento degli spirituali, Roma, E.U.E., 1998. Il soggiorno viterbese del Pole fu interrotto nel 1543, con la partecipazione, a Trento, ai primi lavori conciliari.

2 luglio 1541

Bernardino Telesio è nominato a Roma procuratore canonico del Pantusa (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 61, doc. 18396).

27 settembre 1541

Bernardino Telesio è nominato a Bologna procuratore del nobile cosentino Massenzio de Piane (Massentius de Planis). Al tempo, Massenzio de Piane si trovava al seguito della corte papale. Cfr. F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 65, doc. 18430.

È possibile che a questo soggiorno bolognese risalgano alcuni esercizi letterari di Bernardino Telesio. In un manoscritto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, Cod. Lat. 400, contenente una silloge di scritti poetici, dal titolo Miscellanea carminum poetarum recentiorum, insieme ad altri componimenti (una Oratio edita per Victoriam Columnam, fol. 76r; dei versi di Pietro Bembo, fol. 50r-v, e uno scritto di Marco Antonio Flaminio, foll. 85r-86r), troviamo, al fol. 71r, due brevi componimenti telesiani compresi sotto il titolo Bernardinus Thylesius ornatissimo iuveni Achilli Bononiensi («Bernardino Telesio all’illustre giovane Achille bolognese»), dedicati ad Achille Volta (†1556). Nei versi Telesio accenna alla difficoltà nel riprendere quell’uso delle lettere dalla fanciullezza non più esercitato, che costituisce in qualche modo un elemento che ci porta a non retrodatarne eccessivamente la redazione. I frammenti telesiani, diligentemente schedati da L. Frati (Indice dei codici latini conservati nella R. Biblioteca Universitaria di Bologna, Firenze, Seeber, 1909, sub 204), sono stati pubblicati per la prima volta da F.W. Lupi (Alle origini della Accademia Telesiana, 2011, p. 10), e, nello stesso anno, in un saggio di L. Irwin Fragale (Filosofi calabresi nella Bologna rinascimentale: due inediti epigrammi di Bernardino Telesio in un codice bolognese, «Il Carrobbio. Tradizioni, problemi, immagini dell’Emilia Romagna», xxxvii, 2011, pp. 69-78). Quest’ultimo ha ipotizzato (p. 77, nota 19) che i margini temporali entro cui il manoscritto è stato redatto oscillino tra il 1520 e il 1540. Io ritengo che sia più plausibile il periodo coincidente con il soggiorno bolognese sopra documentato, escludendo peraltro che, durante la permanenza, dal 1527 al 1529, di Antonio e Bernardino Telesio a Venezia e a Padova, essi abbiano avuto occasione di spostarsi anche a Bologna. Secondo F. Bacchelli (Un enigma bolognese: le molte vite di Aelia Lelia Crispis, Bologna, 2000, p. 12), Achille Volta sarebbe morto il 14 maggio 1556, e può aver conosciuto Bernardino Telesio a Roma, tra il 1523 e il 1527.

Riportiamo di seguito i due brevi componimenti (il primo è in distici elegiaci, il secondo è una lirica ispirata a Catullo), con la traduzione italiana di Luca Fragale: «Carmine si quisquam te dicere vellet Achille, / Laudibus et nomen tollere ad astra tuum, / Esset opus, vates alter superesset, Achillis / Alterius cecinit qui fera bella ducis». «(Idem ad eundem): Me pedes quocumque ferent Achille, / Sive in extremas orientis oras, / Sive quo fessus caput abdit undis / Phoebus Iberis, / Seu coloratus retinebit Afer / Solibus, seu me gelidus Britannus; / Semper haerebit tua corde in imo / Dulcis imago» («O Achille, se qualcuno volesse celebrarti in un carme, / e con lodi elevare alle stelle la tua gloria, / sarebbe necessario che fosse ancora vivo colui / il quale cantò le guerre crudeli dell’altro Achille, l’eroe». «(Il medesimo al medesimo): Dovunque mi portino i piedi, o Achille, / sia nelle estreme lingue dell’Oriente, / sia dove Febo nasconde il capo tra le onde di Iberia, / mi tratterrà sia il colorato Africano nei giorni di sole / sia il freddo Britanno; / la tua immagine resterà sempre / nel profondo del mio cuore»).

28 ottobre 1541

Il cardinale Niccolò Gaddi (1490-1552) invia da Lione una lettera a Carlo Gualteruzzi (1500-1577), nella quale menziona Bernardino Telesio, ricordato quale mediatore di diverse lettere inviategli, e di una lettera inviata a Pietro Bembo. La lettera è di una certa importanza, poiché il cardinale Gaddi si trovava ancora a Lione, al seguito di Paolo III Farnese e del nunzio Ugolino Martelli, e conferma il rilievo acquisito da Bernardino Telesio presso la corte papale:

«Mag.co M. Carlo mio car.mo. Io sapevo bene che la Signoria Vostra era piena di bontà, di gentilezza, et di cortesia, et l’havevo sempre sentito predicare per così buono amico et per così offitioso quant’altro di questi nostri tempi, et era tanto universale questo predicamento di lei che io harei reputato superfluo ogni testimonio che ci si fosse possuto aggiungere per farmi credere di lei più di quello che me ne pareva sapere; ma le cortesissime sue di xviij di settembre di Lucca, le vi d’ottobre di Bologna comparse questo dì in una medesima hora, mi hanno fatto toccar con mano che io non sapevo il mezzo di quello che potevo sapere, et che hora so delle perfette qualità sue. Restole molto obligato della pena che ha presa scrivendomi sì a lungo, sì distintamente, sì elegantemente, et ancor che Tilesio m’habbia fatti molti servitii de’ quali io mi sono tenuto satisfatto, questo solo d’haver dato occasione che io habbia havute altre lettere, vale appresso di me quanto tutti gli altri insieme. Hora per pigliare il possesso delle amorevolissime offerte che la mi fa in dette sue (che sarà in cambio di ringraziarla) comincierò a valermi dell’opera sua indirizzando con questa una mia al R.mo Contarino [Gasparo Contarini, 1483-1542], et un’altra al R.mo Polo [Reginald Pole, 1500-1558] molto miei patroni, et pregando la Signoria Vostra come affettionato amico di tutti e tre noi, che le piaccia presentarle, et di più a nome mio baciar humilmente la mano ad ambedua quei Signori et al R.mo Bembo in la cui bona gratia desidero sopra modo essere conservato, et so quanto Vostra Signoria vaglia in questo. […] Non voglio in ultimo non pregarla che scrivendo alla Ser.ma Sig.ra Marchesa di Pescara, sia contenta di fare le mie raccomandationi, et pregarla che faccia qualche mentione di me nelle sue sante orationi, le quali reputo così care et così accette al sommo Dio quanto altre che eschino di bocca mortale. Dio sia con la Signoria Vostra. Di Lione alli 28 di ottobre 1541.
A Mons. R.mo Bembo in questi dì passati inviai una mia lettera per le mani del Tilesio, penso l’haverà ricevuta. Desidero come ho detto di sopra essere conservato ne la bona gratia di Sua Signoria R.ma.
Vostro buon amico et fratello
Il card. De Gaddi».
(Lettere di scrittori italiani del secolo XVI, stampate per la prima volta per cura di Giuseppe Campori, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1877, pp. 180-182).

1 aprile 1542

Bernardino Telesio è ancora procuratore del Pantusa, che rinunzia al beneficio di S. Nicola di Corte in favore di Paolo Telesio, mentre Bernardino rinuncia al beneficio di S. Giovanni di Cerisano in favore del Pantusa (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 75, doc. 18526).

12 aprile 1542

Per rinunzia di Bernardino e di Paolo Telesio, sono assegnate a Giovanni Della Casa (1503-1556), rispettivamente, la chiesa di S. Giorgio di Zumpano e quella di S. Nicola dei Latini (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 75, doc. 18530).

22 aprile 1542

Bernardino Telesio rinunzia all’assegnazione della chiesa di S. Nicola di Terranova in favore di Giovanni Della Casa (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 77, doc. 18541).

15 giugno 1542

Il Regesto Vaticano 1636, foll. 345-347 conserva un rotulus di Paolo III datato «Idus Juni» 1542, col quale si autorizza la permuta del beneficio di S. Giovanni «de Crepessito», di cui Tommaso Telesio era stato investito, con quello di S. Nicola «de Rebellis», goduto da Massenzio de Planis. Nell’atto, Tommaso Telesio è ricordato da Paolo III come giovane diciottenne al servizio del datario papale Nicola Ardinghelli, e «continuus commensalis noster» (Arch. Vat. Reg. 1636, fol. 345r). L’atto è stato pubblicato da S.G. Mercati, Appunti telesiani, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», vii, 1937, pp. 225-227.

1542-1543

Bernardino risulta essere a Roma, dove, scrive De Franco, «si fermerà sino ad almeno il 1544, come ci viene confermato da più atti dello stesso Archivio Vaticano e da due lettere, una del 25 ottobre 1542 e l’altra del 14 gennaio 1543, ambedue scritte, da Roma, al datario papale Nicola Ardinghelli (1503-1547), vescovo di Fossombrone [nel 1542] e futuro cardinale dal 1544» (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 27-28). Le due lettere, segnalate, senza menzione di data, insieme ad una terza (non rinvenuta) nel vol. ii dell’Iter Italicum del Kristeller (1962, p. 553), risultano conservate presso l’Archivio di Stato di Parma (Epistolario scelto, B. Tilesio). Di queste due lettere, la seconda è stata pubblicata di recente, in appendice ad uno studio di Elisabetta Selmi (E. Selmi, ‘Formazione’ e ‘ricezione’ del pensiero telesiano nel dialogo con i filosofi e i letterati dello studio patavino, in Bernardino Telesio tra filosofia naturale e scienza moderna, 2012, pp. 37-50, qui p. 50). La citiamo di seguito:

«Reverendo Signore et Patron mio colendissimo
Monsignore Della Casa supplica Vostra Signoria caldissimamente che se degni procurare il salvacondotto per Messer Rugiero poiché non se può più per un anno ed ultra ad bene placitum mandogli la minuta. Io più che di cosa che facessi mai che come prima potrà farci  l’officio per  il signor Don Diego et rendasse certa che se fosse per me proprio nol desidererei con tanta ansietà et se sapesse la caggione mi n’harebbe compassione per l’amor di Dio sia fatto et bene perché se torni in Roma. Mando a Pelegrino la supplicazione di quelli beneficii vacati in Cosenza. Supplico Vostra Signoria  mi faccia grazia ordinargli, che non n’ho fatto metter il nome dell’oratore o per visto che cel metta, et dicagli chi li parrebbe a proposito: ho pensato sopra il zingaro per esser del paese se piacesse a Vostra Signoria credo sarebbe a proposito et gli bacio le mani. Da Roma alli 14 di Gennaio del 1543.
Di Vostra Signoria Reverendissima
Deditissimo et obbligatissimo servitore
Tilesio».

Di una certa importanza è, nella lettera, la menzione di Giovanni Della Casa (1503-1556), autore che Telesio certamente frequentò – come ci è attestato da una memoria del Quattromani: «Fu [Telesio] tanto domestico di Giovanni della Casa, che non si allontanò mai dal suo lato, e quando il Telesio era col Casa, il Casa gli scriveva sempre di sua mano, e gli ha scritto tante delle lettere, che se ne potrebbe scrivere un volume ben grande» (S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, 1999, p. 263) –, seppure non sia semplice risalire in maniera diretta al periodo in cui Telesio lo conobbe e vi familiarizzò. Possiamo ipotizzare, grazie anche alla lettera sopra citata, che gli anni in cui i due ebbero a frequentarsi siano proprio i primi anni Quaranta (1541-1546, sulla scorta della documentazione rilevata nel Regesto Vaticano per la Calabria), e che il luogo sia Roma, tenendo conto di quel che sappiamo della biografia di Mons. Della Casa.

Il Della Casa si trattenne innanzitutto a Padova tra il 1527 e il 1529 (e non è escluso che un primo contatto fra i due intellettuali sia avvenuto allora). In seguito risiedette a Roma dal 1534 al 1537 come chierico della Camera Apostolica e, sempre a Roma, si trattenne dal 1540 al 1544: nel marzo del 1541 gli fu attribuito il titolo di Monsignore, e negli anni 1543-1544 fu designato come Tesoriere pontificio. Il 2 aprile gli fu assegnata la sede arcivescovile di Benevento, e nell’agosto dello stesso anno fu eletto Nunzio Apostolico in Venezia, carica che manterrà fino al 1550. Dopo un breve soggiorno a Roma, nel 1551 è di nuovo a Venezia. A Roma farà ritorno solo dopo l’elezione di Paolo IV Carafa, con l’incarico di primo segretario del pontefice. Com’è noto ai biografi, il Della Casa morì a Roma il 14 marzo 1556. Cfr. C. Mutini, Della Casa, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 36, 1988. Sul rapporto fra Telesio e il Della Casa, cfr. F.W. Lupi, Telesio, Della Casa e Quattromani, «Quaderni del Rendano», ii, 1988, 3, pp. 81-85.

Circa i rapporti intercorsi tra il Telesio e Mons. Della Casa, vi sono anche due lettere inviate da quest’ultimo a Carlo Gualteruzzi (1500-1577), da Venezia e da Murano, datate rispettivamente 26 marzo e 11 aprile 1545, che confermano l’ipotesi su formulata, e attestano anche come, dopo la sua nomina a Nunzio Apostolico in Venezia, l’interesse del Della Casa per il Telesio fosse tale da suscitare il desiderio di volerlo suo ospite a Venezia, per affidargli eventualmente le mansioni di suo segretario. Cito rispettivamente i brani interessati:

«Sig. M. Carlo
Ho la vostra de’ 14 e scrissi e’ 19. La risoluzione mia circa il secretario è di aspettare il Tilesio se vuol venire, e intanto voi mi potrete informare del Bianco più particolarmente, e così di altri che vi venghino in mente. Il qual Tilesio dovrebbe non guardare al male e venir a questo aere delicato, dove il Cardinal de Gaddi [Niccolò Gaddi, 1490-1552] non rifiata, e sarà guarito e potrà in ogni modo tornare a Roma a sua posta, se pur avessi tanto martello del Cardinal Ardinghelli, che non lo potessi sopportare […].
Di Venezia alli 26 di Marzo 1545».
(Lettere di Monsig. Giovanni della Casa arcivescovo di Benevento a Carlo Gualteruzzi di Fano, cavate da un manoscritto originale Barberino e pubblicate la prima volta per le stampe, a cura di Luigi Maria Rezzi, Imola, Tipografia del Seminario, 1824, p. 13).

«[…] Se il Tilesio non vuol venire, stiasi, che io farò meglio ch’io possa; che lo desiderava per avere compagnia, piucchè per altro, e lo desidero, però con suo commodo. […] Io mi sto a Murano, o mi starei, se non fossi impedito.
Da Murano alli xi di Aprile 1545».
(ivi, pp. 13-14).

La prima lettera di Telesio inviata a Niccolò Ardinghelli è datata, come si è detto sopra, 25 ottobre 1542. Nella lettera c’è da rilevare la menzione di un «Reverendissimo Parisio». Parisio o Parisi, com’è noto, era il cognome di famiglia di Aulo Giano Parrasio, e non è implausibile che si tratti di suo fratello, Pietro Paolo Parisio (1473-1545), celebre giureconsulto. È improbabile che si tratti del Pietro Francesco Parisio che, circa quarant’anni più tardi, il Telesio si impegna di raccomandare in una lettera al cardinale Guglielmo Sirleto, datata 7 ottobre 1583, e in una seconda lettera, indirizzata al conte de Haro, datata 25 dicembre 1583 (v. infra). L’aspetto più rilevante di questa lettera è che, sebbene il principale polo d’attrazione del Telesio resti, nei primi anni Quaranta, come si è visto, l’ambiente romano, egli si recò comunque, per brevi torni di tempo, a Napoli. Ce lo conferma un passaggio della lettera, nella quale Telesio chiede l’interessamento dell’Ardinghelli con «Sua Santità», per la conduzione dell’«officio» di un non meglio precisato «gentilhuomo Spagnolo»:

«Al Reverendo Signor et Patron mio osservandissimo Monsignore il Vescovo di Fossembrone.
Reverendo Signore et Patron mio osservandissimo
Il Reverendissimo Parisio mandò hieri per me et mi commise che pregassi Vostra Signoria in suo nome quanto più istantemente potessi, che parlasse a Nostro Signore della faccenda di quel gentilhuomo Spagnolo caldamente et quanto prima, acciò se pure non si potesse condurre co’ l’officio farà Vostra Signoria prima parte ne possa di novo supplicare Sua Santità qual dice gli diede tanta bona speranza l’ultima volta che ne parlò, che spera certo, essendo aiutata la bona inclinatione di S.E. dalla Signoria Vostra lasserà consolato quel gentilhuomo il che desidera tanto che Vostra Signoria non crederebbe mai; ordinò al suo secretario che ne scrivesse in suo nome, et credo con questa sarà una sua; sia certa la Signoria Vostra che questa cosa li preme assai assai; di me non dirò altro se non che bisogna non pensi d’andare mai nel Regno di Napoli, ch’un altro Monsignor Dati, al quale devo la vita et l’essere mio et di tutti li miei, et la pria, in Napoli m’ha stretto in mano di questa cosa: che sapendo la ho con Vostra Signoria non ardirei mai comparerli davanti se questo negotio non s’espedisse. Et il Signor Di Diego non può retornare in Spagna. Faccia hora Vostra Signoria ciò che l’altra matina mi disse ch’il Dati è in debito di 30** […] parmi che mille non siano d’essere desprezati.
Il Signor Reverendissimo mi disse anche recordassi a Vostra Signoria il governo et poi ch’il passeggia à cavallo aspettando non gli dirò altro. Et aspetto il breve con desiderio: et ch’abbi parlato della cosa del Morone, et gli bacio la mano.
Da Roma alli 25 d’ottobre del 1542
Di Vostra Signoria Reverendissimo
Obligatissimo servitore
Tilesio».
(cfr. E. Sergio, Bernardino Telesio: una biografia, Napoli, Guida, 2013, pp. 36-37).

maggio 1542/marzo-maggio 1545

Tutti i biografi di Bernardino Telesio si sono in qualche modo confrontati con il problema del soggiorno padovano del Cosentino, risalente al 1528-29, quando il giovane filosofo si trovava residente nella repubblica di Venezia, insieme allo zio Antonio, incaricato dal Consiglio dei Dieci di tenere l’insegnamento di eloquenza per i funzionari della cancelleria veneziana. Dopo le ricerche di Luigi De Franco si è potuto appurare che Bernardino Telesio non frequentò l’ambiente padovano da studente regolarmente iscritto presso lo Studium, e (dato non meno importante) che il suo soggiorno si concluse verso la fine del 1529, quando Antonio Telesio rinunciò all’incarico affidatogli a Venezia per fare ritorno in Calabria. In quell’occasione il giovane Bernardino ebbe occasione di conoscere Vincenzo Maggi, che conseguì il titolo di doctor artium et medicinae. Ciò che finora non era stato mai rilevato è che Bernardino Telesio abbia dimorato a Padova in un periodo di molto posteriore a quello del primo soggiorno giovanile, e che abbia conosciuto per l’occasione il migliore allievo di Andrea Vesalio, cioè il medico e anatomista Matteo Realdo Colombo (1510/20-1559). La notizia si evince da un passaggio del De re anatomica (1559) del Colombo, finora ignorato dagli studiosi3. Prima di descrivere il passo in questione, va ricordato brevemente qualche cenno della biografia di Colombo. Egli succedeva ad Andrea Vesalio nel 1543 a Padova, rimanendovi fino al 1545. In seguito si trasferì a Pisa, restandovi fino al 1548. A Pisa tra i suoi allievi vi fu Andrea Cesalpino, successivamente accusato dai docenti dello Studium (fra cui Girolamo Borro, Francesco Buonamici e specialmente Francesco de’ Vieri) di eresia e di diffusione di idee telesiane. Tra il 1548 e il 1549 si trasferì a Roma, ove restò fino alla data della sua morte, avvenuta nel 1559, lo stesso anno in cui vide la luce delle stampe il De re anatomica.

L’opera, come ricorda il frontespizio, fu pubblicata (e presumibilmenre redatta) quando Colombo si era già insediato nello Studium romano; ma in essa è riportato l’episodio di una pubblica vivisezione effettuata nel teatro anatomico che fa riferimento agli anni trascorsi a Padova. Nel passaggio in questione, contenuto nel libro XIIII, De viva sectione, Telesio è menzionato, insieme a Ranuccio Farnese (1519-1565), all’Ardinghelli e ad altre figure di rilievo del tempo, come una personalità dalla grande erudizione (equivalente alla fama che si era già acquistato presso i Farnese), a dispetto della sua ancora giovane età. La vivisezione descritta dal Colombo utilizzò come cavia una femmina di cane prossima a partorire. La prima delle questioni affrontate nella sezione dell’animale fu «in quo vox consistat, quod admirabile est»; osservando «diaphragmatis motum, […] quod inspirando dilatatur, et expirando constringitur»; e la natura e i movimenti del cuore («ex inspectione cordis moventis canis […] motus scilicet cordis quemadmodum amplificetur, atque arctetur»), come il movimento sistolico («tunc cordis systole»). Quando si procedette all’apertura dell’utero, fuoriuscì un cucciolo di cane che cominciò subito a latrare. Segue così il passo annunciato:

«quem naturae amorem, atque adeo parentum in liberos incredibilem charitatem in publicis theatris maxima spectatorum admiratione saepius ostendi, Patavij praesertim, cum adesset Illustrissimus ac Reverendissimus Rainutius Farnesius, tunc Venetiano prior, nunc Cardinali S(ancti) Angeli nuncupatus, quem honoris, et observantiae gratia nomino. Aderat item Bernardus Salviatus Romae prior, nunc Episcopus et Alvisius Ardinghellus Episcopus Forosemprionensis. Aderat Felix Acrambonus, Ioannes Baptista Ursinus nunc Archiepiscopus, Eques Ugolinus Fanensis, Bernardinus Thilesius omnes tunc iuvenes magnae eruditionis, et expectationis, qui expectationem, quam de se Patavina Academia conceperat, longo intervallo superarunt» (Realdi Columbi Cremonensis, De re anatomica libri XV, Venetiis, ex Typographia Nicolai Bevilacquae, 1559, liber XIIII, De viva sectione, p. 258, c.m.).

Per risalire al periodo in cui si svolse l’evento descritto dal Colombo, ho provato ad intrecciare i dati disponibili sulla biografia telesiana con la biografia di Ranuccio Farnese, citato per l’appunto dal Colombo come una delle persone notabili che assistettero insieme al Telesio alla dissezione. Come si è ricordato sopra, da un atto risalente al 27 settembre 1541 risulta che Bernardino Telesio fu nominato a Bologna procuratore del nobile cosentino Massenzio de Piane, al seguito della corte papale. Questa data è di una certa utilità per tentare di circoscrivere il periodo in cui Telesio può essersi spostato da Bologna a Padova. La presenza della corte papale a Bologna può motivare a fortiori la compresenza a Padova di Ranuccio Farnese. Dalla biografia di quest’ultimo sappiamo che Padova fu al centro degli interessi del Farnese sin dal periodo della sua prima formazione. E sempre dalla sua biografia si apprende un dato molto importante, cioè che egli si trovò effettivamente a Padova dopo il 18 maggio 1542, ove restò per qualche tempo, e vi fece in seguito ritorno dal marzo al maggio del 1545. Successivamente fu ospite di Mons. Della Casa a Venezia dall’8 giugno 1551, e trascorse un ulteriore periodo a Padova dal 1° agosto al 23 settembre 1551. Sento di escludere il 1551 come terminus ad quem dell’episodio ricordato nel De re anatomica di Realdo Colombo, perché al tempo quest’ultimo si trovava già a Roma, dopo aver trascorso un periodo di insegnamento e attività scientifica nello Studium pisano. Il periodo in cui Ranuccio Farnese e Bernardino Telesio assistettero alla famosa dissezione anatomica citata dal Colombo deve dunque farsi risalire verosimilmente o al maggio 1542 o ai mesi di marzo-maggio del 1545. Con ogni probabilità, tenendo anche conto delle diverse testimonianze che tendono a situare Telesio a Roma, tra il 1543 e il 1545, l’anno più plausibile in cui si svolse l’evento citato dal Colombo è il 1542. Cfr. G. Fragnito, Farnese, Ranuccio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 45, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1995.

Nella produzione scientifica telesiana il nome dell’anatomista cremonese non viene mai citato, come non compare mai il nome del suo maestro, Andrea Vesalio. Ma è lecito pensare che dallo scrittoio del Telesio siano passati sia il De humani corporis fabrica (1543) del Vesalio che il De re anatomica (1559) di Colombo. L’interesse di Telesio per la spiegazione dei fenomeni del mondo animale polarizzò una parte trascurabile della sua attività scientifica, com’è attestato da uno degli scritti più apprezzati da Tommaso Campanella, il Quod animal universum ab unica substantia animae gubernetur (1590).

19 dicembre 1544

Nicola Ardinghelli riceve la porpora cardinalizia nel concistoro che segue la bolla Laetare Jerusalem (30 novembre) di convocazione del Concilio di Trento. La nomina a cardinale conferma l’Ardinghelli come figura di spicco sotto il pontificato del Farnese.

Dai documenti sopra esaminati, c’è da concludere che fino alla metà degli anni Quaranta gli interessi di Telesio si concentrino prevalentemente a Roma. Si tenga anche conto che la notizia, riportata dai principali biografi (ad esempio dal Bartelli), che Telesio fece ingresso in casa Carafa in un periodo compreso tra il 1544 e il 1555, e che, successivamente, egli stette presso Alfonso III duca di Nocera, va inevitabilmente messa in rapporto con le biografie dei membri della famiglia Carafa. Alfonso Carafa (†1581), figlio di Ferrante I (che doveva essere non molto meno giovane del Telesio, avendo partecipato nel pieno dei suoi anni alla spedizione di Carlo V a Tunisi), nacque verosimilmente verso o intorno agli anni Trenta e, all’età di nove anni, scrive il Bartelli, fu mandato a Roma presso la corte del prozio cardinal Gian Pietro Carafa (futuro Paolo IV, 1555-1559; fu fatto cardinale il 15 marzo 1557 ed eletto arcivescovo di Napoli il 3 aprile dello stesso anno), il che non ci garantisce che il Telesio, negli anni Quaranta, si trovasse già stabilmente a Napoli, sotto la protezione dei Carafa (cfr. F. Bartelli, Note biografiche, 1906, p. 29; e B. Aldimari, Historia Geneaologica della famiglia Carafa, 1691, t. ii, pp. 235-244, e t. iii, pp. 153-154 e 170-174). Senza dubbio, Telesio godette, negli ultimi decenni della sua vita, della protezione e della familiarità di Ferrante II Carafa, IV duca di Nocera, primogenito di Alfonso e di Giovanna Castriota (figlia di don Ferrante, marchese di Civita S. Angelo, e di Camilla di Capua). Al «nuovo duca di Nocera», com’è noto, il Telesio dedicò parte delle sue opere pubblicate a partire dal 1570.

I rapporti dei Telesio con altri membri della famiglia Carafa sono documentati da un atto, datato 17 marzo 1559, in cui Valerio Telesio nomina suoi rappresentanti il vescovo di Nusco, Luigi Cavalcanti, e il chierico cosentino Ferdinando Cavalcanti per comparire innanzi al cardinale Alfonso Carafa, Reggente della Camera Apostolica, per una causa inerente alle chiese di S. Nicola dei Latini e di S. Maria di Terranova della diocesi di Oppido. Un secondo atto, sulla stessa questione, è datato 1 aprile 1559 (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 31, docc. 67 e 69).

18 febbraio 1546

A Nicola Ardinghelli (1503-1547) sono corrisposti i frutti della cessione della chiesa di S. Giorgio di Zumpano, poi affidata a Bernardino Telesio in data 4 marzo (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 132, doc. 19072, e p. 133, doc. 19077).

15 aprile 1546

Per cessione di Mons. Giovanni Della Casa, sono assegnate a Valerio Telesio le chiese di S. Nicola dei Latini e di S. Maria del Cantone di Terranova, nella diocesi di Oppido (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 136, doc. 19101).

13 maggio 1546

Giovanni Della Casa cede in favore di Giovanni Andrea Telesio (come Valerio, fratello di Bernardino) la riserva di pensione rimastagli dalla precedente assegnazione delle chiese di S. Nicola dei Latini e di S. Maria del Cantone (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 137, doc. 19117).

1546

Nel 1546 il Capece pubblica, presso gli eredi di Aldo Manuzio, un poema di ispirazione lucreziana, dal titolo De principiis rerum poema (Venetiis, apud Aldi filios, 1546), in cui sono messe in discussione le teorie atomistiche dell’antichità. L’opera fu ristampata più volte: insieme al De elementis et eorum mixtionibus libri quinque di Gaspare Contarini (Lutetiae Parisiorum, per Nicolam Divitem, 1548; ried. Parisiis, apud Andream Wechelum, 1564) e, in edizione separata, nel 1594, per le cure di Ottaviano Capece vescovo di Nicotera (Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum, et Antonium Pacem). Al De principiis rerum, il Capece aveva cominciato a dedicarsi già diversi anni prima e verrà terminata tra il 1543 e il 1546, durante l’esilio salernitano, sotto la protezione del principe Ferrante Sanseverino e della sua consorte, Isabella Villamarina. Tra i revisori dell’opera figura Onorato Fascitelli (1502-1564), un intellettuale che frequentò a lungo il milieu napoletano del Capece, e che viene ricordato anche come una delle figure di riferimento del giovane Sertorio Quattromani. Come si è detto, l’opera costituì un punto di riferimento per molti intellettuali del Cinquecento, e il milieu dei Sanseverino offrì protezione a molti altri letterati ed eruditi dell’epoca, come Bernardo Tasso (1493-1569), che fu segretario di Ferrante, Angelo Di Costanzo (1507-1551) e Aonio Paleario (1503-1570).

1551-1553

Intorno al 1551, Telesio rientra a Cosenza e, nel 1553, sposa Diana Sersale, figlia di Giovanni Antonio Sersale e già vedova di Alfonso de Matera (morto tra il 1543 e il 1544). Dall’unione con Diana Sersale Telesio avrà quattro figli: Prospero (1553-1576), Antonio (1554-1592), Anna (c.1555-c.1598) e Vincenzina (c.1556-1561).

Ad un periodo compreso tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta si possono far risalire le prime lezioni di filosofia impartite dal Telesio ai giovani patrizi cosentini, come Sertorio Quattromani (1541-1603), Giulio Cavalcanti, Giovan Paolo d’Aquino (†1612), Agostino Doni (c.1545-c.1583), Giovanni Battista Vecchietti (1552-1619). Il fratello di quest’ultimo, Gerolamo Vecchietti (1557-1636), suo biografo, ricorda che «era il Telesio a quel tempo in Cosenza persona illustre e molto celebre, e cortesemente comunicava ad alcuni giovani di spirito le cose sue con sermoni continuati. Ci fu menato Giovambattista da Giulio Cavalcanti nostro parente, che era un di quelli; e avendolo udito, se ne invaghì, e preseci usata. Desideroso poi di averne migliore intelligenza, una volta sul cominciare il Telesio del suo discorso, non si contenne più, ma arditamente lo interruppe, e pregollo che a lui, che era nuovo, facesse un epilogo delle materie passate, sicchè potesse bene intendere il tutto. Parve a coloro, che ci erano presenti, una domanda importuna: ma quel grand’uomo se ne compiacque, e disse che per contentarlo maggiormente, voleva incominciar a legger da capo la sua Filosofia dai suoi primi principj; e così fece, e così lungamente continuò a fare […]. Mirabilmente egli se ne avanzò, […] e in questo modo di Peripatetico divenne tutto Telesiano» (G. Vecchietti, Lettera di Girolamo Vecchietti sopra la vita di Giovambattista Vecchietti suo fratello, in J. Morelli, I codici manoscritti volgari della Libreria Naniana, Venezia, A. Zatta, 1776, p. 161).

Il Doni, nel suo De Natura Hominis (1581), dà evidente prova d’avere assimilato la lezione telesiana, sia pure prendendone le distanze ed assumendo una concezione propria sulla natura umana e sulle sue facoltà cognitive. Particolarmente rilevante è l’individuazione della sua data di nascita, che deve aggirarsi intorno al 1545. È quanto ci suggerisce una lettera del Doni a Theodor Zwinger, scritta a Ginevra nel 1580, in cui Doni rammenta di un quinquennio trascorso nelle carceri del S. Uffizio. Seguendo l’ipotesi tracciata da Luigi De Franco, Antonio Rotondò ha confermato che tale episodio vada fatto risalire alle persecuzioni subite in Calabria dai Valdesi, culminate con la strage di San Sisto e di Guardia Piemontese (1561). Di conseguenza, facendo risalire l’inizio della sua detenzione ad un periodo compreso fra il 1561 e il 1563, in cui il Doni si definisce «adolescens», cioè non ancora maggiorenne, l’anno di nascita può essere fissato intorno al 1545. Cfr. L. De Franco, L’eretico Agostino Doni, medico e filosofo del ’500, 1973, pp. 18-19; A. Rotondò, Studi di storia ereticale del Cinquecento, 2008, p. 762. Sul Doni filosofo, cfr. S. Plastina, “Un moderno eretico in filosofia”: Agostino Doni, 2010, pp. 149-160.

Per quanto concerne il Quattromani, è lo stesso autore a lasciare testimonianza, specialmente nelle sue lettere, della diffusione della filosofia telesiana quand’egli era ancora adolescente (La famiglia Quattromani era legata da antiche relazioni e consuetudini ai Telesio: Berardino Telesio (c.1450/1460-c.1519), padre di Antonio (1482-1534) e di Giovan Battista Telesio (?-1531), aveva preso in sposa, intorno al 1480, Giovanna Quattromani, fl. 1470-1520). Va ricordato infine che Giovan Paolo d’Aquino era nipote di Bartolo Quattromani per parte della moglie, Elisabetta d’Aquino, madre di Sertorio Quattromani. Sia pure non disponendo di notizie precise sulla data di nascita del d’Aquino, si può supporre che i due cugini fossero quasi coetanei.

25 novembre 1554

Da un «istrumento» datato 25 novembre, redatto per il giuramento di ligio omaggio, prestato a Filippo II, re di Spagna, si apprende che Bernardino Telesio è divenuto, assieme al nobile Alfonso della Valle, sindaco ordinario della città di Cosenza (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, pp. 26-27, doc. 44).

1561

Morte di Diana Sersale. La Sersale lascia i suoi averi, con suo testamento, per un terzo a Pietro e a Pompeo de Matera, figli procreati con il primo marito Alfonso de Matera, e per gli altri due terzi ai figli (Prospero, Antonio, Anna e Vincenzina) avuti con Bernardino Telesio. Secondo il Bartelli, la Sersale risulterebbe già morta il 7 maggio 1561 (F. Bartelli, Note biografiche, p. 32). Scrive ancora il Bartelli che, dopo la morte della madre, Anna Telesio «fu chiusa nel monastero di S. Maria delle Vergini, dove in que’ tempi venivano educate le fanciulle delle famiglie nobili cosentine» (ivi, p. 63).

6 giugno 1561

Bernardino Telesio, affittuario delle rendite della Badia di S. Maria di Corazzo, nomina un suo procuratore per subaffittarle (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 48, doc. 155). Questa notizia, conservata nel Regesto telesiano, ha polarizzato l’attenzione di Luigi De Franco, sulla scorta della segnalazione, da parte di Pietro De Leo, del passaggio di un manoscritto, originariamente rinvenuto nella Biblioteca Brancacciana, sotto la segnatura I.F.2., ora conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, che riporta quanto segue: «in hac abatia [di S. Maria di Corazzo] Bernardinus Telesius philosophus consentinus locatarius sive affictuarius dictae abbatiae per plures annos Contra perhipateticos suum aedidit opus». Al riguardo, De Franco ha escluso che l’abbazia di S. Maria di Corazzo abbia potuto costituire luogo del ‘ritiro’ telesiano, «sia per quel che dice il d’Aquino», che parla per l’appunto di un’abbazia «di S. Benedetto», sia per il contenuto della lettera al cardinale Sirleto (23 dicembre 1569), in cui lo stesso Telesio parla di un’abbazia «di Mons. Di Selve» (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 85, nota 50). La notizia riferita nel ms segnalato da De Leo merita comunque ulteriori approfondimenti, poiché, all’epoca in cui De Franco scriveva le sue considerazioni, egli era ancora certo che il ‘ritiro’ telesiano fosse quello, già acclarato dai biografi a lui anteriori (come il Bartelli), avvenuto in età giovanile, in Seminara, nella Badia del monastero benedettino appartenente alla diocesi di Oppido/Mileto. Oggi sappiamo, sulla base di recenti ricerche (cfr. E. Sergio, Bernardino Telesio. Note per una biografia intellettuale, 2011, pp. 142-153), che i ritiri furono almeno due (l’altro risalirebbe al 1579-1580, vedi infra), e non si può del tutto escludere che, negli anni precedenti alla prima edizione del De Natura (1565), Bernardino abbia compiuto un ulteriore ritiro di meditazione e di studi. L’intersezione creatasi tra la notizia riferita dal regesto telesiano, datata 6 giugno 1561, e la notizia riferita nel manoscritto segnalato dal De Leo, potrebbe anche farci supporre che un terzo (o ulteriore) periodo di ritiro Telesio l’abbia trascorso in un luogo diverso dalla Badia di Seminara. Si tratta tuttavia, come ho detto, di un’ipotesi da verificare, che avrebbe bisogno di un esame più accurato del ms I.F.2., su cui De Leo non ha saputo fornire notizie circa l’identità del presunto autore, oltre che una datazione più precisa di quella che si evince da sé nel passaggio citato (certamente composto dopo il 1561). C’è da sottolineare, infine, che l’atto del regesto telesiano riporta la nomina, da parte del Telesio, di un procuratore delle rendite di S. Maria di Corazzo, allo scopo di subaffittarle, il che fa supporre che Telesio abbia eventualmente usufruito della disponibilità di quel luogo in un periodo anteriore, piuttosto che posteriore, al 6 giugno 1561.

Della Badia di S. Maria di Corazzo il Telesio era già tenutario da diversi anni, come risulta da una procura datata 22 aprile 1558, affidata da quest’ultimo a Vincenzo Bombini, per agire in via legale nei confronti del Signore di Strongoli, al fine di ottenere il pagamento di un censo dovutogli per l’affitto della stessa abbazia (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 30, doc. 62). E, come ci ricorda Silvio Mercati, della stessa Badia era stato fittuario e procuratore Paolo Telesio negli anni precedenti. Il Mercati ricorda per l’occasione l’atto di «delega a Leonardo Gagliani a rappresentarlo in tutti i negozii riguardanti il monastero», «con mandato di procura redatto dal notaio Giov. Matteo Ricciuto in data 3 dicembre 1549» (S.G. Mercati, Appunti Telesiani, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», vii, 1937, p. 238). «L’atto – prosegue il Mercati – è firmato da Bernardino Telesio» – «Io Bernardino Tilesio fui presente testimonio» –, e proviene dal Cod. Vat. Lat. 7572, foll. 103-105, pubblicato in F. Pometti, Carte delle Abbazie di S. Maria di Corazzo e di S. Giuliano di Rocca Fallucca in Calabria, «Studi e documenti di storia e diritto», 22, 1901, pp. 241-306.

maggio 1562

A Trento, le condizioni di salute di Giovanni Antonio Pantusa si aggravano. Ciò gli impedirà di partecipare attivamente ai lavori del Concilio. In questo periodo il Pantusa redige il suo testamento. Per quanto concerne i beni posseduti in Cosenza, egli elegge come esecutori testamentari Vincenzo Bombini e Bernardino Telesio, «ambo cives Cosentinos» (Bibl. Vat. ms 5590, fol. 202).

Tommaso Telesio (ca.1523-1569), eletto nel 1565 arcivescovo di Cosenza per rinuncia del fratello Bernardino, fu per un certo tempo al seguito di Niccolò Ardinghelli, quando quest’ultimo rivestì presso la corte farnesiana il ruolo di datario papale. Una notizia quasi mai riferita dai biografi è che Tommaso Telesio è verosimilmente il «Mons. Tilesio» presente al Concilio di Trento con la carica di segretario, nelle sessioni che decorsero dal 15 gennaio 1562 al 4 dicembre 1563. Si vedano le lettere di Muzio Calini (1525-1570) nella raccolta di Etienne Baluze (Stephani Baluzii Tutelensis, Miscellanea novo ordine digesta et non paucis ineditis monumentis opportunisque animadversiones, aucta opera ac studio. J.D. Mansi Archiepiscopi Lucensis, Tomus iv et Ultimus. Continens Monumenta Miscellanea Varia, Lucae, apud Vincentium Junctinium, sumptibus Joannis Riccomini, 1764, pp. 214, 219-20, 223, 229, 231, 237, 296, 311, 318). Nei Monumenti di varia letteratura tratti dai manoscritti di Monsignor Lodovico Beccadelli arcivescovo di Ragusa, tomo secondo (Bologna, per le stampe di S. Tommaso d’Aquino, 1804), Tommaso Telesio ricorre una volta con l’appellativo di «vescovo di Tilesio» (p. 3), e due volte con l’appellativo di «Monsig. di Tilesio» (pp. 78 e 135 n. 142). Sull’epistolario di Tommaso Telesio, segnalo anche una lettera del cardinale Ercole Gonzaga di Mantova (1505-1563), indirizzata al «vescovo di Tilesio», datata 25 marzo 1561, conservata presso l’Archivio di Stato di Mantova (Archivio Gonzaga, E.L.XI.2 a, 1545-61, copialettere n. 6497, n. 133, c. 54r).

1563

Telesio si reca a Brescia per discutere le proprie tesi con l’aristotelico Vincenzo Maggi (ca.1498-1564). L’incontro verrà ricordato dallo stesso Telesio nel Proemio alla prima edizione del De natura che manderà alle stampe a Roma nel 1565 («e poiché dunque potevo facilmente sospettare e temere, anche perché talora, in realtà, avevo sospettato e temuto di essermi ingannato […] mi parve opportuno andare a visitare, per consultarlo, il Maggi di Brescia, il quale, com’era noto, eccelleva nella filosofia, e del quale già da molto tempo era conosciuta la nobiltà d’animo») («Facile igitur suspicari vererique potenti, et revera suspicanti interdum verentique deceptum me […] Madium Brixianum adire et consulere visum est, quem et in philosophia excellere videbamus et cuius mihi animi ingenuitas innotuerat», Prooemium, p. [4]).

Il viaggio di Telesio a Brescia va situato nel contesto di un periodo di trasferimento del filosofo cosentino a Roma, due anni dopo la morte di Diana Sersale. A Roma Telesio dovette trattenersi, a fasi alterne, dal luglio del 1563 al 1566, com’è attestato da due atti notarili: il primo, redatto a Cosenza e datato 9 giugno 1563, nel quale Bernardino designa come procuratore generale suo fratello Tommaso; il secondo, datato 3 luglio 1563, che conferma la presenza di Bernardino a Roma (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 38, doc. 111, e p. 39, doc. 112).

22 settembre 1563

Sertorio Quattromani (1541-1603), allora residente a Roma, scrive una lettera a Bernardino Telesio. Quest’ultimo, di ritorno dall’incontro con Maggi, soggiorna a Bologna. E Quattromani gli scrive:

«Hoggi, che sono i 20 di Settembre, ho avuto due pieghi di Vostra Signoria, recatimi dal Signor Rinaldo Corso, l’uno degli otto e l’altro degli undici del medesimo mese. Andai subito subito dal signor Bernardo Cappello, et gli lessi le lettere, che ella scrive à me, et al Bianchetto. L’ascoltò assai volentieri, et rimase tanto contento, che non parea che capisse in se stesso. Non posso visitare hoggi il Padre Bencio, et il Signor Caro, perché ho à scrivere cento lettere, et, come non scrivo à tutti, mandano i gridi insino alle stelle. Ma dimani senza fallo vedrò di visitargli et gli farò partecipi di ogni cosa. Io non fo troppo schiamazzo, che l’opera di Vostra Signoria sia riuscita secondo il desiderio dell’animo suo, perché io sempre hebbi per fermo, che non potea esser di meno, et quella cosa, che agli altri è nuova, a me è vecchia di mille anni: pure me ne rallegro oltre modo, perché questi filosofi romani si imaginavano, che il Maggio non sarebbe mai concorso con lei, et l’affermavano securamente; et hora sono rimasti tanto arrossiti che non ardiscono di comparere fra gli huomini. Mando a Vostra Signoria quelle compositioni, che mi impose che io facessi per quello amico. Mi farà favore di non vederle altro occhio che il suo, poiché da che io mi allontanai da lei, quei spiriti, che in me erano generati dalla sua presenza, et che mi rendeano pronto, et ardito, sono tutti spenti, et con loro anco annullato, et venuto meno ogni giudicio, et ogni sapere. Et perciò non fia maraviglia se quel poco, che mi è rimasto, teme d’apparir fuori. Il nostro maninconico ha cominciato a sorridere, et spero fra pochi giorni farlo il più allegro huomo del mondo. Del Signor Guerriero non le so dire altro, se non che è tutto suo, et che non si può satiare di giocare a scacchi, et di tranguggiarsi ogni dì mille matti. E il Signor Emilio, liberalissimo sopra ogni altro, conoscendo l’humore dell’huomo, gli ne dà quanti ne vuole. In questo mezzo bacio a Vostra Signoria la mano, et nella sua buona gratia riverentemente mi raccomando.
Di Roma, a’ 22 di Settembre, 1563»4.
(S. Quattromani, Lettere divise in due libri, Napoli, L. Scorriggio, 1624, pp. 67-69, ora in Id., Scritti, a cura di F.W. Lupi, 1999, pp. 19-20).

dicembre 1564

Pio IV propone a Bernardino Telesio l’arcivescovato di Cosenza, ma il filosofo declina l’offerta indicando suo fratello Tommaso. La notizia è riferita anche dal d’Aquino: «Quanto [fu egli amato] da Pio Quarto de Medici, il quale, volendo dargli lo Arcivescovato di Cosenza, egli per attendere à suoi studi et perché dicea per modestia che il fratello era più meritevole di lui, supplicò sua santità che avesse conferito quella grazia in persona di Tomaso Telesio, suo fratello» (G.P. d’Aquino, Oratione, p. 9).

12 gennaio 1565

Dal Regesto Vaticano per la Calabria (vol. iv, p. 378, doc. 21374) risulta che, in data 12 gennaio 1565, Tommaso Telesio è nominato Arcivescovo della Chiesa Metropolitana di Cosenza, vacante per cessione del cardinale Francesco Gonzago (cfr. V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 176). L’autorizzazione a prendere possesso della sua chiesa giunge con atto del 25 gennaio 1565 (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. iv, p. 379, doc. 21382).

1565

Esce la prima edizione del De Natura iuxta propria principia, liber unus et secundus, a Roma, presso lo stampatore Antonio Blado (1490-1567). Il volume è introdotto da un lungo Proemio (che non sarà pubblicato nelle edizioni successive) nel quale Telesio espone la genesi e la struttura dell’opera, inserendo anche qualche breve notazione biografica, fra cui il ricordo di aver trascorso dei periodi «in magnis plerumque solitudinibus» (Prooemium, pp. 3-4).

Di questa edizione – tra i diversi esemplari finora rinvenuti – ci è pervenuta una copia, oggi custodita presso la Biblioteca Nazionale di Roma, che presenta numerose postille autografe di Telesio, nonché un rifacimento a stampa dei capitoli I-IV e XIX-XXII del primo libro. Questo esemplare documenta una prima fase di ripensamento critico dell’opera, che verrà poi soppiantata dalla necessità di pervenire ad una vera e propria riedizione, che sarà pubblicata a Napoli nel 1570. Cfr. A. Ottaviani, Introduzione al De natura iuxta propria principia (Romae, A. Bladum, 1565), pp. xi-lix; L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 91-147; e R. Bondì, Introduzione alla rist. anast. di B. Telesio, De natura iuxta propria principia liber primus, et secundus – Ad Felicem Moimonam iris, con premessa di N. Ordine, Roma, Carocci, 2011, pp. xi-xxxi (quest’ultima edizione contiene la riproduzione di tutte le carte postillate presenti nell’edizione conservata presso la Biblioteca Nazionale di Roma).

1566

Telesio pubblica presso lo stampatore napoletano Mattia Cancer (1529-1578) un opuscoletto dal titolo Ad felicem moimonam iris. Con questo scritto (fino al 2009 sconosciuto agli studiosi telesiani), dedicato allo studio del fenomeno dell’iride, cioè dell’arcobaleno, Telesio inaugura le sue ricerche rivolte alla critica dei Meteorologica di Aristotele. Dall’osservazione empirica risulterebbero, secondo Telesio, diversi tipi di arcobaleno, che non possono essere spiegati unicamente ricorrendo al fenomeno della riflessione, ma possono essere ricondotti alla natura bianca della luce, la quale assume diversi colori al variare del grado di opacità delle nubi che attraversa.

L’imprimatur è a nome di «Fabio Episcopus Isclanus» e di Fabio Polverino, vescovo di Ischia, all’epoca vicario generale di Mario Carafa, arcivescovo di Napoli.

Di quest’edizione sono sopravvissuti ad oggi solo due esemplari: uno conservato a Roma presso la Biblioteca Corsini, l’altro a Mosca, presso la Biblioteca di Stato (cfr. l’Introduzione di R. Bondì alla ristampa anastatica dell’opera, edita per Les Belles Lettres, 2009, pp. xi-xxxvii).

Sempre nel 1566, Telesio ritorna a Cosenza, come risulta da due atti notarili: nel primo, datato in luglio, egli dona, insieme al fratello Tommaso e alla cognata Caterina Sersale, tremila ducati alla figlia Anna; nel secondo, datato in ottobre, nomina suo procuratore il notaio Vitelli di Taverna (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 44, docc. 143 e 146).

1567

Da documenti datati a partire dal 1567 risulta che Telesio parte da Roma per tornare a risiedere a fasi alterne ora a Napoli, ora a Cosenza (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 41-45).

Nello stesso anno, Giano Pelusio (1520-1600), un letterato crotonese, dedica a Bernardino un’ode Ad Bernardinum Thylesium Philosophum, definendolo «l’unico fra molti Italiani che con vari ragionamenti smentisci / Gli scritti di Aristotele; davanti a te cede / il Sapiente [Pitagora], che fuggendo dal tiranno di Samo [Policrate] / ammaestrò i miei concittadini di Crotone». È rilevante il riferimento del Pelusio al Telesio come un ‘nuovo’ Pitagora: una strategia retorica consimile era stata adottata da Aulo Giano Parrasio (1470-1521), oltre mezzo secolo prima, nei confronti del suo antico maestro, Giovanni Crasso Pedacio, in una lettera pubblicata nel Liber De rebus per epistolam quaesitis (Parisiis, Henricus Stephanus, 1567, p. 68).

L’ode Ad Bernardinum Thylesium Philosophum è stata pubblicata di recente da Jean-Paul De Lucca in uno studio su Giano Pelusio e sui rapporti intercorsi con i membri della famiglia Telesio (J.-P. De Lucca, Giano Pelusio: ammiratore di Telesio e poeta dell’«età aurea», in Bernardino Telesio tra filosofia naturale e scienza moderna, 2012, pp. 115-132). La citiamo integralmente di seguito: «Quot legunt iuvenes, senesque docti / Quæ scribis varia, et referta sensa / Attica, et Latia eruditione, / Nihil candidius, politiusque, / Nihil doctius, elegantiusque; / Uno ore esse fatentur: hoc Thylesi / Sic tuum est proprium, ut natare thynni, / Et volare aquilæ, boumque arare. / Quid mirum est igitur repertus unus / Si e tanto es numero virum Italorum / Qui veris rationibus refellas / Scripta Aristotelis: tibique cedat / Sophus, qui fugiens Sami tyrannum, / Civeis perdocuit meos Crotone» (ivi, p. 117). L’ode è tratta dalla raccolta di G. Pelusio, Lusuum libri quattuor, Neapoli, apud Io. De Boy, 1567, f. 53r.

10 dicembre 1567

Tommaso Telesio, fratello di Bernardino, in qualità di arcivescovo di Cosenza, scrive al cardinale Guglielmo Sirleto (1514-1585), allora prefetto della Biblioteca Vaticana, per sollecitarlo ad adoperarsi presso la Curia romana in favore del fratello, e ottenere la dispensa, richiesta da Bernardino, di sposare una sua parente («Attesa l’angustia del loco, che veramente in questa città li nobili sono quasi tutti parenti l’uno all’altro»):

«M. Bernardino mio fratello hebbe già tre puttini da una sua moglie dopo la morte della quale io hebbi cura a farli allevare et attesi al governo loro il meglio che seppi. Hora di poi ch’io ho il peso di questa chiesa, piacesse al Signore ch’io fossi bastante di complir al debito mio, non che m’avanzi tempo d’attender a cure private; questi poveri puttini hanno patito e patiscono grandemente; v’è di più ch’esso mio fratello si truova di natura tale che senza offesa o del prossimo o della Maestà divina, malamente può vivere solo et senza moglie. È occorso che questi mesi passati è rimasta vedova una nostra gentildonna cugina della moglie che fu di mio fratello. Costei ha doti piuttosto di qua dell’ordinario che di là secondo il costume de’ nobili di Cosenza et le ha tanto intricate in liti che non solo sono incerte ma pericolose anco di perdersi in tutto. È di più molto inanzi nell’età et è suspetta di sterilità per non haver avuto figlioli dal marito, il quale n’hebbe esso da un’altra moglie et è vivuta [con] esso per molti anni. Queste cause, che a lei aggiongono inhabilità o almeno difficoltà con altri suoi pari la fanno più abile et atta per lo bisogno di mio fratello et di questi puttini, li quali havendo estrema necessità di governo per l’imbecillità loro facilmente et di ragione lo trovarebbero in una donna piena di charità christiana et con le qualità sudette et congionta con loro di sangue come questa è […] et la certifico che come sarebbe senza dubio grandissima quiete mia et assetto di questi puttini et di tutta la casa et mente mia, così sperarei anco che per molti rispetti ne dovesse seguire gran servitio della Maestà divina con edificatione anco del prossimo…».
(F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. iv, p. 427, doc. 21854; cfr. V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 180, nota 2, doc. 156-a; cfr. N. Crostarosa Scipioni, Lettere inedite di Bernardino Telesio e Giano Pelusio nel carteggio del cardinale Sirleto, 1937, pp. 112 e 113, Vat. Lat. 6189, f. 490).

18 gennaio 1569

Poco prima di questa data, muore Tommaso Telesio. Il 18 gennaio, infatti, la chiesa di S. Giorgio di Zumpano, della diocesi di Cosenza, viene assegnata al canonico Salvatore Pellegrino. In un secondo atto, datato 24 gennaio, si tiene un concistoro nel quale la Chiesa Metropolitana di Cosenza, vacante per la morte di Tommaso Telesio, viene assegnata al cardinale Flavio Orsini (F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. iv, p. 445, docc. 22050 e 22053).

23 gennaio 1569

Pompeo Belo scrive una lettera a Guglielmo Sirleto (Cod. Vat. Lat. 6184, f. 402, in N. Crostarosa Scipioni, p. 113 n. 3), comunicando al cardinale la morte di Tommaso Telesio, e chiedendo di essere confermato vicario del successore; il Belo sarà menzionato da Bernardino Telesio nella lettera al cardinale Orsini del 28 aprile 1570 (v. infra).

15 febbraio 1569

Guglielmo Sirleto scrive al cardinale Flavio Orsini una lettera, nella quale raccomanda Bernardino Telesio al nuovo arcivescovo di Cosenza (F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. iv, p. 447, doc. 22072). La lettera è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Vat. Lat. 6946, f. 128v). Cfr. N. Crostarosa Scipioni, p. 115.

23 dicembre 1569

Dopo la morte di Tommaso Telesio, a Bernardino si lascia il compito di risolvere una serie di vicende legali, delle quali si ha notizia in una lettera che il filosofo scriverà, da Napoli, il 23 dicembre dello stesso anno, al cardinale Sirleto. Nella lettera si apprendono, oltre alla richiesta di aiuto, notizie sull’andamento dei suoi studi:

«L’infinita bontà et cortesia di Vostra Signoria Ill.ma et la sincera reverentia et servitù ch’io li porto, m’assicurano ch’io trovarò sempre prontissimo il suo patrocinio in ogni mia occorrentia, et tanto più in quelle che son piene di giustitia et equità. Però sendo molestato dall’agenti dell’Ill.mo Borromeo et dell’Ill.mo signor Priore di Barletta intorno a certi grani quali havevo in una Badia di Monsignor di Selve, qual’ho tenuta molti et molti anni in fitto, et nella quale ho fatto bona parte della vita mia, sotto pretesto che l’Arcivescovo mio fratello ci havesse parte, ho voluto recorrere a Vostra Signoria Ill.ma, et supplicarla se degni intendere le mie ragioni dal presente signor Pompeo Belo. Et vedendo chiaramente che detto fitto, et detti grani siano stati miei assolutamente et che l’Arcivescovo non ci havesse altro ch’l nudo nome, degnese farne fede all’Ill.mi prefati, et farli coscientia della molestia che li detti agenti mi donano non solo à torto, ma senza proposito ancuno, che quando bene se dechiarasse che l’Arcivescovo havesse parte in detto fitto, et grani, non saran però mai aggiudicati a Sua Signoria Ill.ma poi che non sono pervenuti dall’Arcivescovato, ma alli creditori, quali sono infiniti et liquidissimi. Et remettendomi sopra questo al prefato signor Pompeo com’ho detto, non fastidirò più longamente Vostra Signoria Ill.ma. Solo gli dirò che Dio gratia ho data tal fine alle mie cose, che mi pare possano darse a luce et così penso fare, se da questi affanni mi sarà permesso»5.

La lettera a Sirleto attesta come Telesio sia stato, per diversi anni, tenutario, insieme al fratello Tommaso, della Badia di Mons. Di Selve (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 41-42). Il testo della lettera, tratto dal volume di De Franco (ivi, pp. 44-45), è stato emendato di alcuni errori e sviste compiuti nella prima trascrizione (N. Crostarosa Scipioni, Lettere inedite di Bernardino Telesio e Giano Pelusio nel carteggio del Cardinale Guglielmo Sirleto, 1937, pp. 113-114).

La suddetta lettera conferma anche l’assenza del Telesio da Cosenza per tutto il 1569. Lo attesta anche un atto notarile, datato 18 novembre, in cui il filosofo cosentino nomina Vincenzo Bombini suo procuratore generale per l’amministrazione dei suoi beni e di quelli dei suoi figli (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 51, doc. 177), ma anche le diverse testimonianze e circostanze, riportate da diversi autori (tra cui il suo discepolo, Antonio Persio), che lo situano a Napoli, ospite della famiglia Carafa di Nocera, intento alla preparazione della riedizione del 1570 del De rerum natura, e dei tre opuscoli De colorum generatione, De his quae in aere fiunt et de terraemotibus, De mari liber unicus. Nel Liber Novarum Positionum (1575), il Persio ricorderà: «Is igitur cum secundam editionem adornaret egoque interea temporis essem Neapoli» (A. Persio, Liber Novarum Positionum, Venetiis, typis I. Symbaeni, 1575, Praefatio, p. [23]).

1569

Sempre intorno a questa data, risale l’invio del Telesio, al cardinale Ferdinando de’ Medici (fratello di Francesco I, Granduca di Toscana, che gli succederà nel 1587), di copia manoscritta delle opere che vedranno la luce l’anno successivo. La copia delle opere è accompagnata da una minuta non datata. In parentesi quadra, sono riportati alcuni periodi che risultano cancellati:

«[Sua Signoria Ill.ma non se sdegnerà] Molto Reverendo Signor mio osservandissimo [la verità supererà – havrà per ogni – che Sua Signoria Ill.ma non se dorrà mai, sendo difesa dall’invidia]. Parendomi havere dato tal fine à queste nostre cose, che possono comparere [et non possendo essere securo]. Poi che Dio gratia mi pare havere dato tal fine à queste nostre cose che possono comparere ho desegnato darle alla luce et quanto prima [et se li miei affanni, et la staggione facesse ch’io venissi lassù a pigliare ordene da Vostra Signoria dove l’havessemo da fare stampare et anche sotto nome di chi il farei molto vol(entier)i] ma ad ogni modo prima ch’il facci penso mandarle a Vostra Signoria che mi favorisce di vederle et correggerle, che non havrei ardire di darle fuora senza che lei m’assicurasse che possono farse vedere et fra pochi giorni coninciarò a mandarle à scriverglielo che se copiano tutte [con diligenza] con gran sollicitudine per questo conto. Et poi che [l’Ill.mo comune patrone mostra havere qualche desiderio che uscissero sotto il patrocinio come sa] mi parve bene che le nominar quel gran protettore et come sa l’Ill.mo comune patrone se degni mostrare havere molta benevolenza verso di me et della nostra dottrina et s’io non m’inganno l’opra non è indegna d’essere favorita da Sua Signoria Ill.ma et dal serenissimo suo fratello; et che per ordine loro esca da Firenze et dalla casa loro; et come sa Sua Signoria Ill.ma se degni mostrare haverne qualche desiderio, ho voluto con questa mia supplicare [mi favorisca con la sua] Vostra Signoria et parendoli che le malignità delli huomini non habbino mutato la volunta di Sua Signoria Ill.ma verso di me, gli facci intendere ch’io son prontissimo, quando così mi comandi Sua Signoria Ill.ma [di fare stampare l’opera tutta completa], che questa dottrina esca da Firenze et da quella casa, la quale è amata per il favore ch’ha fatto sempre à tutti li litterati».
(Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Ottoboniano 1292, f. 213, ora in L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 49-50). Cfr. S.G. Mercati, Autografi sconosciuti di Bernardino Telesio, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», xxv, 1956, pp. 11-14.

In particolare, da un periodo cancellato della lettera (sopra evidenziato in corsivo), si può supporre, come il Mercati ha fatto (e, insieme al Mercati, anche De Franco) che, per la preparazione della traduzione in volgare delle sue opere, lo stesso Telesio si sia contestualmente recato nel Granducato di Toscana, collaborando fattivamente al lavoro, accanto a colui che, sia pure non nominato, risulterà essere il traduttore delle opere edite del 1570, cioè Francesco Martelli (1534-1587). È lo stesso De Franco ad asserire, sulla scorta di un passaggio contenuto nella prefazione della traduzione del Martelli (nella quale quest’ultimo avverte il lettore della presenza di alcune differenze nel testo rispetto all’originale latino, «perché lo autore li ha egli stesso ultimamente ricorretti et in questo modo acconci»), che «si possa evincere facilmente anche un’andata dello stesso Telesio a Firenze; sarà stato molto probabilmente lui stesso a portare la copia dei suoi scritti […] ed avrà avuto così anche modo di concorrere alla traduzione» (L. De Franco, Introduzione e Bernardino Telesio, p. 52).

Può rafforzare l’ipotesi di un possibile soggiorno del Telesio a Firenze, agli inizi degli anni Settanta, ma, soprattutto, confermare il dato di una significativa diffusione delle dottrine telesiane a Firenze, una memoria di Gerolamo Vecchietti, contenuta nella biografia del fratello, l’orientalista Giovanni Battista, corrispondente del Quattromani e allievo del Telesio a Cosenza. In un passaggio della biografia si afferma che, dopo avere appreso a Cosenza i principi della filosofia telesiana («di Peripatetico divenne tutto telesiano»), «Verso il fine dell’anno 1571, la madre lo mandò a Firenze», ove «fermossi un anno e fece amicizia con molti de’ nostri Gentiluomini; andò a veder lo Studio di Pisa, e que’ pochi giorni, che vi stette, nello uscire i Maestri di Filosofia dai luoghi loro, li argomentava contro quello che avevan detto, riprovando Aristotele, ed estollendo il Telesio; e non era niuno che con apparente verità li sapesse rispondere, e se ne potesse schermire. Corse voce al Gran Duca Cosimo, che era colà, di averli messi tutti in soqquadro, […] ed ebbe voglia di vederlo» (G. Vecchietti, Lettera sopra la vita di Giovanbattista Vecchietti suo fratello, in J. Morelli, I codici manoscritti volgari della Libreria Naniana, 1776, pp. 161-162). La biografia del Vecchietti fu composta nel 1620. Ricordiamo che Girolamo e Giovan Battista erano figli di Francesco Vecchietti, mercante fiorentino, e di Laura di Tarsia, di origini cosentine (cfr. F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, 2011, pp. 28-29).

  5 aprile 1570

Il cardinale Flavio Orsini promuove una causa di spolio contro Bernardino Telesio ed altri eredi del fratello Tommaso (F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. iv, p. 460, doc. 22222).

1570

Telesio pubblica la seconda edizione del De natura iuxta propria principia, liber primus et secundus, denuo editi (Neapoli, apud Iosephum Cacchium). Come la prima edizione, l’opera risulta assente di dedica. Essa è il risultato congiunto di un’evoluzione del pensiero telesiano e di una ricalibratura teorica, a seguito delle prime critiche mosse all’edizione romana del 1565. La struttura teorica rimane nel complesso inalterata (a parte la soppressione del Proemio), mentre le maggiori novità riguardano la ridefinizione delle sue tesi. Di un certo interesse è il titolo che precede un breve capitolo, posto invece del Proemio, in cui si riafferma che la costruzione del mondo e della natura dei corpi non dev’essere ricercata con la ragione, come hanno fatto gli Antichi, ma dev’essere percepita col senso e ricavata dalle cose stesse: «Mundi constructionem corporumque in eo contentorum naturam non ratione, quod Antiquioribus factum est, inquirendam, sed sensu percipiendam et ab ipsis habendam esse rebus» (B. Telesio, De rerum natura iuxta propria principia liber primus et secundus, denuo editi, 1570, p. 1. Cfr. Id., La natura secondo i suoi principi, edizione con testo a fronte a cura di R. Bondì, La Nuova Italia, Scandicci, 1999; la riedizione a cura di A. Ottaviani, Torino, Aragno, 2010, e la rist. anast. a cura di R. Bondì, con premessa di N. Ordine, Roma, Carocci, 2013).

Nello stesso anno, Telesio attende alla pubblicazione dei tre libelli: De colorum generatione, De iis quae in aere fiunt et de terraemotibus, De mari liber unicus. Il primo è dedicato a Giovanni Geronimo Acquaviva (1521-1592), X duca d’Atri, XVII conte di Conversano. Il secondo al cardinale Tolomeo Gallio (c.1526-1607), creato cardinale nel 1557 da Paolo IV, segretario di Stato di Pio IV e di Gregorio XIII. Il terzo è dedicato a Ferrante Carafa (†1593), conte di Soriano, IV duca di Nocera (dal 1581, alla morte del padre Alfonso). Riportiamo di seguito l’epistola dedicatoria a Ferrante Carafa, contenuta nella riedizione curata da L. De Franco del De iis quae in aere fiunt et de terraemotibus:

«Bernardino Telesio saluta l’illustrissimo Ferdinando Carafa, conte di Soriano.
Non appena ho ricevuto la tua lettera, nella quale dichiaravi che non ti potevi affatto accontentare di quello che Aristotele dice del mare e m’incaricavi di scriverti quello che io ne penso della sua natura e dei suoi moti, anche se (come tu ben sai) sono oppresso da immensi fastidi, tuttavia per compiacerti e per soddisfare il tuo desiderio, ho cercato di limare, per quanto me lo hanno permesso le occupazioni odierne, quel rozzo commentario, che già da tempo avevo scritto su di esso; e, contrariamente al mio abituale modo di fare, in questo le tesi di Aristotele vengono esposte ed esaminate prima, affinché il lettore possa facilmente capire che tu giustamente non ti sei potuto acccontentare di esse; in seguito vengono aggiunte le nostre tesi. E tu, invero, leggilo molto attentamente, e se lo approverai e ti sarà apparso tale da poter venire pubblicato sotto il tuo nome, lo sia, dato che non ci può essere timore alcuno che altri condannino quello che tu avrai stabilito di ammettere. Tu di certo volentieri accetterai, qualunque essa sia, quest’opera composta per te, in quanto in essa avrai colto il grandissimo amore e l’ossequio che io nutro per te e la prova della mia gratitudine sia verso di te e sia verso i tuoi illustrissimi genitori: Alfonso, duca di Nocera, il migliore ed il più costante degli uomini; e Giovanna Castriota, la quale è ripiena del massimo dei beni della fortuna e della bellezza, ed avendone tanti quanto basta per non richiederne di più; e se qualcuno vedrà che, oltre alle rimanenti virtù d’animo, in lei sono unite al massimo e quasi rese una cosa sola anche quelle virtù, che difficilmente paiono stare insieme, e cioè la dolcezza e la sublimità, a stento riuscirà a cogliere il loro splendore, per cui mi pare che i nostri contemporanei non abbiano potuto vedere nulla di più amabile e nulla anche di più divino. E non c’è da dubitare affatto che tu illuminerai con nuova luce lo splendore di lei e del tuo genitore, e la somma gloria di ambedue le famiglie; infatti a me, nel considerare te e loro, pare che tu dall’uno e dall’altra abbia attinto tutto quello che si trova nei corpi e negli animi di ambedue; epperò per nulla affatto contento della loro gloria e di quella degli avi, o del possesso di così grandi ricchezze, o del dominio su tanti e così grandi popoli, tu con somma diligenza cerchi di procurarti con il tuo studio e la tua fatica nuovo splendore e nuovi onori. Orsù dunque, continua per come hai cominciato e, credimi, tu acquisterai non solo una grandissima gloria ma anche la vera felicità, e cioè unirai ad una somma fortuna una sapienza somma. Sta bene»
(B. Telesio, De iis quae in aere fiunt et de terraemotibusDe mari, a cura di L. De Franco, Cosenza, Editoriale Bios, 1990, pp. 71-73).

28 aprile 1570

Il 28 aprile 1570 Telesio scrive una lettera al cardinale Flavio Orsini (1532-1581), arcivescovo di Cosenza dal gennaio del 1562 al settembre del 1573. Si tratta di un documento di prima importanza nella definizione dei rapporti fra la filosofia telesiana e l’ortodossia cattolica. Nella lettera, il Telesio si difende dall’accusa, mossa da alcuni critici, che la sua opera contenga «altre proposizioni contra la religione». Egli scrive che, secondo alcuni, dalle sue tesi «si può cavar ch’io metto l’anima mortale, et che nego che ’l Cielo sia mosso dalle intelligentie». Con Orsini, Telesio assume senza indugi una linea di difesa fondata sulla sottomissione alla Chiesa e alla sua dottrina: «ne perciò supplicherò mai Vostra Signoria Ill.ma che non facci revedere l’opra anzi ne la supplico che s’hò errato, mi serà somma gratia vedere et correggere l’errori miei, che la mente mia è per gratia di Nostro Signore Dio et sarà sempre soggettissima et inchinatissima alla vera et cattolica religione, et sarei prontissimo ad abbruggiar tutte le mie opere, quando mi fusse mostro, che non siano piene di pietà christiana», senza però perdere l’occasione di menzionare il numero di «Teologi et Filosofi» che l’hanno ripetutamente vagliata, «approbata» e in alcuni casi persino raccomandata di farla leggere nei conventi. È interessante notare anche che il Telesio riferisca all’Orsini che la maggior parte delle critiche e polemiche siano nate proprio nella sua natìa Cosenza, piuttosto che «in Roma» e «per il resto d’Italia».

Riportiamo qui di seguito la trascrizione integrale della lettera (Archivio Capitolino, Fondo Orsini, serie I, corrispondenza, fasc. 194, vol. II, lettera 130), con le correzioni apportate da Luigi De Franco (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 66-69) rispetto alla prima trascrizione effettuata, nel 1993, da Girolamo De Miranda (Una lettera inedita di Telesio al Cardinale Flavio Orsini, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», lxxii, 1993, iii, pp. 361-375), e agli stralci contenuti nel Regesto Vaticano per la Calabria (vol. iv, p. 387). Per una maggiore fluidità del testo, circa alcune espressioni già sciolte da De Franco, ho preferito eliminare le parentesi tonde e riportare per esteso alcune abbreviazioni. Ho lasciato, invece, le parentesi quadre laddove lo stesso De Franco integra sviste e omissioni dell’autore della lettera.

«All’Ill.mo et Rev.mo Monsignor et Patron mio Colendissimo il Signor Cardinal Orsino. Ill.mo et Rev.mo Signore Patron mio colendissimo, Io credevo che se pur la mia innocentia non bastasse à farmi vivere quieto, lo dovesser poter far le tante tribolationi et miserie, che ho patito, poi ch’erano tali, che mi dovevano trovar compassione appresso qualsivoglia animo fiero, et nemico. Credevo anche che in Cosenza non ci fossero occhi tanto acuti, che quelli miei errori quali non sono stati visti in Roma, ne per il resto d’Italia, fosser visti in Cosenza. Ma vedo che mi son ingannato, che ’l Reverendo Monsignor Gio(vanni) Battista di Benedetti mi dice esser stato avvertito in Cosenza, che nell’opra mia stampata già cinqu’anni in Roma con licentia del padre Luccatello ci son altre propositioni contra la religione. Et dalle quale si può cavar ch’io metto l’anima mortale, et che negho che ’l Cielo sia mosso dall’intelligentie. Quest’opra Monsignor mio Ill.mo oltre che fù approbata com’ho detto dal Padre Luccatello, sendo stato certificato da un Teologo al quale la commesse, che non contenea cosa veruna contro la religione, è stata vista da infiniti Teologi et Filosofi, et fra gli altri dal Padre fra Tho(maso) di Vio herede non solo del nome, ma de la dottrina del Cardinal della Minerva bo(nae) me(moriae), et per quanto m’è stato referito non solo l’hà approbata, ma detto che, se n’havesse auttorità, la farebbe leggere in tutti li conventi della sua religione. Halla vista anche molto diligentemente Monsignor il Vescovo di Venosa fratello del predetto Padre Luccatello sendo stato stretto dall’Ill.mo mio di Como, che notasse le cose nelle quali li pareva, ch’io errassi, et mai niuno seppe vederci cosa contro la religione. Et havendola io repolita alquanto, et ampliatola assai, et volendola di novo ristampare in Napoli per ordine di Monsignor l’Arcivescovo l’hà vista il padre Mastro Baldassarre Crispo famoso Teologo frà li conventuali, et il Reverendo padre rettore delli Gesuiti. Et per commissione de la corte temporale il Vernaleone, et questo con più diligentia certo, et con più rigore di tutti, et tutti l’hanno approbata senza difficoltà, et già si stampa, et veramente in questi doi libri non si tratta d’altro, che de li primi corpi et de li principij cioè caldo freddo, humido, et secco. Dell’anima se ne dicono pochissime cose. Et quelle sole, ch’appartengono alla materia delli principij, et all’anima sensitiva et motiva; che l’intera dottrina d’essa se tratta nelli libri, che sequeno, quali son già finiti, et se non fossi stato costretto venire questo verno à difendere quelle poche facoltà che mi son rimase, già sarebbono revisti, et posti in ponto per posserse stampare, ma con l’aiuto di nostro Signore Dio se stamparanno verso Ottobre, et penso in Roma. Et spero non solo non parranno [contrari] alla religione, ma conformissimi. Et così m’assicura il Padre Salmarone et il predetto Padre Rettore [ai] quali hò mostrato li capitoli [che] hò scritto sopra questa cosa, che li portai meco à questo effetto, et farli vedere et intendere s’erano conformi alla religione. Hannomi anche assicurato gli predetti che le altre cose mie son conformissime con la scrittura, et massime nel numero delli primi [corpi], et nella materia et natura del Cielo. Et certificatomi che nella scrittura non si trova che li Cieli siano mossi dall’intelligentie, come vole Aristotele, anzi il Padre Rettore tiene quella positione per assurda et ridicula, in modo che posso essere certo che l’accusatore mio, se ce n’è stato alcuno, si sia mosso più tosto per invidia e malignità et per tribularmi, che per zelo di religione. Ne perciò supplicherò mai Vostra Signoria Ill.ma che non facci revedere l’opra anzi ne la supplico che s’hò errato, mi serà somma gratia vedere et correggere l’ errori miei, che la mente mia è per gratia di Nostro Signore Dio et sarà sempre soggettissima et inchinatissima alla vera et cattolica religione, et sarei prontissimo ad abbruggiar tutte le mie opere, quando mi fusse mostro, che non siano piene di pietà christiana. Solo supplico Vostra Signoria Ill.ma che si degni farla revedere da persona discreta et non troppo additta alla dottrina d’Aristotele, et che trovandosi cosa quale parrà dovere essere corretta mi se doni tempo di venire ad intenderlo sin ad Ottobre, che hora son costretto d’andar al paese à recoglere quelle poche facoltà mi son remase quale son dissipatissime et in potere di quelli hebbero li grani, che ivi hora mi son stati sequestrati, et credami Vostra Signoria Ill.ma in questi consiste il vitto della casa mia infelice. Vers’Ottobre bisognando verrò prontamente, et senza niuna necessità disegno venirci, et per obedire all’Ill.mo mio di Como, et farci stampare il restante delle cose mie. et tanto miglior gioditio si potrà far di questi libri stampati, quanto che se ne potrà largamente vedere la mente mia in quelli restampati, che com’hò detto son’ampliati assai. Io da Vostra Signoria Ill.ma et per il splendore del suo sangue, et per l’infinita bontà et cortesia sua, et per essere mio pastore et patrone datomi da nostro Signore Dio, ne sperai et sperarò sempre ogni gran favore, tanto più son certo non mi lasserà devorare da niuno lupo, et ributtarà chiunque per odio ingiusto o per mala natura sua procura di farmi male et d’opprimermi. Et spero anche la dottrina mia li parrà tale per ogni verso, che si degnarà pigliar la protettione mia et darmi quiete, che possa questi pochi anni, che [mi] avanzano spenderli tutti nelli studij tranquillamente, et in servitio di Vostra Signoria Ill.ma che spero la quiete mia non partorirà niuno disonore allei, ne incomodo al mondo. Harrei da far intendere à Vostra Signoria Ill.ma alcuni altri bisogni miei; ma per non non fastidirla troppo n’hò scritto al Signor Cavaliere Onofrio, la supplico quando non li sarà fastidio si degni intenderli et terminarli nel modo che da la sua benignità et bontà posso sperare, et quanto più reverentemente posso bacio la mano di Vostra Signoria Ill.ma pregando Nostro Signore Dio li conceda quella felicità che desidera.
Da Napoli il xxviii d’Aprile l’anno 1570.
Di Vostra Signoria Ill.ma et Rev.ma Humil(issi)mo S(ervit)ore
Ber(ardi)no Tilesio»6.

Non sarà inutile precisare che a Leone X risale la bolla papale Apostolis regiminis (1513), in difesa della dottrina dell’immortalità dell’anima, emessa con straordinario tempismo rispetto alle nuove idee che stavano germinando negli ambienti dell’aristotelismo padovano, attraverso Pomponazzi e altri novatores. Nella bolla si considera parte integrante della dottrina della fede il principio, affermato nel Concilio di Vienna del 1312, dell’immortalità dell’anima, forma del corpo, la cui origine non proviene dalla materia, bensì dall’immissione nel corpo da parte di Dio (a Deo immissa), creatore e animatore dell’universo. Giova anche ricordare che il cosentino Giovanni Antonio Pantusa (1501-1562), al Telesio molto legato (tanto da nominarlo, alla sua morte, suo esecutore testamentario in Cosenza), accostatosi ai principi della dottrina tomista, aveva progressivamente preso le distanze dalle nuove dottrine formatesi a Padova agli inizi del xvi secolo (cfr. A. Vitiello, Giovanni Antonio Pantusa, Vescovo di Lettere, e la sua dottrina della giustificazione, Napoli, Libreria Editrice Redenzione, 1967).

aprile 1570

Coeva alla lettera di Telesio a Flavio Orsini è l’iniziativa, promossa da Giovan Battista Ardoino, e sostenuta dallo stesso Orsini e dai rappresentanti del seggio cosentino, di sollecitare l’istituzione a Cosenza di un collegio della Compagnia di Gesù. Dell’iniziativa scrive diffusamente F.W. Lupi nel suo recente studio (F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, 2011, pp. 39-41, che riporta il prezioso studio di U. Parente, N. Bodabilla e gli esordi della Compagnia di Gesù in Calabria, in I Gesuiti e la Calabria, 1992, pp. 19-56). Scrive sempre al riguardo il Lupi: «il grande momento per i Gesuiti [a Cosenza] si registra nel 1589, anno che vede la creazione di una loro comunità stabile» (ivi, pp. 39-40). Il Lupi riporta in proposito un passaggio del futuro arcivescovo di Cosenza, Giovanni Battista Costanzo (in carica dal 15 aprile 1591 al 3 luglio 1617): «le due  Congregationi di nobili, et popolari, che mantengono nel loro Collegio li Padri Gesuiti hanno aiutato, et aiutano assai detto popolo nella vita spirituale. Parimente ha giovato molto […] la continuatione di prediche, et sermoni, tanto nella Chiesa Arcivescovile, quanto nel Collegio di detti Padri, et altre Chiese, alle quali prediche concorre volentieri massime la nobiltà di dicta Città, la quale da molt’anni ha fatto professione di buoni intendimenti in diverse lettere» (G.B. Costanzo, Stato della Chiesa in Cosenza, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 6529, ff. 71r-v). La datazione del documento è sicuramente coeva, o di poco posteriore, all’anno dell’insediamento dell’arcivescovo Costanzo nella diocesi di Cosenza, cioè il 1591.

È sempre il Lupi a riferire il ruolo rivestito, nel corso della seconda metà degli anni Ottanta, dal gesuita Sertorio Caputo (1566/1567-1608), originario di Paternò Calabro, il quale, prima di entrare, verso la fine del 1590, nella Compagnia dei Gesuiti, ed intraprendere a Nola gli anni del noviziato (1592-1594), tenne a Cosenza (sin dal 1584/1585) una scuola di matematica, nella quale insegnò anche grammatica e letteratura, cosa che gli procurò fama e ammirazione presso gli intellettuali cosentini. Sulla presenza di Caputo a Cosenza, cfr. R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il Collegio gesuitico napoletano 1552-1667 ca., 1994, pp. 78 e 269-270, che trae molte notizie, sopra riportate, dalla biografia di Antonio Barone (A. Barone, Della vita del P. Sertorio Caputo della Compagnia di Giesu, Napoli, De Bonis, 1691).

26 giugno 1572

Francesco Patrizi da Cherso (1529-1597), filosofo neoplatonico, su proposta di Antonio Persio (1542-1612), mette per iscritto in forma di lettera alcune Objectiones alla filosofia telesiana. Il Patrizi invia al Telesio le obiezioni ai primi sette capitoli del primo libro del De rerum natura e, in una seconda missiva, le obiezioni ai restanti capitoli del primo libro. A queste Telesio risponderà scrivendo le Solutiones Tylesij, che ci sono pervenute in due distinte redazioni manoscritte: una, in due copie, rilegata ad un esemplare dell’edizione del De rerum  natura del 1586, conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli (Ms. XIV.F.43); l’altra, redatta in forma di minuta autografa, conservata nel Codice Ottoboniano 1306 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Alle Objectiones di Patrizi risponderà anche Persio in uno scritto rimasto inedito, dal titolo Apologia pro Telesio adversus Franciscum Patritium (Biblioteca Nazionale di Firenze, cod. Magliab. XII.39). I testi sono stati pubblicati da L. De Franco nella riedizione dei Varii de naturalibus rebus libelli (Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 452-495; la trascrizione della lettera del Patrizi, tratta dai ff. 1-8 dell’esemplare del De rerum natura del 1586, si trova nelle pp. 463-474).

1573

Francesco Martelli (1534-1587), fiorentino, traduce in volgare il De rerum natura, il De mari e il De his quae in aere fiunt et de terraemotibus. L’opera è dedicata a Ferdinando de’ Medici. Nell’Epistola dedicatoria, datata 1573, il Martelli promette di tradurre quanto prima gli altri scritti di Bernardino Telesio, «i quali egli non ha per ora ancora dati alle stampe» (cfr. E. Garin, Postilla telesiana, in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, 1961, p. 443). Dalle varianti contenute nella traduzione del De rerum natura si può desumere che si sia servito di una redazione intermedia tra l’edizione a stampa del 1570 e quella restituita dalla copia postillata che documenta tutti gli interventi che Telesio apportò al testo subito dopo l’edizione. Cfr. L. Pierozzi, E. Scapparone, Il volgarizzamento del De rerum natura di Bernardino Telesio a opera di Francesco Martelli, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», lxix, 1990, pp. 160-181 (poi anche in Telesio e la cultura napoletana, a cura di R. Sirri e M. Torrini, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1992, pp. 315-329); E. Scapparone, Telesio in volgare. Fisionomia di una traduzione coeva del De rerum natura, in Bernardino Telesio tra filosofia naturale e scienza moderna, a cura di G. Mocchi, S. Plastina, E. Sergio, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2012, pp. 99-113; B. Telesio, Delle cose naturali libri due. Opuscoli. Polemiche telesiane, rist. anast. a cura di A.L. Puliafito, premessa di N. Ordine, Roma, Carocci, 2013.

Nello stesso anno, Francesco de’ Vieri (1524-1591), detto «il Verino secondo», professore presso lo Studium di Pisa, pubblica a Firenze un Trattato delle metheore (In Fiorenza, appresso Giorgio Marescotti, 1573). La stessa opera, emendata e con aggiunte, è ristampata nel 1582 (Trattato di M. Francesco de’ Vieri, cognominato il Verino Secondo, cittadino fiorentino, nel quale si contengono i tre primi libri delle metheore, In Fiorenza, nella stamperia di Giorgio Marescotti). Il testo, che ripete tesi aristoteliche, contiene alcuni riferimenti critici «contro i Telesiani», «per convincerli con quel che accettano per vero» (p. 227).

Come ha scritto Paolo Pissavino in un contributo su Telesio e il Vieri (P. Pissavino, L’altro sole di Francesco de’ Vieri, in Atti del Convegno internazionale di studi su Bernardino Telesio, Cosenza, 1989, pp. 207-220, qui p. 216, nota 9), gli attacchi alla dottrina telesiana contenuti nel Trattato delle metheore «non erano stati meno sostenuti nella Conclusione del libro della natura dell’universo, il cui manoscritto autografo è conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Magl. XII, 11 [fol. 23], dove con vigore si era pronunciato contro coloro che, come Telesio e i suoi seguaci, “errano […] attribuendo ogni giudizio delle cose al senso”». Inaggirabile, su questo punto, lo studio di E. Garin (Telesiani minori, «Rivista critica di storia della filosofia», xxvi, 1971, pp. 199-204).

Giova ricordare che il Vieri si rese protagonista tra il 1589 e il 1590 di un attacco ad Andrea Cesalpino (c. 1525-1603), titolare a Pisa della cattedra di medicina, accusandolo di eresia e di diffusione di idee telesiane. La contesa, la cui eco giunse fino al Granduca Ferdinando I, avvenne a ridosso della riedizione dell’opera Quaestionum peripateticarum libri quinque (pubblicata dal Cesalpino per la prima volta nel 1569 a Firenze presso l’editore Giorgio Marescotti), in una miscellanea dal titolo Tractationum philosophicarum tomus unus (Genevae, excudebat Eustathius Vignon, 1588), contenente anche il De rerum natura iuxta propria principia libri IX di Bernardino Telesio.

Sempre nel 1573, a Flavio Orsini succede, nella carica di arcivescovo di Cosenza, Matteo Acquaviva, fratello del duca d’Atri (a cui Telesio aveva dedicato, nel 1570, il De Colorum generatione). Matteo Acquaviva manterrà questa carica fino al 1577.

maggio 1575

Antonio Persio pubblica il Liber Novarum Positionum (Florentiae, excud. Georgius Marescotus, 1575). Quindici anni più tardi, il Persio diverrà curatore dell’edizione di una raccolta di scritti telesiani (Varii de naturalibus rebus libelli, Venetiis, apud Felicem Valgrisium, 1590). L’edizione includerà il De cometis, et lacteo circulo; il De his, quae in aere fiunt; il De iride; il De mari; il Quod animal universum; il De usu respirationis; il De coloribus; il De saporibus; e il De somno). Come ricorda Luigi De Franco, il Liber Novarum Positionum costituì «il testo base per la discussione sulla filosofia telesiana tenuta a Venezia, e che per altrettanti giorni doveva essere rinnovata a Padova» (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 57-58). Nella Praefatio al testo, il Persio ci informa di una disputa avvenuta a Perugia nello stesso anno. Delle tre giornate di dibattito tenute a Venezia e del successivo trasferimento a Padova, scrive il Persio: «Cum hae positionis Venetiis per tres illos, in quos indictae fuerant, perpetuos dies essent a nobis disputatae, factum est, ut petendi Patavium publiceque illas ibi proponendi consilium deposuerim omnesque disputandi cupidos (quia non tam magna inter Patavium et Venetias est intercapedo loci) ad Corneliorum aedes toto hoc anno invitatos voluerim» (p. [8]). Il Persio ricorda altresì che, il terzo giorno, la disputa a Venezia dovette interrompersi a causa di alcuni tumulti suscitati da «Patavinii gymnasii discipulis nescio quibus» (ibid.).

Il contenuto delle discussioni svoltesi a Venezia furono riportate dallo stesso Persio in un nuovo testo, dal titolo Disputationes Libri Novarum Positionum Antonii Persii Triduo habitae Venetiis anno mdlxxv Mense Maio (Florentiae, In officina G. Marescoti, 1576). L’opuscolo esce a Firenze probabilmente nei primi mesi del 1576, mentre l’epistola dedicatoria (a Carlo Gualteruzzi, 1500-1577, personalità che fu vicina al milieu di Ranuccio Farnese e di Marcello Cervini) è datata «Roma, Calendis Octobri mdlxxv». Il testo contiene anche un riferimento esplicito ad una presunta «Academia Telesiana», formata verosimilmente dai discepoli della filosofia telesiana conosciuti nei diversi milieu culturali frequentati dal Persio. Le personalità evocate nelle Disputationes sono, oltre allo stesso Gualteruzzi (sotto lo pseudonimo di «Andreas Alethinus»), Andrea Corner, Tolomeo Gallio, Francesco Patrizi, Pietro Contarini, Giovanni Michiel, Luise Gradenigo, Clemente Montefalco, Lelio Piacentini, Daniele Ferulano, Angelo Lolini, Arcangelo Mercenario (quest’ultimo professore di filosofia a Padova, e sostenitore delle tesi di Marcantonio Zimara). Cfr. F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, 2011, pp. 55-59.

1576

Sempre di Antonio Persio, esce a Venezia, per i tipi di Aldo Manuzio, il Trattato dell’ingegno dell’huomo. Il Trattato è dedicato al su citato Pietro Contarini. Di un certo interesse è, per quel che riguarda il rapporto col Telesio, il fatto che il Persio paragoni il filosofo cosentino ad Erodoto, attraverso una personalissima declinazione del genius loci: «Et dicesi che Herodoto Halicarnasseo, quantunque per iscrivere la sua historia sapesse di esser luoghi in Asia, et in Grecia molto acconci, et utili al suo intendimento, volle però venirsen a scriverla in Italia nella Magna Grecia, et venne a starsi ne’ Thurii, che oggidì si nominano i Turoni, città posta infra il fiume Crati, et Sibari, di cui appena si veggono i vestigi; et ciò non per altro fece Herodoto al parer de’ savi, che per la temperanza dell’aria la quale ivi fosse perfettissima, o pure perché Iddio l’ha voluto conceder gratia che non solo vi nascessono ingegni alti, et maravigliosi, come hoggidì per tutti ne può far fede il Signor Bernardino Telesio solo di ingegno così ammirabile, ma questa gratia particolare havesse, che de gli altri venuti altronde, per dimorarvi s’affinassero, et aguzzassero lo ’ngegno, il quale facesse al mondo parte de’ suo’ così nobili frutti, come li diede Herodoto, che ne fu chiamato padre dell’historia» (A. Persio, Trattato dell’ingegno dell’huomo, 1576, ried. a cura di L. Artese, 1999, p. 72).

 28 febbraio-8 marzo 1576

Morte di Prospero, primogenito di Bernardino Telesio, all’età di soli 23 anni. Le circostanze della sua morte sono poco chiare, ma certo è che si trattò di un assassinio, per mano di un certo Nicola Maria Carnevale.

Relativamente a questa tragica circostanza, Gian Battista Manso (1569-1645), biografo di Torquato Tasso (1544-1595), nella Vita di quest’ultimo riporta la seguente testimonianza: «Fu Bernardino Telesio uomo di acuto ingegno, di profonda dottrina e di socratici costumi, ma non di meno sentì acerbamente la morte di suo figliuolo che gli fu senza colpa ucciso. Torquato, per volernelo consolare, gli addimandò: Se quando il figliuolo non era al mondo, egli si doleva che non vi fosse. Il Telesio rispose che no, Dunque, soggiunse il Tasso, perché vi dolete ora che non vi sia! Volle contra un filosofo dispregiatore degli antichi valersi degli argomenti dei sofisti» (G.B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venetia, presso Evangelista Deuchino, 1621, ried. Bologna, presso Riccardo Masi, 1832, cap. vi, § lxi, pp. 324-325).

maggio 1577

Nei dialoghi su L’amorosa filosofia, composta nell’agosto del 1577, Francesco Patrizi ha occasione di menzionare Bernardino Telesio come uno degli interlocutori del dialogo, in veste di «discreto uditore». Il contesto filosofico-letterario nel quale si svolgono i dialoghi trae verosimilmente ispirazione da una situazione storica reale, sia per la dovizia di particolari con cui Patrizi, per voce del padovano Antonio Querenghi (1546-1633) narra i suoi spostamenti tra l’estate del 1576 e il maggio 1577, sia perché i personaggi dei dialoghi sono tutti autori realmente esistiti. È sempre il Querenghi a ricordare nelle battute iniziali dello scritto che Patrizi dovette lasciare Modena (dove frequentava l’ambiente letterario della «divina» Tarquinia Molza, 1542-1607) per recarsi prima a Parma e poi a Genova, per imbarcarsi per la Spagna, e «ritrovarsi a principio di settembre [1576] a Barcellona per sua bisogna molto importante» (F. Patrizi, L’amorosa filosofia, a cura di J.Ch. Nelson, Firenze, Olschki, 1963, p. 3). Al suo rientro dalla Spagna, Patrizi incontra nuovamente Querenghi, il quale narra «che mi venne appresso seguendo, come giunto a Modona», «raccolto dal cavaliere Alessandro Baranzone suo antico et cordiale amico» (ivi, p. 9). In breve tempo il Patrizi fu introdotto nella cerchia di Tarquinia Molza, disponendosi ad insegnare a quest’ultima «la lingua greca et introdurla a Platone et a’ pythagorici» (ibid.), come faceva già da due anni. Nel maggio del 1577 egli si recò «per sue bisogne» a Roma. E sempre Querenghi racconta che a Roma il Chersino «havea per uso di avere seco a desinare et a cena più amici suoi e gallanti huomini. Onde di varie e nobili cose si ragionava, e che fra l’altre una mattina vi si trovarono messer Sperone Speroni nostro, messer Carlo Gualterucci, messer Carlo Segonio, che alhora per alcuni suo’ affari si ritrovava in Roma, et con lui messer Hortensio Grilenzoni e messer Benedetto Manzuolo et messer Gasparre Silingardo, tutti e cinque Modanesi, messer Marco Felini Cremonese, messer Fabritio Dentici Napoletano, messer Bernardino Telesio Cosentino, messer Maffeo Venieri Venetiano, messer Vi<n>cenzo Cantoni Sanese» (ivi, pp. 8-9). Questi figurano tutti, ad eccezione di Carlo Gualteruzzi (che si spense il 26 maggio 1577), tra le «Persone de’ Dialoghi», in cui compaiono anche i nomi di Tarquinia Molza e di Giovanni Falloppia. Alla fine del primo dialogo Bernardino Telesio è citato come colui che, dopo aver suggerito ai presenti di differire alla mattina seguente «il darci racconto della filosofia amorosa della vostra divina», raccomanda loro che «sarà bene che questa notte voi cerchiate di pensarci bene intensamente e ridurlavi a memoria tutta» (ivi, p. 75). Querenghi rammenta, infine, che «egli [Telesio] si rimase col signor Patritio, passando sopra le trattate cose, fino che si fu hora di andare a cena et poi a dormire» (ibid.).

1578

Secondo il Bartelli, a quest’anno risale il matrimonio di Anna Telesio con Girolamo Scaglione, patrizio cosentino (F. Bartelli, Note biografiche, p. 63, n. 4). Sempre il Bartelli riporta che ella rimase vedova fra il 1590 e il 1591, dopo aver dato alla luce quattro figli: Francesco, Pier Leone, Lucrezia e Zenobia (ivi, p. 64).

fine anni 1570 (1577/1579)

Bonifacio Vannozzi, rettore dello Studium di Pisa dal 1573 al 1574, nato presumibilmente intorno al 1540, e addottoratosi nello studio pisano, scrive una lettera a Telesio, da Napoli, invitandolo a recarsi nel capoluogo campano per frequentare il circolo di intellettuali che gravitava presso il milieu del duca di Nocera. La lettera conferma che Bernardino avesse già soggiornato per qualche tempo presso la famiglia Carafa (a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, insieme a Sertorio Quattromani, e poi raggiunto dal telesiano Antonio Persio).

«Al Signor Bernardino Telesio a Cosenza.
Il Signor Anania m’ha chiesto la mancia, dandomi nuova che Vostra Signoria debba essere in breve de nostri, et gli ho detto, che si dichiari, perché io non harò cosa tanto cara ch’io non la doni volentieri per un così caro et desiderato aviso, et l’Illustrissimo Signor Duca di Nocera, che sentì questo suono di mancia, mandò a chiamarmi, et anch’esso voleva impormi taglia per il medesimo annuntio, et io risposi a Sua Eccellenza che se ben non è solito darsi la mancia se non a chi è il primo, io nondimeno sento tanto gusto per questa bramata novella che volentieri la darò anche a Vostra Eccellenza. Hora che s’aspetta più ci terrà Vostra Signoria sospesi? et quando ci leverà di questa infermità così etica, et così tabida? Un filosofo così raro, che dovrebbe darci il rimedio da sedar le perturbazioni, ci somministra materia, et fomento ad ingagliardircele? Forse vorrà Vostra Signoria anco in questa esser contrario ad Aristotele? venga di gratia, venga, non faccia sospirar più il suo mecenate, anzi il suo Augusto, dico del Signor Duca di Nocera, Augusto et mecenate non a lei solamente, ma a quanti virtuosi voglioni godere del beneficio della sua liberalità, che è tale da farlo riputar un moderno Alessandro. Io sto contando i minuti, et ogni dì sono a frati dello Spedaletto, che preghino per il buono e presto viaggio di Vostra Signoria. Venga il nostro Socrate, venga il nostro ille dixit, che troverà qui una falange di virtuosi dispostissimi a servirla, honorarla et stimarla con ogni sorta di cara, et di rara dimostrazione. Io poi sarò quel ch’io soglio, per non potere esserle né più più inchinato, né più affettionato di quello ch’io le fui, quando me le diedi, et per servidore, et per seguace.
Bacio a Vostra Signoria le mani.
Di Napoli».
(B. Vannozzi, Delle lettere miscellanee, Venetia, appresso G.B. Ciotti, 1606, p. 305; in L. Artese, Documenti inediti e testimonianze su Francesco Patrizi e la Toscana, «Bruniana & Campanelliana», 1998, i, pp. 167-191, qui pp. 190-191).

1579-1580

Al periodo compreso tra la fine del 1579 e gli inizi del 1580 risale un altro importante ritiro di Bernardino Telesio nel monastero di Seminara. La notizia è ricostruibile a partire da una lettera dell’abate benedettino Angelo Grillo (c. 1558-1629), inviata ad Andrea Chiocco (1562-1624) nel 1612:

«Breve, ch’il tempo è breve, et lunghi i negozzi. In maniera che gli stili epistolari, et degli autori ch’an fuora lettere rimetto Vostra Signoria Eccellentissima al volume delle mie lettere, nel capo delle discorsive. Il Signor Olmo hà il libro, et lo manderà, se ne sarà richiesto. Io non l’hò. Intanto à quel Mathematico questionevole non mi occorre altro, se non che le openioni pellegrine dimostrano più tosto acume d’ingegno, che sodezza di dottrina. Dico il più delle volte. Né mi son meravigliato dell’ingegno, quando hò veduto ch’egli è della scuola Thelesiana. Il cui maestro vidi io in Seminara, mentre assai giovinetto passava à Messina, et ragionai seco. Parlò d’Aristotile, non dirò con la lingua; ma coi piedi. Tanto basti. Spiegò poscia un gran fascio di manoscritti, li quali mettendo in ordinanza, quasi machine militari contra la dottrina peripatetica, mi f’è sentir di molti schioppi, et di molte bombarde, tutti però senza palla, per quel poco che ne potei giudicare in quella età, et in quella occasione; ch’il tutto à punto si risolve in gran tuoni, in gran fumi, et in gran fiamme. Hora con gli occhiali del Galileo fatti hormai segretarij della Luna, et delle stelle, habbiamo scoperti nuovi aspetti, et nuove stelle; et perche che qui gioca non tanto l’intelletto, quanto il senso, s’è aperta nuova scuola di lubrica curiosità; et suscitata l’openione del Copernico, che la terra si muova come gli altri globi, et ch’il Sole stia fermo nel centro del mondo ad illuminarli; Et che la terra sia alla Luna, quel che la Luna è alla terra, et che vicendevolmente si rendano il lume l’una con l’altra. Il che non s’allontana dall’openion di Pitagora, il quale (sebben mi ricordo) stimò, che la terra fosse una stella. Et così i tempi rinovano i tempi, et le openioni, et per questi circoli si vanno girando, et consumando gli anni, et gl’ingegni humani» (A. Grillo, Lettere, In Venetia, per Evangelista Deuchino, 1612, pp. 284-285).

La lettera è indirizzata al «sig. Andrea Chiocco» di Verona, e non, come afferma Luigi Firpo (L. Firpo, Tradizione filosofica in Calabria, «Il Ponte», vi, 1950, pp. 1071-1079), «a un figlio del Boccalini». Di quest’ultimo, probabilmente Pietro Boccalini, «medico di fama», il Chiocco era nipote, essendo fratello della madre di lui, Maddalena Boccalini. Andrea Chiocco, medico della scuola padovana, oltre che corrispondente del Grillo, aveva conosciuto a Padova il telesiano Antonio Persio (1542-1612), editore dei Libelli (1590), verso cui il Chiocco avrebbe in seguito assunto un atteggiamento polemico.

Nella lettera del Grillo si fa riferimento ad un «matematico» telesiano: si tratta probabilmente dello stesso Persio, sia perché, alla corte de’ Medici, come nell’ambiente patavino frequentato dal discepolo telesiano, lo studio delle matematiche aveva un posto privilegiato, sia perché, contro il Persio, Andrea Chiocco pubblica nel 1593 uno scritto in un trattato di medicina e di filosofia naturale dal titolo Quaestionum philosophicarum et medicarum libri tres (Veronae, apud Hieronymum Discipulum). La dodicesima delle Quaestiones è implicitamente rivolta al Persio: «Ad Telesianum quendam virum doctissimus» (v. infra).

Il Bartelli ipotizza che il periodo di questo ritiro abbia potuto svolgersi qualche tempo prima della pubblicazione del De Natura (1565), prima della trasferta del Telesio a Brescia, nell’estate del 1563 («Osservando che l’abate Grillo nacque verso la metà del secolo e che non vide Bernardino se non dodici o tredici anni dopo, perché ci fa sapere che allora era assai giovinetto, dobbiamo ammettere, senza tema di errore, che il filosofo si trovava in Seminara, o per visitare i suoi vecchi ospiti del monastero della Trinità, o per consultare qualche amico sulla sua opera, da parecchi anni composta e pronta per la stampa», F. Bartelli, Note biografiche, 1906, p. 28). A smentire questa ipotesi interviene, da una parte, il fatto che nel 1562 l’abate Grillo non fosse ancora in età tale da potersi definire «assai giovinetto» (E. Durante, A. Martellotti, Don Angelo Grillo O.S.B. alias Livio Celiano, pp. 79-81; L. Matt, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 59, 2003) e, dall’altra, la circostanza, non meno decisiva, che l’unico periodo in cui il Grillo avrebbe potuto incontrare il filosofo cosentino sia quello risalente alla permanenza dell’abate tra le terre della Calabria Ultra e la città di Messina, nel biennio 1579-1580, com’è attestato dalla Matricula Monachorum congregationis casinensis ordinis S. Benedicti (L. Novelli, G. Spinelli, 1983, p. 537). L’ipotesi che, nel decennio compreso tra il 1551-1552 (prima del matrimonio con Diana Sersale) e il 1562-1563 (dopo la morte di lei), Telesio abbia trascorso uno o più ritiri in Seminara, resta comunque plausibile, avendo egli fatto riferimento, nella lettera al cardinal Sirleto del 23 dicembre 1569, alla circostanza d’aver passato in Seminara «bona parte della vita mia», e di essere stato per molti anni tenutario della Badia di Mons. Di Selve.

1579-1580

In una Miscellanea inedita dedicata a Filippo de’ Medici (dunque anteriore al 1580), oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Magl. XII.8), Alessandro Maranta dedica più di cento pagine alla demolizione di alcune teorie fisiche telesiane. Luigi De Franco ci ricorda che il Maranta definì comunque il Telesio come un pensatore «laudatissimo» e «dottissimo» (Magl. XII.8, f. 147r, in L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 387).

1580

In uno dei discorsi accademici tenuti a Napoli da Giovanni Battista Rinaldi, Telesio è ricordato tra le personalità più significative della filosofia del xvi secolo. Egli è menzionato in una sorta di genealogia della filosofia dell’Italia meridionale, insieme ad Agostino Nifo, Simone Porzio, Marcantonio Zimara, Giovanni Bernardino Longo. Di Telesio, il Rinaldi mette in evidenza il «profondo ingegno», la «grande acutezza» dei pensieri intorno ai segreti della natura e la schiettezza della sua prosa: «La sua dottrina, benché in netto contrasto con quella di Aristotele, è da molti avidamente ricercata, fra i quali vanno annoverati in special modo Mario Galeota iuniore, Scipione Cosso, cavalieri nobilissimi della nostra cittadinanza; e poi Tarquinio Prisco, vescovo di Cariati e chiaro giurisperito; Giovan Battista Raimondi, che con grande approvazione professa pubblicamente le scienze matematiche a Roma. Sono inoltre fra costoro Antonio Persio e Latino Tancredi, niente affatto disprezzabili cultori delle lingue greca e latina: uno di stanza a Roma, l’altro a Napoli hanno difeso pubblicamente ottenendo consensi la dottrina di Telesio (G.B. Rinaldi, Academica tertia. In quibus orationes continentur ab eius academicis publice habitae, Neapoli, ex Typographia Horatij Salviani, 1580, p. clxxiir).

luglio-agosto 1581

Agostino Doni pubblica a Basilea il De Natura Hominis libri duo (Basileae, Hieronymus Frobenius). Il testo è stato riedito nello studio di L. De Franco, L’eretico Agostino Doni, medico e filosofo del ’500, Cosenza, Pellegrini, 1973. Prima di trasferirsi a Basilea, il Doni soggiorna per qualche tempo a Padova e a Ferrara.

1581-1582

Il filologo e matematico inglese Sir Henry Savile (1549-1622), in occasione del suo Grand Tour (1578-1582), in cui visita Norimberga, Vienna, e soggiorna a lungo a Breslavia, presso l’umanista Andreas Dudith (1533-1589), trascorre in Italia un periodo compreso tra il settembre del 1581 e il gennaio-febbraio 1582. In Italia visita le città di Ferrara (ove incontra Francesco Patrizi, presso cui sosta per dieci giorni), Padova (dove conosce Gian Vincenzo Pinelli), Roma (dove fu ospite del matematico Giovan Battista Raimondi, 1536-1614, che divenne titolare della tipografia orientale medicea, già voluta da Marcello Cervini), Venezia. Proprio da Venezia invia una lettera, datata 27 dicembre 1581, ad Andreas Dudith, allora residente a Breslavia, in cui, accennando a Francesco Patrizi, così scrive: «Male habent ipsum [Patrizi], ut opinor, τροπαῖα Tilesii, cuius secta multos hic reperit laudatores, sed non omnes, mihi crede, possumus esse Tilesii» («Costui [Patrizi] mal sopporta, reputo, i trofei di Telesio, la cui setta trova qui molti estimatori; ma non tutti, credimi, possiamo essere dei Telesio»). Fu proprio Andreas Dudith a donare a Henry Savile un esemplare del De rerum natura (1570), attualmente conservato presso la British Library, con diverse annotazioni del matematico inglese. Cfr. C. Maccagni, G. Derenzini, Libri Apollonii … qui desiderantur, in Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat, 1985, pp. 678-696, qui p. 688.

Una seconda lettera, datata 1 gennaio 1582, è indirizzata al Raimondi. Anche da questa lettera si apprende che il Savile non abbia perso tempo nel leggere l’opera di Telesio. Una terza lettera, infine, datata 12 aprile 1582, indirizzata al Pinelli, scoperta da Fiammetta Iovine presso la British Library, conferma l’ipotesi che il Persio abbia potuto fare da tramite per alcune missive del Raimondi. Cfr. M.F. Iovine, Henry Savile lettore di Bernardino Telesio. L’esemplare 537.C.6 del De rerum natura 1570, «Nouvelles de la République des Lettres», xvii, 1998, 2, pp. 51-84, qui p. 62.

fine estate-inizi autunno 1581

A questo periodo risale verosimilmente il matrimonio tra Antonio Telesio, figlio di Bernardino, e Cinzia Firrao (o Ferrao), figlia di Giulio Firrao e Joannella Cavalcanti. Con una convenzione del 27 ottobre 1581, Bernardino cede al figlio tutte le rendite del suo patrimonio, dietro l’impegno di corrispondergli una rendita annua di 200 ducati (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 79, doc. 328). Antonio morì nell’ottobre del 1592, e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco d’Assisi. Lasciò due figli in tenera età, Diana e Tommaso, che furono affidati alla tutela del fratellastro di Antonio, Pompeo de Matera (F. Bartelli, Note biografiche, p. 64).

10 gennaio 1583

A seguito della caduta di un aerolite in un podere presso Castrovillari, ha inizio la stesura dell’opuscolo De fulmine. Il Telesio, recatosi prontamente sul luogo e avuta relazione dell’accaduto, ne informò Ferrante Carafa, «Marchese di S. Lucido» (1509-1587). L’opuscolo, che non fu stampato né dal Telesio in vita, né da Antonio Persio nell’edizione dei Libelli (1590), è sopravvissuto in quattro redazioni manoscritte ed è stato pubblicato per la prima volta da Francesco Fiorentino nel 1874, e, nel 1967, da Carlo Del Corno (Il commentario “De fulmine” di Bernardino Telesio, pp. 474-506). Quest’ultimo ha inserito in appendice un’epistola senza data né firma (ovviamente risalente, come si evince dal contesto, alle settimane successive all’evento) indirizzata a Ferrante Carafa, attribuita dal Del Corno a Bernardino Telesio (contrariamente all’ipotesi formulata da Luigi de Franco, che ne identifica l’autore nel conte de Haro)7; due lettere scambiate tra il conte de Haro (figlio di don Garcia de Haro, viceré di Napoli dal 1564 al 1567 e di Vittoria Colonna, nipote dell’omonima poetessa) e Ferrante Carafa, datate rispettivamente 8 e 9 marzo 1583; e una lettera di Bernardino Telesio indirizzata al conte de Haro, datata 25 dicembre 1583 (ivi, pp. 502-506). L’imprimatur al De fulmine, di Honofrius de Porta, Vicario generale di Napoli, citato insieme al carmelitano Filocalo Faraldo, reca la data «Neapoli, 11 Maij 1586» (ivi, p. 502). La lettera di Telesio al conte de Haro, inviata da Cosenza (che riportiamo di seguito, insieme alla lettera di de Haro a Ferrante Carafa), sgombra ogni dubbio circa il fatto che il celebre soggiorno di Telesio a Napoli, presso Ferrante Carafa, IV duca di Nocera, abbia preso inizio nel 1584 e si sia protratto fino al 1587, quando le precarie condizioni di salute del filosofo lo indussero a fare ritorno a Cosenza. Citiamo innanzitutto la lettera indirizzata a Ferrante Carafa, attribuita, come si è detto, da Luigi De Franco al conte de Haro:

«All’Ill.mo Signor Ferrante Carrafa, Marchese di San Lucido.
Venendomi da Vostra Signoria Ill.ma commandato ch’io le faccia relatione del Fulmine o Tuono che fu alli x del presente in la Terra di Castrovillari, le dico che il detto giorno a’ x di Gennaro, che secondo il Calendario vecchio doveva essere il primo dell’anno et mese presente a’ hore xviiii, fu visto da infiniti contadini, che stavano alla Campagna agli essercitii della Terra, et da molte altre persone degne di fede, che si trovorno in viaggio, et nelle Terre convicine di Cassano, di Morano, di Castrovillari, della Saracina et di Altomonte scendere dalla più alta parte dell’aria una cosa a’ guisa di folgore con un bombo e tuono grande. Il fulmine nel cadere stette da mezzo quarto d’hora in circa, al giudicio di molti, et veniva cadendo facendo biscia nell’aria, in maniera tale che molti viandanti e genti, che si trovavano alla campagna hebbero grandissimo timore che havesse a’ cadere sopra di loro; nell’aria mentre cadeva a’ basso, dicono che rappresentava una nube oscura, che nella cima cacciasse fiamme di fuoco, e credo che il gran fumo, che portava seco rappresentasse la nubbe, et che la vehemenza del cadere, come in quel giorno era il cielo serenissimo facesse apparere le fiamme del fuoco; infine andò a cadere sopra Castrovillari nel piano di sopra, verso Morano, et proprio nella vigna di Gio. Alfonso Cataldo; diede nel cadere sopra una pietra viva et grossa quanto non l’havessero possuta levar da Terra duoi huomini, et la spezzò in mille pezzi, et da là poi venne a cadere sopra una miniera di pietra viva che in questo paese chiamano “chiatra”, et trovandosi pendente il fulmine trascorse da essa per trenta palmi in circa, finché trovò del terreno, et con tutto ch’avesse trovato i detti impedimenti pur calò sotto terre tre palmi in circa. Un contadino, che si trovò in la detta Vigna zappando, depone nella sua esamina, che dopo di esser stato per lungo spatio tramortito per paura, rihavutosi vide che nel luoco dove era caduto il fulmine n’usciva grandissimo fumo, che durò per spatio di due hore, et con tutto che li fusse venuta voglia vedere, che cosa fusse, non si assicurò avvicinarsi al luogo, finche passando duoi pastori, datosi animo l’un con l’altro, di compagnia andorno a vedere quel ch’era; non trovorno altramente pertugio o buco, dove era caduto, perché il gran calore manteneva di maniera il terreno sollevato, che pareva piano; andò il primo contadino toccando con un bastone nel luogo dove havea visto uscire il fumo, che già era cessato, et nel toccare quella poca Terra, che stava sollevata et sustentata dal calore, ch’era uscito dal fulmine, svaporandosi ne cascò, et apparse il metallo, dal quale usciva puzza come di Solfore, et era ancora di maniera caldo, ch’a pena si poteva sustentare in mano. La materia [la trascrizione di De Franco qui legge erroneamente «forma»] è del modo che Vostra Signoria Ill.ma ha visto, che per la prova fattane appare ferro di fortissima tempera; la forma sì ben alcuni la van raffigurando ad una testa di montone, Io per me non li saprei dare altra similitudine che di un cetro a corne, ma me ne rimetto al prudente giudicio di Vostra Signoria Ill.ma. Fu preso dal detto contadino e portato nella Terra di Castrovillari; del che havutone notizia il Governatore di detta Terra me ne fu dato subito particolare avviso per correro a posta; ordinai che se ne fusse pigliata diligente informatione, e idem mandatomi il metallo, et quello che l’haveva trovato, mi venne ogni cosa, et oltra dell’informatione di nuovo dal detto Contadino intesi distintamente quanto Vostra Signoria Ill.ma ha inteso. Il Tuono fu inteso sessanta miglia di lontano; il cadere del fulmine fu visto da una infinità di persone, che si trovorno in Campagna, e questo è quanto posso riferire a Vostra Signoria Ill.ma sopra questo fatto, non lasciando di dirle che con tutto che in apparen za il detto Metallo non mostri di pesare, mentre si reputerà per ferro, più di quindeci libre pesa non di meno libre trentatrè.
(conte de Haro[?])».
(B. Telesio, Varii de naturalibus rebus libelli, a cura di L. De Franco, Firenze, la Nuova Italia, 1981, pp. 185-186; cfr. C. Del Corno, pp. 502-503).

«All’Ill.mo et ecc.mo Signor mio et padrone oss.mo il Sig. Conte di Haro
Ill.mo et ecc.mo signor mio et padrone oss.mo,
Sono tanti i favori che Vostra Signoria Ill.ma per sua sola cortesia, et non per merito mio si degna farmi, sì come mi fanno intendere molti miei amici et servitori suoi, che io ho determinato d’essere tosto à Napoli, et di spendere tutti questi anni, che mi avanzano, in servigio suo, et di conferire con Lei le cose mie, et se saranno approbate dal suo alto giudicio, mandarle fuori, et se non Le aggradiranno, dar loro eterna sepultura. Et perché per alcuni dì non potrò essere à Napoli per alcuni miei travagli, Le mando in tanto un trattato, che io ho fatto del fulmine, che cadde li mesi passati in Calabria, il quale io ho composto aiutato et sollevato dalla bellissima lettera Sua, che Ella scrive al Signor Marchese di San Lucido sopra questo soggetto8. Resterà servita farmi intendere se è degno di vedersi, che io il mandarò fuori sotto l’honorato nome di Vostra Signoria Ill.ma, alla quale ancho dedicherò dell’altre opere mie9, se non Le saranno discare.
L’apportator della presente sarà il Mag.(nifi)co Pietro Francesco Parisio, dottor di legge et persona d’ottime qualità et mio carissimo et degno d’esser ricevuto nel numero di suoi servitori; trovasi a Napoli per trattare alcune sue cose con Sua Eccellenza; si degnerà Vostra Signoria Ill.ma prestargli il suo favore, che tutto quello, che farà in persona di questo gentil’huomo, il riceverò come fatto in persona mia propria.
Et con ogni debita reverenza Le bacio l’honorate mani, et priego Nostro Signore Dio per la sua felicità.
Di Cosenza à 25 di Decembre 1583
Di Vostra Signoria Ill.ma et ecc.ma
Servitore aff.mo et obligatiss.o
Ber.no Telesio»
(L. De Franco, Varii de naturali bus rebus libelli, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 187; cfr. C. Del Corno, cit., p. 506).

8 marzo 1583

Il «Señor de Haro» al Marchese di San Lucido:

«Al muy Ilustre Señor el Señor Marchese de San Lucido.
Muy Ilustre Señor,
Muy bien me parece que en la Academia no haya rato ocioso, y más quando se ofrecen casos tan raros como este de que V.S. me da cuenta, el qual me ha hecho revolver por la memoria algunas cosas casi semejantes que se me acuerda haver leido, y aunque V.S. y essos cavalleros doctos sé cierto que estarán muy al cabo de ellas, he querido escrivirselas para que, si en la causa de este effecto estoy engañado, me hagan merced de desengañarme, diciendome lo que se resuelve en la junta que hoy para esto hazen.
No es cosa nueva haver caido mucca veces del ayre hierro, pietra, ranas y otros animales, y entre otras escrive Plutarco en la vida de Lysandro de una piedra que cayó junto al Rio Agos, que aún en su tiempo dize que se vía y cree este autor que esto fuese prodigio de la victoria maritima que Lysandro huvo de los Athenienses. De esto mismo se acuerda Ammiano Marcellino libro 22 y Diogene Laercio libro 2 en la Vida de Anaxagora. Augustino Nipho affirma que en sus dias cayeron tres grandes pietra: una de ciento y sesenta, otra de sesenta y la ultima de veinte libras. Averrois libro 2 capitulo de tonitruis escrive que Avicennas vió caer en un dia sereno una piedra de color y olor sulphureo. Julio Scaliger, honra de los cavalleros philosophos de nuestros tempo, en el libro contra Cardano, exercitatio 323, se acuerda que llovió hierro en el Piamonte y de haver tenido un pedaço en la mano, donde se verá esto y lo de la lluvia de ranas, que no haze tanto a nuestro proposito por ser causada diferentemente que estas otras de que tratamos. Otros autore y casos pudiera traher a V.S., mas no quiero ser prolixo cansandole con lo que mucca veces havrá leydo.
La causa de esto entenderá facilmente quien huviere visto y pasado los libros de Aristotile, que en el libro 1 capitulo 7 de los Meteorologicos dize esto: “Quando quidem et cum lapis ille, qui apud Agos flumen ostenditur, ex aëre cecidit vento sublatus excidit interdiu, cometa quoque illis noctibus flagrante”. Plinio escrive de esta misma piedra en el libro 2 y cap. 60 de su Historia Natural. Por las calabra de Aristotile se entiende que aquella piedra no fue engendrada ni compuesta en el ayre, sino arrebatada de algun gran tortellino de viento, al qual voto me arrimo aora y siempre de muy buena gana, aunque haya algunos modernos que tienen por difficoltoso que una cosa tan grande como esta se pueda sustentar tanto tiempo en el aire, y así quiete que esto se cause de una exalacíon terrea y viscosa que, encerrada dentro de algunos vapores, se enciende y inflama de una pequeña inflamación por la antiperistasi de la frialdad que la rodea, según lo qual les parece que está en raçón que se puedan engendrar en el aire pietra como el granizo y las demas meteorologicas impressiones. Mas quando en las pietra que pueden ser compuestas de tierra y otras materias, que el ayre levanta facilmente, aya lugar esta opinión, será muy falsa en este pedaço de metal que viene de Calabria, que en ninguna manera puede engendrarse ni componerse en el aire, y ansí entiendo con el Philosopho que sin duda ninguna fue arrebatado, así como está, de alguna parte y despues cayó en esa donde a V.S. enscriven. A quien supplico perdone mi atrevimiento y me mande en que pueda serville.
Guarde Nuestro Señor la muy Ill.re persona de V.S. con el acrecentamiento que deseo.
De Palacio, 8 de Março 1583.
Servidor de V.S.
El Señor de Haro»
(C. Del Corno, cit., pp. 504-505).

9 marzo 1583

Il Marchese di S. Lucido al conte de Haro:

«Al Ill.mo Signor Conte de Haro.
Ill.mo signor mio et padrone oss.mo,
Io ho havuto molto piacere di haver veduto con gli occhi alcune delle cose che ho intese dalla voce viva di molti valent’huomini, et particolarmente d’Agostino Nifo che V.S. Ill.ma nomina nella sua lettera, il quale stava in casa di Andrea Carrafa, Conte di Santa Severina mio zio, et ancora che dopo ho letto in diversi authori in molt’anni. Ma quello che m’ha data maggior sodisfatione et contento è d’haver veduto che, per gratia di Dio, sotto la Maestà del Re nostro signore i prencipi et i grandi di Spagna sono aggiunti a sapere le scienze perfettamente, et meglio che al mio tempo sapeano coloro che faceano professione d’intenderle (per lo che mi ricordo che nelle Corti di Toledo nell’anno ’38 non erano persone della corte che intendessero delle scienze, se non l’Arcivescovo di Toledo, Silvio, che anzi che giungesse a tal degnità leggeva a Sua Maestà, et ancora Honorato Giovanni, che pur si tratteneva a leggere alla Maestà sua, et alcuni altri che attendevano solamente alla professione delle scienze, che pochi sono) et cavalieri haveno gusto d’intendere, non che di sapere. Sì che, essendomi rallegrato della venuta di Sua Ecc.a per infinite ragioni, sì come io ho scritto a lungo, hieri con ragione n’hebbi maggior contento non solo io, ma gran parte delli cavalieri et gentil huomini che hanno intelligenza delle belle lettere, leggendosi la lettera che V.S. Ill.ma fu servita mandarmi10. Nella quale non solamente si vedeva la certa et vera opinione che si tiene dai buoni auttori et dai principali letterati, che qui stati sono intorno a questo pezzo di metallo che è venuto in Calabria, ma la eloquenza grande et dottrina che Ella mostra in discorrere intorno a queste cose. Et diede meraviglia ad ognuno che un Signore di tanta qualità discorresse così altamente dei secreti della Philosophia, sì come l’istesso signor Giovan Antonio [Giovan Antonio Pisano, presidente dell’Accademia del Rinaldi] Le dirà a bocca. Et questi giorni non s’è atteso ad altro che ad aggiustare il fatto che nella Relatione si dice, et già s’è fatta la diligenza che Sua Ecc.a et V.S. Ill.ma hanno detto di mandare a vedere diligentemente se in quel paese, o quanto lontano, vi fusse minera di ferro, a tal che più si possa certificare l’opinione di V.S. Ill.ma.
Hieri s’era appontato di farsi prova di detto metallo col fuoco, ma perché mancavano alcuni instrumenti ch’erano necessarii non si potè esseguire, come a lungo il signor Giovanni Antonio Pisano dirà a V.S. Ill.ma, ché ritrovandomi io infermo l’ho pregato che in mio nome vemga a darle conto di quanto passa in fino al presente, che poi, fatta la prova, le darà conto di quanto passerà di mano in mano.
Et con tal fine bacio di V.S. Ill.ma le mani con supplicarla che mi tenga vivo nella memoria di Sua Eccellenza.
Di casa, a 9 di Marzo 1583
(Il Marchese di S. Lucido)».
(C. Del Corno, cit., pp. 505-506).

7 ottobre 1583

Lettera di Bernardino Telesio al cardinale Guglielmo Sirleto, con la quale si raccomanda il sig. Pietro Francesco Parisi presso il Vicerè di Napoli (F. Russo, Regesto Vaticano della Calabria, vol. v, p. 99, doc. 23562; una lettera analoga è inviata dal Quattromani al Sirleto, da Napoli, il 5 novembre 1583; cfr. S. Quattromani, Scritti, p. 42). La lettera, spedita dal Telesio da Cosenza, è stata pubblicata da N. Crostarosa Scipioni (Lettere inedite di Bernardino Telesio e Giano Pelusio nel carteggio del Cardinale Guglielmo Sirleto, 1937, pp. 115-116). La riproduciamo di seguito:

«Ill.mo et R.mo Signor patron mio col.mo
Sapendo io quanto prontamente Vostra Signoria Ill.ma favorisce tutti l’huomini et massimamente li nostri paesani et quali hanno in se virtù et conditioni per le quale meritano essere aiutati et sollevati et parendomi ch’l presente Signor Pietro Francesco di Parisi sia tale et per la dottrina, et per la bontà sua, non ho voluto mancare di raccomandarglielo, et di supplicar se degne favorirlo appresso l’Ill.mo Signor Vicerè di Napoli, che se degne servirse dell’opera sua con qualche officio notificando Vostra Signoria Ill.ma ma che se porterà per ogni verso in modo che Sua Eccellencia ne remarrà satisfattissima et Vostra Signoria Ill.ma harà, degnesi credermi fatto un’opera di carità, che solleverà un gentilhomo nato in una famiglia honorata come sa et quale ha gran bisogno d’essere aiutata. Io voglio essere certo che degnandose Vostra Signoria Ill.ma favorirlo con una sua appresso Sua Eccellencia, che senza dubbio sarà accomodato, ma quando questo li sia grave degnese almeno di farlo fare da chi li parrà opportuno né dirò sopra ciò altro che la somma benignità dell’…. se non vole esser largamente supplicata per beneficiare chiunque recorre a lei, et quanto più reverentemente posso bacio la mano di Vostra Signoria Ill.ma e pregho Nostro Signore Dio li conceda quella felicità che desidera. Di Cosenza, alli 7 ottobre dell’83.
Deditissimo servitore
Bernardino Telesio».

Il Sirleto risponde con una lettera datata 25 novembre, purtroppo andata perduta (il Ms. Vat. Lat. 6946, fol. 348 si limita ad annotare «una litera in risposta»).

1584-1585

Teodoro Angelucci pubblica nel 1584 un pamphlet dal titolo Quod metaphysica sint eadem quae physica (Venetiis, apud Franciscum Zilettum), nel quale attacca le tesi di Francesco Patrizi; quest’ultimo replica, nello stesso anno, con una Apologia calumnias Theodori Angelutii eiusque novae sententiae quod metaphysica eadem sint physica eversio (Ferrariae, apud Dominicum Mamarellum), cui l’Angelucci risponde, nel 1585, con uno scritto dal titolo Exercitationum Theodori Angelutii cum Francesco Patricio liber primus, in quo de Metaphysicorum authore, appellatione et dispositione disputatur, et quod Metaphysica sint eadem quae Physica iterum asseritur (Venetiis, apud Franciscum Zilettum); alle tesi di Angelucci risponderà, nel 1588, Francesco Muti, su sollecitazione del Patrizi, con uno scritto dal titolo Disceptationum libri V contra calumnias Theodori Angelutii (Ferrariae, apud Vincentium Galduram).

1585

Si pubblicano, per le cure di Scipione de’ Monti, le Rime et versi in lode della Ill.ma et Eccelentiss[ima] S[ignora] D[onna] Giovanna Castriota Carr[afa], Duchessa di Nocera, et Marchesa di Civita Santo Angelo, scritti in lingua toscana, latina, et spagnuola da diversi huomini illustri in varij, et diversi tempi et raccolti da Don Scipione de’ Monti (Vico Equense [Napoli], appresso Gioseppe Cacchi). Il volume contiene l’Ad Johannam Castriotam Carmen, unica prova poetica attribuibile al Telesio (pp. 189-191; la traduzione in volgare, di Giulio Cavalcanti, è alle pp. 180-182). L’opera, promossa dal de’ Monti, uomo d’arme e letterato, fratello di Giovan Battista de’ Monti marchese di Corigliano d’Otranto, fu preceduta da un lungo lavoro di raccolta, e fu portata a termine grazie alla collaborazione di Sertorio Quattromani, che si trovava anch’egli a Napoli, insieme al Telesio. La raccolta costituisce un’importante testimonianza dell’esistenza e dell’attività dell’Accademia Cosentina, e può essere annoverata tra i documenti ‘ufficiali’ sulla storia dell’Accademia durante il periodo telesiano.

Il Carmen contiene un brano eloquente sotto il profilo biografico: «Ni me divina incendes Sapientia forma / Totum in amore sui primi tenuisset ab annis, / Quam per inaccessos calles perque invia vulgo / Passibus haud timidis sectans, alia omnia liqui, / Tu mihi primus amor, tu maxima cura fuisses, / O Graiae et Latiae gentis decus, edita coelo / Progenies, veterum tot ducta ab origine regum» («Se, accendendomi della divina bellezza / Non mi avesse tutto assorto nell’amor suo fin dai primi anni la Sapienza, / che, lasciando ogni altra cosa, seguii per aspri sentieri e per luoghi inaccessibili al volgo / con piede non tremante, / tu non saresti stata per me il primo amore, tu il sommo pensiero, / o decoro delle genti Greche e Latine, celeste prole / a noi giunta per lunga progenie di antichi re»).

È interessante riportare quel che ricorda, del Telesio, Giovanni Giacomo de’ Rossi nella «Tavola degli autori» della suddetta raccolta: «Berardino Telesio da Cosenza, è assai chiaro, et perciò io non ne dirò nulla. Ha scritto contra tutta la philosophia di Aristotele, et ha egli investigato una nuova philosophia. Fa talhor versi et rappresenta più Lucretio che Virgilio. È  molto domestico della casa di Nocera, et tutti quei Signori, cominciando dalla Signora Duchessa madre, l’hanno in luoco di padre» (cfr. L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 55).

Una riedizione parziale delle Rime è stata realizzata da Pasquino Crupi, con la collaborazione di Serena Scordo (Rime in lode della Illustrissima et Eccellentissima Signora Donna Giovanna Castriota Carrafa Duchessa di Nocera e Marchesa di Crosia Santo Angelo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003).

1586

Pubblicazione del De rerum natura iuxta propria principia libri IX (Neapoli, apud Horatio Salvianum). È la terza e definitiva versione dell’opera. La dedica è a Ferrante Carafa, IV duca di Nocera.

Sempre allo stesso anno risalgono gli scritti Quae et quomodo febrius faciunt e De rigoris aestusque, quem rigorem excipit, causis. Data la presenza, al termine del secondo opuscolo, di una richiesta di revisione sottoscritta da Filocalo Faraldo, e dell’imprimatur del Vicario generale della diocesi di Napoli, con data 11 maggio 1586, gli scritti dovevano essere ormai pronti per la stampa. Rimasti inediti, ne dà notizia per la prima volta Sertorio Quattromani in una lettera spedita da Napoli a Giovanni Battista Vecchietti, datata 20 ottobre 1598: «Io non ho qui il libro Delle febri del Signor Telesio; ho procurato che mi venga da Cosenza, insieme con un bellissimo Discorso, che egli fa di quel folgore, che cadde in forma di ferro a Castrovillari gli anni a dietro» (S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, 1999, p. 157; il riferimento al secondo scritto telesiano è ovviamente all’inedito De fulmine). L. De Franco ci ricorda opportunamente che, oltre alla copia autografa conservata presso la Biblioteca di Napoli (Ms. VIII C 29), una copia apografa del primo dei due scritti è conservata presso l’Archivio Guicciardini di Firenze (Misc. IV 23), sotto il titolo di De causis febrium (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 355).

1587

Con questa data apposta sul frontespizio sono pervenuti alcuni esemplari del De rerum natura, in alcuni dei quali è inserito un Index locupletissimus, assente nelle copie recanti la data del 1586.

Sempre al 1587 risale uno scritto antitelesiano del filosofo e giurista napoletano Giacomo Antonio Marta (1559-1629), il Pugnaculum Aristotelis contra principia Bernardini Telesii. In diversi passaggi dell’opera, il Marta ricorda come, negli anni precedenti, la comparsa della nuova dottrina telesiana avesse suscitato a Napoli numerose polemiche e discussioni. Il Marta ne ricorda in particolare tre: la prima si sarebbe tenuta nel monastero di Monte Oliveto tra Pietro Paolo Scassino, seguace di Telesio, e il monaco Francesco de Ferdinando, con il domenicano Tommaso di Capua come moderatore; in una seconda, un altro discepolo del Telesio, Latino Tancredi Camerotano, amico di Sertorio Quattromani, difese alcune tesi «pro Telesio» in presenza di don Luigi Carafa, principe di Stigliano; la terza si sarebbe tenuta nella chiesa di Sant’Andrea in Napoli, e si sarebbe svolta tra il Tancredi e gli aristotelici Gerolamo Hurtado (c.1550-c.1598) e Giambattista Crispo (Iacobi Antonii Martae Philosophi Neapolitani ac Utriusque Iuris Professoris, Pugnaculum Aristotelis contra principia Bernardini Telesii, Romae, typis Bartolomaei Bonfadini, 1587, pp. 45, 51-52, 125-126). Circa un decennio prima, il Marta era intervenuto nella polemica sull’immortalità dell’anima agitata dagli «alessandristi», il cui maggiore esponente era stato, a Napoli, Simone Porzio: contro le tesi di quest’ultimo, egli scrisse una Apologia de immortalitate animae adversus opusculum Simonis Portii de mente humana, che fu inserita nella raccolta degli Opuscula del Porzio (Neapoli, O. Salviani).

23 luglio 1587

Bernardino Telesio, tornato a Cosenza per un probabile peggioramento delle sue condizioni di salute, redige il suo testamento presso il notaio A. De Paola. Tra gli atti (in cui Telesio cede i suoi restanti beni alla figlia Anna, andata in sposa tra il 1578 e il 1579 con Gerolamo Scaglione), c’è anche la donazione al figliastro Pompeo de Matera «per molti grati et accetti servicii» di diverse copie del suo De rerum natura, che si trovavano conservate a Napoli presso il «Sig. Marino de Alessandro» (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del sec. XVI, p. 98, docc. 431, 432, 433; L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, pp. 55 e 61).

1588

Francesco Muti (c.1550-c.1628) pubblica a Ferrara uno scritto dal titolo Disceptationum libri V contra calumnias Theodori Angelutii in maximum philosophum Franciscum Patritium, in quibus pene universa Aristotelis philosophia in examen adducitur (Ferrariae, apud Vincentium Galduram, 1588). L’opera è un chiaro omaggio alla filosofia di Telesio e ricorda di una polemica avvenuta, nel 1584, a Ferrara, tra Francesco Patrizi e Teodoro Angelucci, in presenza dello stesso Muti, documentata da due scritti dell’Angelucci (1584 e 1585), e da una replica del Patrizi del 1584 (v. supra).

autunno 1588

Da un carteggio tra Teodoro Angelucci e Antonio Persio si desume che essi si incontrarono accidentalmente a Padova, nell’autunno del 1588, presso il libraio Paolo Meietti. Il Persio apprese la posizione dell’Angelucci in merito alle argomentazioni espresse da Francesco Muti nel volumetto edito, nello stesso anno, contro Angelucci. Dallo stesso carteggio emerge che Angelucci non si aspettava che il Persio, su specifici argomenti, avesse una concezione diversa da quella di Patrizi (Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. Linceo 1, foll. 131r-138r [Angelucci a Persio], foll. 139r-v [Persio ad Angelucci], ora in M. Mulsow, Das Ende des Hermetismus. Historische Kritik und neue Naturphilosophie in der Spätrenaissance, Tübingen, 2002, pp. 353-366 e 369-370). Secondo M. Mulsow (Ambiguities of the Prisca Sapientia in Late Renaissance Humanism, «Journal of the History of Ideas», 65, 2004, 1, pp. 1-13, qui pp. 3-4), il carteggio costituì un punto di discussione nei dibattiti che si svolsero nei circoli scientifici animati dal Persio, dal Pinelli e da altri, ed è possibile che, nell’incontro su citato, il Persio abbia discusso con l’Angelucci dell’inedito De natura ignis et caloris (Biblioteca Corsiniana, Roma, Ms. Linceo vii e viii, Boncomp. 270 e 271). Sull’argomento, cfr. F. Purnell jr., A Contribution to Renaissance Anti-Hermeticism: The Angelucci-Persio Exchange, in Das Ende des Hermetismus. Historische Kritik und neue Naturphilosophie in der Spätrenaissance, 2002, pp. 127-160; M. Mulsow, Reaktionärer Hermetismus vor 1600? Zum Kontext der venezianischen Debatte über die Datierung von Hermes Trismegistos, ivi, pp. 161-185.

Al 1588 risale anche la pubblicazione, da parte del teologo e giureconsulto napoletano Giulio Cortese (c.1530-1598), membro dell’«Accademia degli Svegliati», di una silloge di Rime (Napoli, appresso Gioseppe Cacchi), contenenti un sonetto In morte di Telesio. Giulio Cortese visse in questo periodo sotto il patronage di Ferrante Carafa, IV duca di Nocera, cui dedica nel 1591 lo scritto Delle figure, che sarà edito con altri scritti nella ristampa del 1591 delle Rime (Napoli, Gioseppe Cacchi). Presso lo stesso stampatore, il Cortese ripubblica nel 1592 una nuova serie di rime, comprese nella raccolta dal titolo Rime et prose.

Nello stesso anno, esce una ristampa del De rerum natura iuxta propria principia libri IX, all’interno di una silloge pubblicata a Ginevra per i tipi di Eustazio Vignon, dal titolo Tractationum philosophicarum tomus unus, contenente la riedizione del Quaestionum peripateticarum libri quinque di Andrea Cesalpino, e la riedizione postuma della Universalium institutionum ad hominum perfectionem quatenus industria parari potest di Filippo Mocenigo (1524-1586).

Sempre al 1588 risale, secondo F.W. Lupi (Introduzione a S. Quattromani, Scritti, 1999, p. xxxiv), la redazione dell’Istoria della Città di Cosenza di Sertorio Quattromani (ms di 77 carte, conservato presso la Biblioteca Civica di Cosenza, sotto la segnatura 20187). Parte del manoscritto (foll. 69r-76v) è stato pubblicato dal Lupi, nell’edizione citata, sotto il titolo Di Giano Parrasio e di altri autori cosentini del XVI secolo (S. Quattromani, Scritti, pp. 257-269).

ottobre 1588

Nel mese di ottobre, muore a Cosenza Bernardino Telesio. Il filosofo viene commemorato con funerali solenni nella chiesa di S. Domenico, dove, per un certo tempo, verranno conservate le sue spoglie mortali. Tommaso Campanella (1568-1639), appena giunto a Cosenza dopo aver trascorso un periodo di studi presso il convento domenicano di Nicastro, partecipa al rito funebre, lasciando sul feretro alcuni versi. In seguito, sempre in ricordo del Telesio, lo Stilese lascerà il memorabile componimento Al Telesio Cosentino, nel quale rammenterà anche gli accademici cosentini che ebbe occasione di conoscere durante la sua breve permanenza nella loro città: «Telesio, il telo della faretra / uccide de’ sofisti in mezzo al campo / degli ingegni il tiranno senza scampo; / libertà dolce alla verità, impetra. / Cantan le tue glorie con nobil cetra / il Bombino e ’l Montan nel brettio campo: / e ’l Cavalcante tuo, possente lampo, / le rocche del nemico ancora spetra. / Il buon Gaieta la gran donna adorna / con diafane vesti risplendenti, / onde a bellezza natural ritorna; della mia squilla per li nuovi accenti, / nel tempio universal ella soggiorna: / profetizza il principio e ’l fin degli enti» (T. Campanella, Scritti letterari, p. 278).

Note

1: In un’opera anteriore agli Elogia, cioè Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi, le quali à Como nel Museo del Giovio si veggiono. Tradotte di Latino in volgare da Ippolito Orio Ferrarese (In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1552) il Giovio si sofferma più estesamente sul ritratto di Antonio Telesio, riportando però sostanzialmente immutato l’episodio del sacco e della fuga: «Ei si fuggì poi di Roma al tempo del sacco» (p. 213).

2: Per quanto concerne il presunto soggiorno napoletano, Vasoli aggiunge che, negli anni in cui Telesio dimorò a Napoli, può essere entrato in contatto con Simone Porzio (1496-1554, professore di filosofia nello Studium napoletano fino al 1536), autore di diversi trattati di filosofia naturale (De coloribus, 1548; De dolore, 1550; De humana mente disputatio, 1551; De rerum naturalium principiis, 1553). (C. Vasoli, Introduzione a B. Telesio, De rerum natura libri IX, 1971, p. xi). Più recentemente, alcuni studiosi, come Martin Mulsow e Michaela Boenke, hanno sposato l’ipotesi che nel corso degli anni Cinquanta Telesio possa avere assimilato le ricerche di medicina e di filosofia naturale compiute da Giovanni Argenterio (1513-1572), che insegnò nello Studium napoletano dal 1555 al 1560, e, tra il 1548 e il 1560, pubblicò la maggior parte dei suoi scritti, che non solo risentivano di una lettura rinnovata del corpus ippocratico e galenico, ma si facevano anche veicolo delle idee di Jean Fernel (1497-1558), in particolare del De abditis rerum causis (1548). Sull’intera questione, cfr. M. Mulsow, Frühneuzeitliche Selbsterhaltung. Telesio und die Naturphilosophie der Renaissance, 1998; M. Boenke, Bernardino Telesio, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2009; e H. Hirai, Il calore cosmico di Telesio fra il De generatione animalium di Aristotele e il De carnibus di Ippocrate, in Bernardino Telesio tra filosofia naturale e scienza moderna, 2012, pp. 71-83; per un profilo biografico dell’Argenterio, cfr. F. Mondella, Argenterio, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4, 1962. Su Simone Porzio, cfr. la voce di E. Del Soldato pubblicata su «Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012)».

3: Ma cfr. Rafael Mandressi, Preuve, expérience et témoignage dans les «sciences du corps», «Communications», 84, 2009, pp. 103-118, spec. 113 e 117, nn. 34-5. Su Realdo Colombo e Andrea Cesalpino cfr. C. Colombero, Colombo, Realdo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982; e A. De Ferrari, Cesalpino (Caesalpinus), Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 24, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1980.

4: Nel passo citato viene nominato Rinaldo Corso (1525-c.1581), esperto di diritto e di letteratura, autore di un commento alle Rime di Vittoria Colonna, nel 1579 fatto arcivescovo di Strongoli. Cfr. G. Romei, Corso, Rinaldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 29, 1983. Nella menzione si fa riferimento di una lettera inviata da Bernardino Telesio al Quattromani e di un’altra spedita al «Bianchetto» (probabilmente Ludovico Bianchetti, maestro di camera di Gregorio XIII, fratello maggiore di Lorenzo Bianchetti, 1545-1612), databili rispettivamente all’8 e all’11 settembre 1563, purtroppo andate perdute. Bernardo Cappello (1498-1565), nobile veneziano, amico di Pietro Bembo, protetto del cardinal Farnese e dello zio Alessandro, autore di una raccolta di Rime apprezzate da Annibal Caro e da Giovanni della Casa. Cfr. F. Fasulo e C. Mutini, Cappello, Bernardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 18, 1975. Francesco Benci (1542-1594), gesuita, studioso di Cicerone, professore di retorica presso il Collegio Romano. Cfr. R. Negri, Benci (Bencio, Benzi, Bencius), Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 8, 1966. Su Annibal Caro (1507-1566), cfr. C. Mutini, Caro, Annibale, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 20, 1977.

5: Il priore di Barletta citato sarebbe, come riferisce Noemi Crostarosa Scipioni (Lettere inedite di Bernardino Telesio e Giano Pelusio nel carteggio del Cardinale Guglielmo Sirleto, vii, 1937, p. 113, nota 5), Vincenzo Gonzaga, «creato cardinale nel 1578 e morto nel 1591». Pompeo Belo († 1584), vicario di Tommaso Telesio, pronotario apostolico e vescovo di Bisignano dal 1577 al 1584, fu colui che informò il Sirleto della morte di Tommaso Telesio, il 23 gennaio 1569, chiedendo di essere confermato vicario del successore (ivi, p. 113, nota 3).

6: Giovan Battista Di Benedetti fu eletto vicario dell’arcivescovo Orsini. Del Di Benedetti si conserva una lettera spedita all’Orsini il 2 luglio 1569 (Fondo Orsini, serie i, corrispondenza, fasc. 194, vol. i, lettera 39). F. Russo (Storia dell’arcidiocesi di Cosenza, Napoli, 1958, p. 477) afferma che Orsini «non mise piede in Cosenza, ma governò per mezzo di Vicari». Ciò conferma che la lettera sia stata inviata all’Orsini a Roma. Eustachio Locatelli (c. 1518-1573/75), teologo domenicano, confessore di Pio V, dal 20 aprile 1569 fatto vescovo di Reggio Emilia, revisore del De Natura (1565); fratello di Giovanni Antonio Locatelli (†1571), vescovo di Venosa dal 13 dicembre 1567. Il Tommaso de Vio menzionato nella lettera, spentosi a Napoli nel convento di S. Domenico Maggiore l’8 gennaio 1572, è verosimilmente un discendente di Tommaso de Vio (Cajetanus), generale dell’ordine dei domenicani. Il Cajetanus (nato nel 1469) muore nel 1534; ma è possibile che si tratti di una strategia retorica, supponendo che, attraverso un suo «herede», dello stesso ordine religioso, Telesio voglia rammentare all’Orsini gli ottimi rapporti intrattenuti col Caietano, quand’egli era ancora vivente. Cfr. E. Stöve, De Vio, Tommaso (Cajetanus), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 39, 1991. Tolomeo Gallio (c. 1526-1607), nato a Cernobbio presso Como, copista di Paolo Giovio dal 1544 al 1549 (quando il Giovio si trovava ancora a Roma), segretario di Antonio Trivulzio fino al 1559, e creato cardinale nel 1557 da Paolo IV. Cfr. G. Brunelli, Gallio (Galli), Tolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, 1998. Si tratta di Gaspar Hernández, rettore del Collegio dei Gesuiti a Napoli dall’ottobre del 1564 al febbraio 1571. Insieme a Baldassarre Crispo, si adoperò per la revisione finale del De rerum natura del 1570. Il «Vernaleone» sopra evocato è lo studioso pugliese Giovan Paolo Vernalione, il quale, ci ricorda De Franco, fu «incaricato per la revisione civile» del De rerum natura (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 70).

7: Diversamente da C. Del Corno, p. 476, L. De Franco, nella sua Premessa a B. Telesio, Varii de naturalibus rebus libelli cit., pp. XI-XII, attribuisce la lettera al conte de Haro piuttosto che a Bernardino Telesio, sulla base dei contenuti della lettera di Telesio al conte de Haro del 25 dicembre 1583, in cui si farebbe riferimento al resoconto in forma di lettera sopra menzionato («aiutato et sollevato dalla bellissima lettera Sua, che Ella scrive al Signor Marchese di San Lucido sopra questo soggetto»). Stando alla tesi di De Franco, il conte de Haro avrebbe inviato due missive a Ferrante Carafa marchese di S. Lucido, e la lettera a cui fa riferimento Telesio nella sua al conte de Haro del 25 dicembre 1583 non sarebbe quella dell’8 marzo 1583. Il ms X.A.16 della Biblioteca Nazionale di Napoli, ff. 60v-62v, contiene due lettere, l’una del conte de Haro a Ferrante Carafa, datata  8 marzo 1583 (C. Del Corno, pp. 504-505), l’altra, di Ferrante Carafa al de Haro, datata 9 marzo 1583 (ivi, pp. 505-506). Nei ff. 59r-60r del ms X.A.16 è contenuta invece la lettera di de Haro a Ferrante Carafa, attribuita da Del Corno a Bernardino Telesio. Copia della stessa lettera si trova nel f. 110 del ms VIII.C.29 della stessa Biblioteca.

8: Mentre Luigi De Franco intende che in questo passo si faccia indubbio riferimento alla lettera senza data sopra citata, consistente nel dettagliato resoconto della caduta e del rinvenimento dell’aerolite, Carlo Del Corno (cit., p. 506 n. 51) ritiene che qui si faccia «forse» riferimento alla lettera, scritta in spagnolo, del «Señor de Haro» al Marchese di San Lucido dell’8 marzo 1583 (ivi, pp. 504-505). Come si è detto, la risposta di Ferrante Carafa reca la data del 9 marzo 1583 (ivi, pp. 505-506). Per l’intelligenza del lettore, preferiamo citare entrambe le epistole di seguito (v. infra).

9: È un probabile riferimento al manoscritto De causis febrium, conservato nello stesso fondo (Archivio Guicciardini, Firenze, Misc. IV 23) in cui è conservata copia del De fulmine (Misc. IV 22).

10: Nota bene: il marchese di S. Lucido fa riferimento ad una sola lettera inviatagli dal conte de Haro.

 

Appendice

1588-1589

Dopo la morte di Bernardino Telesio, la guida dell’Accademia Cosentina passa a Sertorio Quattromani (1541-1603), il quale pubblica, nel 1589, a testimonianza della continuità scientifico-culturale dell’istituzione cosentina rispetto alla sua impronta telesiana, un libretto dal titolo La filosofia di Berardino Telesio ristretta il brevità e scritta in lingua toscana (Napoli, Gioseppe Cacchi). L’opera contiene una dedica a Ferrante Carafa, datata 15 ottobre 1588. Negli anni seguenti, il Quattromani e il Carafa continueranno ad essere legati da rapporti di amicizia e di patronage.

Lo scritto del Quattromani, dopo la nota edizione a cura di Erminio Troilo (La filosofia di Berardino Telesio di Montano Academico Cosentino, Bari, Società Tipografica Editrice Barese, 1914), è stato riedito da Pasquino Crupi (La filosofia di Bernardino Telesio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003).

1589

Francesco Muti pubblica a Ferrara un volume dal titolo Theses de pulchritudine (Ferrariae, excudebat V. Baldinus). Nel frontespizio dell’opera il Muti si definisce «Tergeminorum Academiae Lectoris Ordinarii». Al riguardo, F.W. Lupi ricorda che «l’Accademia dei Tergemini era stata aperta nel 1567 in casa di Ercole Varani, con l’intento di trattare argomenti naturalistici» (F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, p. 65 n. 92). Nell’opera sono ripresi temi riconducibili sia agli scritti di Telesio che a quelli di Persio.

1589-1590

Al biennio 1589-1590 risalgono quattro lettere di Sertorio Quattromani, di cui tre inviate a Giovanni Maria Bernaudo e una a Giovan Paolo d’Aquino (datate rispettivamente 25 gennaio e 8 marzo 1589, 14 febbraio 1590, e 13 marzo 1589). Si tratta di un carteggio molto importante, perché in esso compaiono i nomi di molti degli accademici e dei mecenati cosentini che avevano frequentato il Telesio e ne avevano letto le opere: Ferrante Carafa 4° duca di Nocera, Giovanna Castriota Carafa, Giovan Battista Ardoino, Vincenzo Bombini, Marcello Ferrao, Cosimo Morelli, Giovan Paolo d’Aquino, Iacopo di Gaeta, Francesco Maria Dattilo, Maurizio Baracco, Giulio Cavalcanti, Peleo Firrao. Le lettere confermano la continuità delle attività dell’Accademia Cosentina, i cui membri non si limitano alla formazione scientifico-umanistica dei giovani figli dell’aristocrazia cosentina, ma si concentrano soprattutto sulla produzione e la pubblicazione di nuove opere (S. Quattromani, Scritti, pp. 59-61, 63-65, 94-96, e p. 66). Diamo qui di seguito alcuni estratti delle lettere summenzionate.

1) «io mi trovo a Nocera insieme col Signor Duca [Ferrante Carafa], et mi starò qui insino al secondo dì di Quaresima, et poi me ne passerò in Napoli […]. Il Signor Duca […] ogni dì mi dimanda di Lei, et dei suoi studij, et della sua vita […]. Mi ha detto ancho, se scriverà in lode del nuovo parto, che nascerà della Signora Duchessa, et l’ho assecurato, che scriverà ella et molti altri della nostra Accademia; et egli se ne è grandemente rallegrato» (lettera del 25 gennaio 1589, pp. 59-60).

2) «Vorrei, che insieme con lui [Ardoino], et col Signor Vincenzo, et con gli altri Signori Academici rivedessero i sonetti, che io ho riassettati, et che facessero notomia de i miei concieri, et che non si acquetassero in quelli, ma che tentassero di accrescergli» (lettera dell’8 marzo 1589, p. 64. La lettera apparve nell’edizione delle Rime di G.B. Bernaudo, Napoli, G.G. Carlino, 1611, pp. 7-11).

3) «Il nome, che Vostra Signoria ha posto a i nostri Academici è così proprio, et così honorato, che non potrebbe desiderarsi migliore. Pure quando piacesse a lei, et a gli altri, parrebbe a me, che i nostri Academici non havessero a chiamarsi altramente che “Academici Cosentini”. Perché questo nome così semplice, et così puro ha più del grande, che tutti gli altri nomi ricercati, et investigati con ogni studio, et con ogni industria, et mostrerebbeci più modesti, et meno ambitiosi» (lettera del 13 marzo 1589, p. 66).

4) «del Thelesio […] il Signor Duca nostro ha tutti i suoi trattati […]. Il Signor Mario Galeoto hebbe tutti i suoi scritti […]. Il Signor Latino Tancredi ha quanti componimenti gli sono usciti di mano […]. Il Signor Vincenzo Bombino ha veduto tutti i repostigli del Thelesio, et non può dire di havere veduto iota di questo volume. Il Signor Giulio Cavalcanti era ogni dì col Thelesio, et ha cerco, et ricorco più volte le nascosaglie delle sue scritture, et non ha veduto ombra, o segno di questo libro […]. Il Signor Peleo Ferrai è stato al parto di tutto questo trattato, et l’ha veduto mutato in molte forme, et ne ha ragionato più volte con l’istesso Thelesio» (lettera del 14 febbraio 1590, p. 95. Il Quattromani si riferisce al sospetto, circolato nell’ambiente cosentino, che il libretto La filosofia di Berardino Telesio ristretta il brevità e scritta in lingua toscana fosse stato «tradotto dal latino del Thelesio», e non scritto di suo pugno).

Nell’avvertimento ‘Ai Lettori’ della stessa opera, il Quattromani preciserà: «parve poi ad alcuni suoi amici assai intendenti di ciò e sopra ogni altro Latino Tancredi, uomo di molte lettere e di molto giudicio e gran difensore della dottrina del Telesio, che così fatto libretto non fusse da tenersi sepolto» (ed. a cura di E. Troilo, 1914, ‘Ai Lettori’, pp. 81-82).

aprile 1590

Antonio Persio pubblica a Venezia la raccolta degli opuscoli telesiani, dal titolo Varii de naturalibus rebus libelli (Venetiis, apud Felicem Valgrisium, 1590). Nell’avvertenza ‘Candido Lectori’, il Persio dichiara d’aver ricevuto da Francesco Muti quattro degli opuscoli pubblicati (De mari, De iis quae in aere fiunt, De saporibus, De somno): «curavit eos mihi Franciscus Mutus praestanti vir doctrina, ac Telesianae philosophiae cognitione haud levi praeditus» (p. [2]). Gli opuscoli sono dedicati a diverse figure chiave degli ambienti culturali frequentati allora dal Persio: Giovanni Giacomo Toniolo, Aloisio Cornelio, Francesco Patrizi, Gian Vincenzo Pinelli, Benedetto Giorgi, Giovanni Michiel (Micheli), Federico Pendasio, Gerolamo Mercuriale.

Allo stesso anno risale la pubblicazione, da parte di Giovanni Battista Ardoino (uno degli «Academici Cosentini» citati, l’anno seguente, nell’opera pubblicata da Iacopo di Gaeta), di una raccolta di Rime in morte della Signora Isabella Quattromani (Napoli, Giuseppe Cacchi), moglie dell’Ardoino, sorella di Sertorio Quattromani.

1591

Nel 1591 è pubblicata da un discepolo di Telesio, Iacopo di Gaeta (fl. 1570-1600), un’opera dal titolo Ragionamento chiamato l’Academico o vero della Bellezza (Napoli, Gioseppe Cacchi, 1591), rivolta «a gli Academici di Cosenza», che ci permette di conoscere che l’Accademia Cosentina aveva un «Principe», il quale dirigeva le riunioni e assegnava i temi da trattare (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 30). L’opera è dedicata a Geronimo Acquaviva, duca d’Atri, e la lettera dedicatoria reca la data del 29 agosto 1591. In essa il Gaeta fa espresso riferimento al «nostro non mai a bastanza lodato maestro, e padre della Cosentina Academia, Berardino Telesio» (p. 5), a cui l’opera era già nota prima della sua pubblicazione. Sull’opera, riscoperta e riedita nel 1996 da Anna Cerbo (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane), si sofferma anche F.W. Lupi, Alle origini dell’Accademia Cosentina, 2011, pp. 85-93.

Sempre al 1591 risale la prima opera giovanile di Tommaso Campanella, la Philosophia Sensibus Demonstrata (Neapoli, apud Horatium Salvianum). Nell’opera si ricordano diversi particolari interessanti relativi alla morte di Telesio avvenuta nell’ottobre del 1588, nonché alla temperie culturale cosentina nel tempo in cui Campanella ebbe l’occasione di entrarvi in contatto. L’opera fu composta tra l’inverno del 1588 e la primavera del 1589 nel convento domenicano di S. Maria dell’Annunziata di Altomonte, da cui lo Stilese in seguito fuggì per recarsi a Napoli e attendere, nel 1591, alla pubblicazione dell’opera. La fuga da Altomonte costò a Campanella una sentenza di condanna da parte dell’ordine, che gli fu inflitta il 28 febbraio 1592, nella quale si ingiungeva allo Stilese di fare subito ritorno nella sua provincia, e di riprovare la dottrina telesiana, per attenersi a quella di S. Tommaso («ut disputando, praedicando et legendo teneat doctrinam Sancti Thomae et reprobat doctrinas Telesii»). La sentenza di condanna si trova, citata per esteso, in V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Messina, 1921, pp. 572-574. Di un certo rilievo è che la Philosophia Sensibus Demonstrata contenga, oltre che uno sviluppo originale delle tesi telesiane, anche una decisiva difesa della filosofia telesiana, in antitesi al Pugnaculum Aristotelis (1587) di Giacomo Antonio Marta.

Sulle circostanze relative al soggiorno di Tommaso Campanella a Cosenza, Luigi Amabile racconta che lo Stilese udì nominare Bernardino Telesio in occasione delle dispute e discussione che ebbe in particolare con i padri domenicani del convento di Nicastro, i quali per via di alcune sue opinioni ardite nei confronti dei filosofi antichi osarono paragonarlo al filosofo cosentino, cosa che accrebbe la curiosità, da parte di Campanella, per la filosofia telesiana. L’Amabile ci ha restituito una dettagliata ricostruzione del passaggio di Campanella da Nicastro a Cosenza, e da Cosenza ad Alotomonte, riportando e parafrasando lunghi passi della Philosophia sensibus demonstrata (1591), che vale la pena di citare per esteso, insieme alle note dell’Amabile:

«Né pare dubbio che veramente in Nicastro il Campanella siasi ingolfato nella lettura de’ maggiori filosofi dell’antichità, e che abbia quivi per la prima volta, nel calore de’ diverbii, udito nominare Bernardino Telesio, onde s’invogliò a leggerne le opere, che potè avere solamente quando si recò in Cosenza. Ecco come egli ci narra tali cose con maggiore larghezza nella prefazione del suo volume scritto poco dopo, vale a dire la Philosophia sensibus demonstrata. “Coloro a’ quali comunicava queste mie opinioni le riferivano ad altri maggiori, e però soffriva non poche riprensioni, come colui che solo era contrario alle sentenze de’ grandi filosofi (secondochè dicevano), non davano ascolto alle mie ragioni, ma stretti da esse prorompevano in parole niente pacifiche verso di me […]. Dopo ciò la verità si fece più ardente e poteva meno tenersi ulteriormente dentro, dicendosi che aveva un intelletto depravato e reprobo come l’aveva un certo Bernardino Telesio, onde avversava tutti i filosofi e precisamente Aristotile: fui lieto oltremodo di avere un compagno o duce, da potergli apporre i miei detti e riferirli […]. Partito per Cosenza, la preclarissima città de’ Brettii nella Calabria inferiore, denominata un tempo Brettia, chiesi il libro di Telesio ad un certo illustre ed ottimo uomo suo seguace, il quale volentieri me lo recò. Cominciai a percorrerlo con sommo studio, e letto il primo capitolo, compresi ad un tempo interamente ogni cosa che si conteneva negli altri, prima che li leggessi. Era per fermo disposto verso que’ principii, ed intesi egualmente tutto ciò che da essi procedeva […]. E poiché mentre ivi dimorava, il sommo Telesio venne a morte, e non mi fu dato udire da lui le sue sentenze, né vederlo vivo ma morto e portato in Chiesa, il cui volto scovrendo io ebbi ad ammirare e moltissimi versi affissi per lui al suo tumolo, recandomi ad Altomonte per ordine de’ Superiori, stimai bene esaminare là l’opera di questo filosofo”».
(L. Amabile, Fra Tommaso Campanella: la sua Congiura, i suoi processi, la sua pazzia, 3 voll., Napoli, Morano, 1882, vol. i, pp. 11-12).

E continua l’Amabile:

«Adunque, dopo Nicastro, il Campanella andò in Cosenza. L’epoca di questa andata non ci è ben nota; ma assai probabilmente dovè accadere verso l’agosto del 1588 […]. Uno de’ primi biografi di Campanella, l’Eritreo [Jani Nicii Erytraei, Pinacotheca imaginum, Coloniae, 1641, t. i, p. 41], ci lasciò scritto che l’occasione dell’andata a Cosenza fu una disputa filosofica colà bandita da’ Francescani, che il Campanella vi fu mandato e vi riportò un gran trionfo. La cosa non sarebbe punto strana, ad una prova se ne avrebbe in quella frase del Syntagma, “perché nel discutere pubblicamente in Cosenza non che privatamente co’ miei frati”. Ma il fatto importante di tale andata fu l’aversi procurato il libro del Telesio, che cominciò a leggere senza finirlo, e l’aver voluto vedere il Telesio senza poterlo vedere che morto. […]
Il Campanella ebbe a compagno di stanza in quella città il suo carissimo amico fra Pietro Presterà di Stilo, e costui nel processo affermò di averlo visto in Cosenza “per due mesi”; così, tenendo presente che il Telesio morì nell’ottobre, siamo indotti a ritenere l’agosto 1588 come data probabile dell’andata del Campanella a Cosenza.
Ed ora i particolari della dimora in Altomonte, cioè dal novembre 1588 in poi. Vediamoli dalle stesse parole del Campanella, com’egli ce li lasciò scritti dapprima molto diffusamente nella prefazione alla sua Philosophia sensibus demonstrata […]. “Recandomi ad Altomonte per ordine de’ Superiori, stimai bene esaminare là l’opera di questo filosofo (Telesio) prima di pubblicare l’opericciuola sul modo d’investigare e le cose da me trovate. In tal guisa, avendo potuto occuparmene, conobbi non essere stato Bernardino Telesio depravato, bensì depravati affatto tutti gli altri, e giudicai che quest’uomo dovesse anteporsi a tutticome colui che desume la verità dalle cose desunte col senso, non dalle chimere, e che tratta le cose stesse, non le parole desunte dagli uomini, secondochè mi fu manifesto. Accadde finalmente che venisse a me un certo eccellente dottore di medicina, illustre filosofo, il quale fuggiva gli errori de’ Peripatetici, Gio. Francesco Branca di Castrovillari, accompagnato dall’altro medico a nome Plinio Rogliano della città di Rogiano, stimato più di molti altri per la sottogliezza dell’ingegno, e discorressimo insieme de’ principii della filosofia e della verità delle cose; questi […] di continuo venivano a discorrere insieme, e si penetrarono tanto della verità di Bernardino Telesio, da predicarlo il solo degno di lode tra’ filosofi, e mi sollecitarono a dar fuori ciò che mi era proposto. Costoro mi furono larghi di molti beneficii, e mi portarono i libri de’ Platonici e de’ Peripatetici, di Galeno, d’Ippocrate e d’altri, acciò la difesa di Telesio da noi ideata fosse confermata da’ detti de’ più antichi”».
(L. Amabile, Fra Tommaso Campanella: la sua Congiura, i suoi processi, la sua pazzia, 3 voll., Napoli, Morano, 1882, vol. i, pp. 13-14).

1593

Andrea Chiocco pubblica un trattato di medicina e di filosofia naturale dal titolo Quaestionum philosophicarum et medicarum libri tres (Veronae, apud Hieronymum Discipulum). L’opera contiene uno scritto polemico contro Antonio Persio e la filosofia telesiana. La XII delle Quaestiones, intitolata De facultate irascibili et pulsifica pro Galeni sententia, è indirizzata, con tono volutamente ironico, «Ad Telesianum quendam virum doctissimus». A questo scritto il Persio replica scrivendo una breve Admonitio ad A. Chioccum medicum Physicum Veronensem pro quadam sua defensione pro Galeni sententia de facultate irascibili et pulsifica, rimasta però inedita (ora in B. Telesio, Varii de naturalibus rebus libelli, a cura di L. De Franco, Firenze, La Nuova Italia, 1981).

Ad un periodo compreso tra il 1593 e il 1594 risale anche una difesa delle tesi telesiane da parte di Campanella, purtroppo andata perduta, e divenuta celebre con il titolo di Apologia pro Telesii. Il titolo dello scritto campanelliano era Apologeticum de venarum, nervorum et arteriarum origine et de pulsatione, come ricorda lo Stilese nel De libris propriis et recta ratione studenti syntagma pubblicato per la prima volta nel 1642 da Gabriel Naudé: «scripsi […] Apologeticum de venarum, nervorum et arteriarum origine et de pulsatione pro Telesii commentario Quod animal universum et caetera, contra Andream Chiocum, medicum Veronensem, qui adversus Telesium scripserat; misique hoc opusculum ad Antonium Persium Telesianum, apud Laelium Ursinum Romae commorantem» (T. Campanella, Dei miei libri e sul corretto metodo di apprendere / De libris propriis et recta ratione studenti syntagma, a cura di G. Ernst, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2007, pp. 36-38).

1595

Giulio Cortese pubblica un’operetta, dal titolo De Deo et mundo sive de Catholica philosophia ubi nec per sensus nec per intellectiones veram scientiam haberi posse iuxta Scriptorum opiniones, sed tantum e sacra scriptura illam (Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum et Antonium Pacem), nella quale prende le distanze dalla filosofia telesiana. Il Cortese è anche autore di un poema epico inedito, Roberto Guiscardo (Biblioteca Nazionale di Napoli, Ms. XIV A 22), in cui troviamo i seguenti versi dedicati a Telesio «O Tilesio divin chi s’è tanto erto / ch’abbia veduto come il sol s’adopre / sopra la terra, e l’una e l’altra forma / in cui del mondo il mezo si trasforma» (cfr. L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 381). Cfr. L. Bolzoni, Note su Giulio Cortese, per uno studio delle accademie napoletane di fine ’500, «La Rassegna della Letteratura Italiana», lvii, 1973, pp. 475-499; N. Pennisi, Cortese, Giulio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 29, 1983; M.S. Pezzica, Una galleria di intellettuali nel poema inedito di Giulio Cortese, «La Rassegna della Letteratura Italiana», lxxxviii, 1984, pp. 117-145.

17 ottobre 1596

Nel volume dell’Index librorum prohibitorum voluto da Clemente VIII, sono inseriti, con la clausola «donec expurgentur», il De rerum natura, insieme a due degli opuscoli pubblicati dal Persio, il De Somno e il Quod animal universum ab unica animae substantia gubernatur. Contra Galenum (Index librorum prohibitorum … S.D.N. Clementis PP. VIII, Romae, 1596, p. 26). Cfr. F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. v, p. 250, doc. 25198. Nella sua Postilla telesiana, Eugenio Garin aggiunge che «L’Indice era stato “in consuetis locis Urbis, ut moris est, affixum et publicatum die 27 Martii 1596”. A Firenze era stato ristampato subito, “apud Michelangelum Sermartellum”, dopo che Fr. Dionysus Costacciarus Min. Convent., Inquisitore generale, l’ebbe collazionato “cum autentica copia ab urbe transmisse”. La condanna del Telesio è a p. 50» (E. Garin, Postilla telesiana, in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, p. 445, n. 2). La rimozione degli scritti telesiani dall’Index avvenne nel 1900, sotto Leone XIII.

L’Index esce nel 1596, ma la condanna, priva di datazione all’interno del libro, è certamente anteriore. Il Bartelli ipotizza che essa risalga al 1593, mentre il Gentile opta per il 1595 (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 75 e n. 103). De Franco propende per l’ipotesi formulata dal Bartelli, sulla base di quel che Sertorio Quattromani scrive in una lettera del 28 aprile 1593 a Fabrizio della Valle in Roma: «Ragioni col Sig. Vincenzo [Bombini], et veda se può far qualche cosa in servigio del Telesio, ché si porrà una corona di gloria in capo. Il Signor Vincenzo ne parlerà al Signor Cardinal di Como [Tolomeo Gallio], et son certo che quel Signore accamperà ogni sua forza, per aiutare quel valente huomo, che gli fu così caro in vita» (S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, 1999, p. 120).

Nello stesso anno viene pubblicata la Oratione di Gio[vanni] Paolo d’Aquino in morte di Berardino Telesio Philosopho Eccellentissimo agli Academici Cosentini (Cosenza, per Leonardo Angrisano, 1596). Il libretto costituisce la prima biografia ufficiale del filosofo cosentino, dalla quale hanno attinto tutti i biografi posteriori. Lo scritto del d’Aquino contiene, oltre a molti particolari interessanti della vita di Telesio, anche un breve componimento in versi di Sertorio Quattromani, con cui quest’ultimo ha voluto onorare la memoria del cosentino, non peritandosi di ricordare, come scrisse F. Bartelli (Note biografiche, p. 67), il «meschino sepolcro» che accolse il corpo del filosofo cosentino: «Exiguum nati tumulum posuere parenti / Exiguas tibi praebet opes sors dira Telesi; / At tibi perpetuum nomen, famamque perennem / Ingenij monumenta dabunt, caeloque micabis / Lux nova sidereo, nulloque aboleberis aevo» (G.P. d’Aquino, Oratione, p. 32).

4 dicembre 1600

Della «expurgatio» prevista dall’istruzione «De correctione librorum» si discuterà in una seduta della Congregazione diocesana che si svolse, nella data summenzionata, presso il Palazzo Arcivescovile di Cosenza. Del resoconto dell’incontro resta traccia nel manoscritto (resoci noto da F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. v, doc. 25128) dell’Archivio Vaticano, Vat. Lat. 6529, foll. 30r-312v. Il testo telesiano preso in esame è ovviamente il De rerum natura. Come ci informa puntualmente F.W. Lupi nella sua monografia, «sia pure sconosciuto, il documento non sarebbe di per sé straordinario, se nei fogli immediatamente precedenti (28r-29v), l’elenco dei consultori della Congregazione non enumerasse, dopo i Theologi Regulares, appartenenti ai vari ordini religiosi attivi nella provincia, i Iureconsulti: Marius de Ponto, Antonius de Vencia […] e Iacobus Gaeta, ma soprattutto i philosophi: Sertorius Quatrimanus, Iulius de Cavalcantibus e Pelius Ferraus, cioè il gruppo trainante dell’Accademia Cosentina!» (F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, pp. 82-83). Sempre il Lupi aggiunge che «la successiva lettera di Orazio Telesio e dei rappresentanti della città di Cosenza al cardinale Valier, resa nota da Firpo nel 1951 (L. Firpo, Filosofia italiana e Controriforma. iv. La proibizione di Telesio, «Rivista di Filosofia», xlii, 1951, 1, pp. 30-47), fa capire che la richiesta di revisione non ebbe seguito in Cosenza, così come – un anno dopo – venne considerata ormai impossibile dai prelati romani» (ivi, p. 83).

Circa la vicenda svoltasi il 4 dicembre 1600, e la supplica avanzata l’anno successivo da Orazio Telesio, mi permetto di dare una lettura diversa rispetto a quella presentata dal Lupi, che trova giustamente paradossale la presenza, tra i «philosophi» revisori del De rerum natura, di personalità così vicine al Telesio, come il Quattromani (autore, nel 1589, del famoso Ristretto), il Cavalcanti, e Peleo Firrao. In realtà, si ha l’impressione che la sessione convocata a Cosenza il 4 dicembre 1600 fosse stata realizzata nell’intento – disatteso, dato che la seduta si concluse senza esito – di realizzare una expurgatio ad hoc, al fine di trovare una via d’uscita alla clausola di revisione, e riuscire a togliere l’opera del Telesio dall’Index. Questa tesi sembra avvalorata dal fatto stesso che l’istanza inoltrata nel novembre del 1601, insieme ai rappresentanti della città, da Orazio Telesio (figlio del fratello di Bernardino, Valerio), al cardinale Agostino Valier, prefetto della Congregazione dell’Indice, «affinché volesse operare in detta Congregazione per far sì che essa decidesse […] di portare a termine un’opera di revisione […] dei libri incriminati» (L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, p. 77), sia la diretta conseguenza del fallito tentativo di revisione e risoluzione della vicenda, risalente per l’appunto al 4 dicembre 1600.

Circa dieci anni dopo, come ci riferisce il Lupi, che riporta un elenco del 1610 pubblicato da Pasquale Lopez, il De rerum natura apparirà, «con i libri di Agrippa, Erasmo e Pontano, tra quelli bruciati sul sagrato del duomo di Napoli» (F.W. Lupi, Alle origini della Accademia Telesiana, p. 83; P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli, Edizioni del Delfino, 1974, pp. 215-218).

 

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