di Carmela Giacobini

In appendice: Giovan Paolo d’Aquino, Oratione in morte di Berardino Telesio philosopho eccellentissimo

Come ebbe a scrivere Luigi De Franco nella introduzione della ristampa anastatica della Oratione in morte di Berardino Telesio philosopho eccellentissimo (1596) di Giovan Paolo d’Aquino, «del suo autore non si sa molto; di lui noi posteri possiamo parlare soltanto perché ha composto questo scritto. Gli eruditi suoi contemporanei non ce ne tramandano notizia alcuna, e quelli posteriori, anche se lo annoverano tra i seguaci della dottrina telesiana, non citano nessun’altra sua opera» (G.P. d’Aquino, Oratione in morte di Berardino Telesio philosopho eccellentissimo, a cura di Luigi De Franco, Castrovillari, Teda edizioni, 1988, p. iii). Salvatore Spiriti lo ricorda come «uomo negli Studi di Filosofia e delle buone lettere molto intendente; […] molto versato ne’ segreti di Natura e fattosi seguace della Telesiana dottrina, la pubblicava e sosteneva con ogni sforzo» (S. Spiriti, Memorie degli scrittori Cosentini, Napoli, presso stamperia De’ Muzj, 1750, p. 115).

Nel regesto telesiano il nome di Giovan Paolo d’Aquino ricorre due volte, in due atti notarili distinti, entrambi risalenti al 1575: nel primo, datato 21 marzo, Marcello Ferrao cede a Valerio Telesio, barone di Castelfranco e signore di Cerisano, fratello di Bernardino Telesio, il feudo detto Venere, nel territorio di Castelfranco, per la somma di 2500 ducati. Il terreno era stato venduto al Ferrao da Giovan Paolo d’Aquino con atto notarile del 10 settembre 1571 (V.M. Egidi, M. Borretti, I Telesio. Regesto dei documenti del secolo xvi, Cosenza, mit, 1988, doc. 250, pp. 64 e 67). Nel secondo atto, datato 21 agosto 1575, il d’Aquino risulta tra i fiduciari di una procura rilasciata da alcuni cittadini di Castelfranco per querelare presso il Vicerè, il Sacro Regio Consiglio e i tribunali del viceregno Valerio Telesio, «per vari gravami inferti agli stessi ed all’Università di Castelfranco» (ivi, doc. 259, p. 68).

Cugino di Sertorio Quattromani (1541-1603) per parte della moglie, Elisabetta d’Aquino, che andò in sposa di Bartolo Quattromani padre di Sertorio, Giovan Paolo d’Aquino fu probabilmente coetaneo, o di alcuni anni più giovane di Sertorio Quattromani. Attraverso alcune epistole scambiate con quest’ultimo si apprende che d’Aquino, oltre a essere autore nel 1596 della suddetta Oratione, ebbe un ruolo di un certo rilievo nella città bruzia e in particolare nell’Accademia Cosentina. In una lettera datata 13 marzo 1589, Quattromani gli attribuisce addirittura il merito d’aver suggerito il nome stesso della istituzione cosentina, lodandolo per la scelta di una denominazione così semplice e schietta, a differenza dei nomi «ricercati» che altre accademie italiane si erano dati:

«Il nome, che Vostra Signoria ha posto a i nostri Academici è così proprio, et così honorato, che non potrebbe desiderarsi migliore. Pure quando piacesse a lei, et a gli altri, parrebbe a me, che i nostri Academici non havessero a chiamarsi altramente che ‘Academici Cosentini’. Perché questo nome così semplice, et così puro ha del più grande, che tutti gli altri nomi ricercati, et investigati con ogni studio, et con ogni industria, et mostrerebbeci più modesti et meno ambitiosi»
(S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, Arcavacata di Rende, Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1999, p. 66).

In verità, come lo stesso De Franco annota, la denominazione di «Cosentina Academia» o di «Academici Cosentini» era comparsa per la prima volta già nel 1585, quando Bernardino Telesio (1509-1588) era ancora vivente, nella «Tavola degli Autori» che accompagnava la raccolta, uscita a Napoli per le cure di Scipione de’ Monti e dello stesso Quattromani, delle Rime et versi in lode della Ill.ma et Eccelentiss. S. D. Giovanna Castriota Carrafa Duchessa di Nocera, et Marchesa di Civita Santo Angelo (Napoli, Vico Equense, 1585). Ma dalla lettera sopra citata si comprende che, fino alla morte del Telesio, il cenacolo umanistico e filosofico che si riuniva a Cosenza, seguendo le consuetudini di altre accademie italiane, non aveva ancora scelto una denominazione ufficiale. È alla morte del Telesio che gli «academici cosentini» decisero all’unanimità di darsi un nome che rispecchiasse il più possibile la natura di un’istituzione culturale le cui origini vantava diversi padri illustri, da Aulo Giano Parrasio (1470-1521) ad Antonio Telesio (1482-1534) a Bernardino Martirano (c.1490-1548), fino all’autore che più di altri lascio un’impronta duratura nella istituzione cosentina, cioè Bernardino Telesio. Non è un caso che allo stesso d’Aquino fosse affidato il compito di comporre, seppure diversi anni dopo la morte del Telesio, un’orazione in memoria del filosofo scomparso, che ne ricordasse la vita, l’opera, la fama e la notorietà conquistata in Italia e in altre parti d’Europa.

In una seconda lettera del Quattromani indirizzata a d’Aquino, datata 12 gennaio 1599, il cugino Sertorio si compiace della notizia ricevuta, probabilmente dallo stesso d’Aquino, relativa ad un incarico pubblico affidatogli in Cosenza. Luigi De Franco ipotizza al riguardo che possa essersi trattato dell’elezione a Sindaco dei Nobili della città di Cosenza. Ma leggiamo il testo della lettera, che Quattromani inviò in risposta ad una missiva di Giovan Paolo:

«La lettera di Vostra Signoria quantunque breve, mi è stata carissima. Mi rallegro, che ella habbia preso la cura de’ suoi cittadini, et che sia entrata nel governo in tempo che la nostra città ne ha più mestiero, che non ne ha havuto già mai. Et come che ella sia per sostenere in ciò fatiche intolerabili, sono certo che se le faranno tutte dolci, et soavi, quando penserà che da queste sue fatiche ne nascerà il riposo della sua patria. Segua valorosamente come ha cominciato, che non potrà far altro che cose grandi, et honorate. […]
Di Napoli, a’ 12 di Gennaro, 1599».
(S. Quattromani, Scritti, cit., p. 159).

Ne Gli scrittori d’Italia (1753), Giovanni Maria Mazzuchelli evidenzia un caso di omonimia con un «Gio. Paolo d’Aquino», Cavaliere Gerosolimitano che diede alle stampe La Disciplina del Cavallo con l’uso del Piliere ed alcuni Dialoghi nel 1636. Il lettore viene messo in guardia da quanto scritto sia nell’Oligantea che ne I Poeti Napolitani, dove all’Aquino dell’accademia Cosentina vengono attribuiti dei sonetti scritti dal cavaliere Gerosolimitano:

«Il Toppi e il Ricchi, citando l’Oligantea annoverano un Paolo d’Aquino che crediamo diverso dal suddetto, fra i Poeti, ma nulla riferiscono di sue Poesie. Sappiamo tuttavia che in detta Oligantea si trova un suo Sonetto. Il Ricchi afferma in generale che di questo vanno disperse alcune Opere. Tre Sonetti che sono a.c. 225 e 227 delle Rime di Poeti Napolitani raccolte da Giovanni Acampora sono stati impressi sotto il nome d’un Gio: Paolo d’Aquino nobile di Cosenza, ma non essere di questo l’afferma il Marchese Salvadore Spiriti  il quale scrive altresì che il nostro […]rendutosi seguace della dottrina di Bernardino Telesio la pubblicava e la sosteneva; che in morte di esso Telesio recitò agli Accademici Cosentini un’Orazione senza buon ordine, e senza nerbo alcuno d’eloquenza,la quale fu stampata in Cosenza per Lionardo Angrisanonel 1596 […]; e che mori verso il 1612, o poco di poi» (G.M. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, vol. I, parte ii, Brescia, presso Stamperia Bossini, 1753, p. 913).

L’Oratione, stampata nel 1596, fu scritta per essere letta pubblicamente in Cosenza. Non è facile stabilire con precisione quando essa fu pronunziata: la lettera dedicatoria finale agli «Academici Cosentini» è datata 1 gennaio 1596 e da alcuni elementi presenti nello scritto è possibile dedurre che esso sia stato letto nel 1595, dunque molto tempo dopo la morte di Bernardino Telesio. Il testo contiene alcuni requisiti stilistici e retorici tipici delle commemorazioni funebri del tempo, con venature di carattere etico e religioso, e un’incalzante successione di citazioni erudite, storiche, filosofiche e letterarie, le cui fonti sono puntualmente riferite nell’epistola dedicatoria finale.

Come ha messo in evidenza Luigi De Franco, l’Oratione rappresenta un testo con cui fare necessariamente i conti se si vuole parlare della vita del filosofo cosentino. Da esso gli studiosi hanno ricavato importanti indicazioni per le successive ricerche, relative ad esempio ai famosi ‘ritiri’ di Telesio nella Badia del monastero benedettino in Seminara, alla notorietà raggiunta dal filosofo ancor prima della pubblicazione della prima edizione del De natura iuxta propria principia, liber primus et secundus (1565), alle relazioni intrattenute con le personalità più importanti del suo tempo (Farnese, Della Casa, Contarini, Bembo, Sirleto, Carafa, Martirano, Capilupi, Cervini, Medici) e alla fortuna riscontrata, quando Telesio era ancora in vita, dalla diffusione del suo pensiero e dalla pubblicazione delle sue opere.

 

 

Appendice

Giovan Paolo d’Aquino, Oratione in morte di Berardino Telesio philosopho eccellentissimo, agli Academici Cosentini, In Cosenza, per Leonardo Angrisano, 1596.

Nota al testo. Alla trascrizione del testo (che presenta diverse elisioni ed errori tipografici, opportunamente eliminati) sono state applicate le seguenti modifiche: & = et; u = v; cosi = così; qŝta = questa; qsti = questi; qllo = quello; qlla =quella; perche = perché; poiche = poiché; ò = o; benche = benché; santita = santità; dûq’ = dunque; e = è (ove sia occorsa); é = è; à = a; à i = ai; de i = dei; â/à = a’ (ove sia occorsa); co i = co’ i; ne = né; fe = fe’; co = co’; de = de’; cioe/ciò e = cioè; talche = talché; percioche = perciocché; è gli = egli; quantunq’ = quantunque; dopò = dopo; qsto = questo; fuoriche = fuorché; accioche = acciocché; gia = già.

[p. 3]

ORATIONE
DI GIO: PAOLO D’AQUINO
IN MORTE DI BERARDINO TELESIO
PHILOSOPHO ECCELLENTISSIMO

Come potrò io mostrare il grandissimo dolore, che sento nell’animo? come potrò esprimere i rinchiusi concetti del mio cuore? come potrò con parole pareggiare le infinite lagrime, che io veggio scendere dagli occhi di tutti? le quali se si convertissero in voci, si uderiano i lamenti infino al cielo. Come potrò ombreggiare la comune rovina così publica, et così grande? Certo dovunque volgo gli occhi, o indirizzo la mente, altro non mi si rappresenta, che mestizia, et dolori, et imagini di pianto; onde io sono costretto a piangere insieme con voi. Oh se in me fusse tanta eloquentia, quanto è cordoglio, spererei, generosi academici, et nobilissimi auditori, di mostrare, che questa è una perdita la maggiore, che mai facesse questa Città. Ma essendo il mio ingegno più tosto minimo, che mediocre et la doglianza molto maggiore, [p. 4] che ordinaria, anzi inesplicabile, mi diffido di potere esprimere con parole quello immenso danno, et quello inestimabile dolore, che ci ha impoveriti, et atterrati. È morto il Telesio, il Telesio è morto, ahi, che in dirlo, et in pensarlo, mi vien meno il cuore, et tutto si cuopre di doglia, et di affanno; È spento quel lume, che solea illuminare tutte queste contrade, et che era guida, et scorta di tutti noi; ahi come tutti semo rimasti in tenebre. Quante ombre caggiono da questi sette colli, che prima erano così chiari, et così luminosi. O Natura, et come disfai in un punto quel, che in molti anni, et con tanta fatica formi, et raguni; O morte, et come ti mostri aspra, et fiera contro le cose grandi, et eccelse? Ma come potrò io fra il pianto raccontare i meriti, et le virtù di un tanto huomo, se io non sono da forza più che humana aiutato? Tu dunque, o, divina Philosophia matre, et regina di tutte le arti; luce della nostra vita, investigatrice delle virtù, inventrice delle leggi, maestra de i costuni, thesoro del mondo, tu guida, et reggi il mio ingegno, sì, che io possa trattare, se non pienamente, almeno con qualche soddisfattione di questa honoratissima ragunanza, della vita, et morte di questo eccellentissimo philosopho, che col suo partire ci ha lasciati soli, et abbandonati. Egli solo, secondo me, ha saputo discernere il vero dal falso, investigare l’occolte, et segrete cose di natura, et rapportarle agli huomini; [p. 5] et ciò che il mare ne i suoi vastissimi seni chiude, o il cielo ne i suoi stellati, et immensi spatij abbraccia, o la terra nel suo basso centro nasconde, tutto vide, et comprese, et quello, che per tanti secoli ci era stato oscuro, et nascosto, a noi fe’ chiaro, et palese, et però dir si può, che costui fu mandato a beneficio del mondo, perché egli havesse a sgombrare le tenebre, che ci haveano ingombrato gli occhi dell’intelletto, con la luce della sua dottrina. Hora se Aristotele si ingannasse nelle sue opinioni, non voglio io tanto arrogarmi, che ardisca di dirlo, o che cerchi di mostrarlo, poiché altro non mi si conviene, che ammirarlo, et riverirlo. Pure non rimarrò di dire, che le sue positioni furono impugnate non solo da’ Platonici, ma da molti suoi Peripatetici, et che Giustino Martire scrisse un libro contro la sua dottrina, et San Basilio afferma, che mai non disse cosa, alla quale egli istesso non habbia poi contradetto. Il perché non dee parere maraviglia, che il Telesio habbia havuta contraria opinione a quella di Peripatetici, poiché la verità si ha da anteporre a tutte le cose; et se lo istesso Aristotele disse, Amicus Plato, amicus Socrates, sed magis amica veritas, potrà parimente a ragione dire il Telesio, io sono amico di Aristotele, ma sono più amico della verità. Niuno dunque si ammiri, che cosi gran philosopho habbia trovate; et tenute altre opinioni, et con diversi principij, perché egli si mosse a far ciò, per [p. 6] amor solo del vero, et per fare utile al mondo. Hora questi suoi principij non sono chimere, ma furono accennati non solo da Euripide, et da altri poeti antichi, et da gravissimi philosophi, ma, dalla autorità della divina scrittura, la quale non può in conto alcuno errare, sono grandemente fermati, mentre ella afferma, i principij formati da Dio nella creatione del mondo, essere stati il cielo, et la terra. Il perché se la Grecia honorò tanto Socrate, Platone, Pithagora, et altri per li documenti, et precetti da loro alle genti lasciati, et se tante città contesero della cittadinanza di Homero, et se Stagira fu ristorata per lo merito di Aristotele, et se Philippo fe’ levare l’assedio da Sinopia, perché era patria di Diogene, et se Alesandro il magno facendo dipredare, et distruggere Thebe, commandò, che non fusse tocca la casa di Pindaro, né persona della sua famiglia, tanto fu il riguardo, che hebbe a quel gran poeta; et se gli Athenesi fecero inalzare una colonna di marmo allo istesso Pindaro, et vi scrissero a lettere d’oro una oda, che quel gran poeta havea composta in lode loro, et sollimarono Solone, e i Lacedemonij Licurgo, gli Egittij Phoroneo, i Romani Numa Pompilio, poiché da questi hebbero le leggi, con le quali si regola la vita humana; et se gli antichi tennero per Iddij tutti quegli huomini, che furono inventori di cose o commode, o utili al vivere humano, come appresso gli Egittij Isi, appresso i Cretesi [p. 7] Giove, appresso i Latini Fauno, appresso i Sami Giunone, et altri appresso altri popoli, et se i poeti co’ i loro versi stellificarono questi, et molti altri, et li collocarono poeticamente in cielo, che doveriamo far noi del Telesio, et come honorare il suo nome, poiché per le sue divine inventioni da lui investigate con sommo giudicio, et palesate con maravigliosa eloquentia, è stato di maggior utile, et di maggior gloria al mondo, che qualunque de i sopradetti? Quanto dunque ti dei gloriare tu Cosenza di questo tuo cittadino, che non è stato inventore di precetti, non di mondane leggi, ma vero investigatore di verità; Il quale se della divina providentia fusse stato concesso agli antichi secoli, come è stato al nostro, ardisco di dire, che gli altri da lui, come da un vivo fonte, haverebbono derivate l’acque della loro dottrina; et come gli architetti del sacro tempio di Minerva, ricorsi a Platone per lo modello, et forma del detto tempio, furono da lui rimandati ad Euclide, così tutti sarebbono ricorsi al Telesio, et rimandati al Telesio. Et benché non solamente nelle cose interne, et che si trattano dallo intelletto, ma in quelle ancora, che si veggono con gli occhi, et toccano con mani, si trovino molte difficultà, che non si possono esprimere, come avenne a Timante dipintore espertissimo, il quale volendo dipingere il lagrimevole sacrificio di Iphigenia, ritrasse Calcante mesto, et Ulisse addolorato, Aiace in [p. 8] atto di lamentante, et Menelao in atto di esclamante, ma non sapendo, né confidandosi, come dipingere la grandissima mestitia del padre Agamennone, il dipinse col capo coperto, et lasciollo nel giudicio di chi il rimirava. Nondimeno non avenne così a questo grandissimo philosopho, in cose altissime, et di maggior momento, perché possiamo dire di lui con quel nobilissimo poeta Che quanto volle ir volle alto poteo; poiché quanto col suo alto intendimento si ingegnò di trovare, tutto trovò, et quel, che trovò, spiegò poi in vive carte. Onde de i suoi divini scritti tanta stima ha fatto il mondo, che sono stati dati più volte in luce, non solamente in Italia, ma in Fiandra, et in Germania: et se bene gli Italiani hanno inalzato le sue opere grandemente, le nationi straniere si sono ingegnate in ciò di avanzargli; et gli Alemanni, rimosso il primo titolo del libro, dove egli per sua modestia ponea solamente il suo nome, et il suggetto dell’opra, l’hanno ornato grandemente d’un altro nuovo titolo, nel quale si contiene, che quella opera è piena di molta dottrina, et che è necessaria a gli studiosi delle lettere così humane, come divine; et se le sue lode sono state tanto inalzate, et magnificate da popoli lontanissimi, che si ha a fare da noi, co i quali egli ha comunicate le sue dottrine, et le sue virtù? Delle quali, come mentre visse, ne fummo partecipi, così et hora ne semo rimasti come heredi; Onde io sono sicuro, che molti, che [p. 9] non haveano congnitione di questo sapientissimo huomo se non per fama, leggendo hora, et intendendo le sue opere, et vedendole ornate così altamente, le conosceranno perfettamente, et le ammireranno, et riveriranno, con maggior amore, et reverentia, che non faceano prima; et così come si richiede ai suoi meriti, conosciuti da i maggiori huomini, et letterati, che siano stati al nostro secolo, Pontefici, Re, et Cardinali; Quanto fu egli amato da Clemente Settimo, nella corte del quale fu cresciuto, et allevato? quanto da Paolo Terzo, così grande estimatore degli huomini letterati? Quanto da Marcello Cervino, il quale in quei pochi giorni, che visse Papa, fu inteso dire, che havea allegrezza, che potea benificare il Telesio. Quanto da Paolo Quarto Carafa, et mentre, che egli fu Cardinale, et dopo, che ascese al pontificato? Quanto da Pio Quarto de’ Medici, il quale volendo dargli lo Arcivescovato di Cosenza, egli per attendere ai suoi studij, et perché dicea per modestia, che il fratello era più meritevole di lui supplicò sua santità, che havesse conferito quella gratia in persona di Tomaso Telesio suo fratello. Quanto finalmente da Gregorio Terzodecimo fu amato, et favorito, il quale solea dire, che il Telesio era ornato non solo di molte lettere, ma di molta bontà? Quanto fu caro al Cardinal Bembo? Quanta fu la strettezza, che hebbe con Monsignor Giovanni della Casa? et come [p. 10] quel divino huomo, et così giudicioso non potea vivere pur una hora senza il Telesio. Quando finalmente, per non tenervi a tedio, fu amato, et riverito da tutti i letterati, che furono al suo tempo? Quanto fu stimato dal Cardinal Contareno, et dal Cardinal Farnese, vero Mecenate di letterati? il quale affermandosi un giorno da alcuni Philosophi, che la dottrina Telesiana non era vera, disse loro, Hora, che non ci è il Telesio, tutti oppugnate le sue ragioni, ma come egli è presente, ciascheduno tace, et si arresta. Et ritrovandosi un giorno Monsignor Hippolito Capilupi Vescovo di Fano con Franciesco Re di Francia, gli disse, come uno Italiano havea cominciato a scrivere contra la dottrina di Aristotele, et che si confidava mostrare con ragioni chiare, et vive, che era tutta fondata sopra principij falsi, et quel generoso Prencipe volle intendere il nome, et la patria del Telesio, mostrando di ciò una allegrezza grande, et rivolto al Capilupo, disse, Io prometto, che se costui fa quel, che dice, che io sono per dargli diecemila fiorini di entrata. Né è da maravigliarci, che la fama sua trapassasse tanto oltre, perché questa sua dottrina tirava a sé la benevolentia di tutti; et quanto la Philosophia, et la virtù sia cara a gli huomini, tanto sia il nome del Telesio lodato, et ammirato. Né mai le tante ambiguità de i Philosophi ingombrarono la mente di questo divinissimo spirito, come [p. 11] haveano ingombrato tanti altri, i quali tutti furono discordanti tra loro, et tennero diversi principij. Perciocché Talete Milesio disse, che l’acqua era principio di tutte le cose, Heraclito il fuoco, Hesiodo la terra, Anassimene l’aria, Democrito gli athomi, Empedocle, Hippocrate, Epicarmo, et altri fecero quattro principij, cioè la terra, l’acqua, l’aria, et il fuoco, et tutti questi hebbero le loro scuole, et i loro seguaci. Venne poi Aristotele, et formò in tal maniera la sua Philosophia, che parea, che il contradire a lui, fusse un contradire alla verità, et come che si siano trovati dei Philosophi, che gli hanno contradetto in alcune cose particolari, il Telesio solo non si è sgomentato, di assalirlo ne i suoi steccati, et di abbattere i suoi principij. Questa fu veramente impresa generosa, et degna di eterna memoria, et che hebbe la sua compita vittoria, et felicità; e i suoi scritti ne fanno pienissima fede; né uscì mai cosa inconsiderata dalla sua bocca, non che della sua penna. Ma non avvenne così a gli antichi, perché c iascheduno prendendo varij, et diversi principij, si formarono un mondo a lor modo, et secondo quello Philosopharono, et non secondo quello, che è stato formato da Iddio et fecero la ragione serva alle opinioni; la onde cascarono per quel, che si crede, in molti, et diversi errori; et l’uno è morso dall’altro. Platone scrisse contra molti gran Philosophi antichi, et di suoi tempi, Aristotele [p. 12] non solamente riprende Platone, Empedocle, Parmenide, et Pittagora, ma mette a terra la dottrina di tutti i Philosophi, che erano stati inanzi a lui; Galeno, et Theophrasto scrissero in molte cose contra Aristotele, Themistio scrisse contra Theophrasto, Tolomeo contra tutti gli Astrologi antichi; Quanti dubij erano rimasti indissolubili, et dalle fascie del mondo non conosciuti, infino ad hora? Chi mai seppe la ragione, perché la calamita tira il ferro? perché si aggira alla tramontana, et perché la remora, picciolissimo pesce, ritiene una nave contra l’empito del mare, et de i venti? perché la pirausta vive nel fuoco, et fuori del fuoco, subito muore? Chi conobbe mai la cagione dell’arcobaleno, il nascimento, et moto del mare? la qualità de i colori, et de’ cieli, et delle cose, che si generano in aria, et tante altre cose maravigliose, che prima di lui non furono né sapute, né conosciute a pieno, per quanto si vede nella memoria delle scritture? Perciò che i Philosophi non assegnarono mai ragione alcuna di valore in sì fatte maraviglie, et che così sia stato, vi ri ricordo, che Platone, volendo rendere la ragione di queste cose, attribuisce l’ordine di queste virtù alle Idee, et costui fu tale, che non solamente superò Talete Milesio, Anasimandro, Anasagora, Socrate, ma tutti gli altri suoi predecessori; Alberto Magno disse provenire dalla specifica forma, et sostantial di ciascheduna, altri naturali [p. 13] l’attribuiscono alli spiriti celesti, Hermete, et molti altri Astrologi l’attribuiscono alle stelle della ottava sfera; et mentre così dicono, confessano non sapere la vera cagione, et così molti indotti da falsa credenza, si sono ingannati. Ma leggansi le ultime opere del Telesio; che vi si vederanno ragioni, che quietano la mente, et l’intelletto, ritrovate con fatiche, et vigilie grandissime, le quali sono come tanti lumi, che vincono l’oscurità della notte. Chi conobbe a paro di costui la natura del corpo humano? poi che tra gli altri grandissimi duoni dateli da Dio, quando egli vedea uno ammalato, conoscea subito la fine di quella infermità, in tal modo, che tutti i phisici l’haveano come uno oracolo; havendo veduto, et inteso i grandissimi, et veri pronostici, che egli facea; nel medesimo concetto l’haveriano havuto quei dottissimi medici antichi, come Hippocrate, Galeno, Asclepiade, Erasistrato, et altri; et però non solo tu Cosenza gloriar ti dei di haver havuto così grande huomo, che penetrò quello col suo alto intelletto, che altri mai imaginar non seppe, ma Italia tutta, et l’Europa, anzi quanto circonda l’Oceano col suo ampio giro. Che posso, o debbo dunque dire di costui? che niuna lingua, niuna penna, niuna mente ardirà di poterlo mai a bastanza lodare? Già in me comincia a scemarsi la memoria, a confondersi l’intelletto, et ad annodarsi la lingua; et disdicendosi, che io debba ragionare, et trattare di una [p. 14] così profonda sapientia, tu Isocrate, che lodasti Philippo, tu Demosthene, che lodasti Evagora, tu Cicerone, che lodasti Pompeo, eravate ben degni di lodar costui; et se io mi sono posto a raccontare le sue infinite lodi, non è stato, per aggiungere lume al suo splendore, che in me non è tal forza, et egli non ha mistiero di essere illustrato delle mie tenebre, ma per accendere i nostri Cittadini a far opere sempre degne, et imitare le attioni di questo heroe, che così mi giova di nominarlo; che come sapete, si legge nelle historie Romane, che niuna cosa inanimò tanto quelli huomini ad atti gloriosi, quanto le orationi, che si recitavano in morte de i loro cittadini. Perché ciascheduno si vergognava di non essere tale, che chi prendesse a lodarlo, non havesse da potere ciò fare; e i nostri predicessori hanno havuto ampio campo di dolersi, et di attristarsi nella morte de i loro cittadini, che l’hanno fatti immortali con le opere, et con gli scritti loro: Come di Giano Parrasio, il quale fu il primo, che cominciò à cacciare la barbaria dalla Italia, et à parlare Latinamente, et fu chiamato a leggere pubblicamente in Milano, et poi da Papa Leone ad insegnare le belle lettere à Roma, et lasciò fuori molte sue compositioni, come un libro delle cose, che gli furono domandate per lettere, il quale poco anni sono fu ristampato in Parigi; et una rethorica, et una espositione sopra il ratto di Proserpina di Claudiano, et un’altra sopra la poetica di Horatio, di molta dottrina, et una sopra le pistole ad Attico, la quale è tenuta sepolta con gran danno de’ letterati. Et de’ due fratelli Martirani, cioè [p. 15] di Berardino Segretario di questo Regno, il quale scrisse assai bene in tutte le lingue? ma sopra tutto nella Latina et di Coriolano, il quale per giudicio del Cardinal Contareno et di Monsignor della Casa, ha scritto più Latinamente di tutti, et ha composto un vaghissimo libro di pistole, et di orationi, et ha tradotto così bene Homero, Euripide, Sophocle, et Aristophane, che non pare, che la nostra lingua gli invidij alla Greca, et di Bartolo Quattromani, che fu tanto avanti nelle cose Toscane, et Latine, che hebbe pochi pari a’ suoi tempi, et quando l’Imperatore Carlo Quinto passò per Cosenza, fece così bei versi, et così bei motti Latini da mettersi ne i trophei, et negli archi trionfali, che furono preparati a sua Maestà da questa Città, che fece stupire quanti grandi huomini erano in quella gran corte, et furono mandati per tutta Europa; et lasciò molti libri di ode, et di epigrammi, et uno giudicio sopra gli historici Latini, che è degno di essere letto in ogni parte, et da tutti gli huomini, che si intendono di questo mistiero. Che dirò di Pietro Paolo Parisio, il quale, oltra di havere letto publicamente la ragion civile in Padova, et in Bologna, fu prima auditore della Camera, et poi fu fatto Cardinale da Paolo terzo, et mandato legato al Concilio di Trento, et compose quattro volumi di consigli, et molte letture sopra i Digesti, et sopra il Codice, et fece le aggiontioni a Bartolo. Che di Antonio Telesio zio di questo, il quale scrisse così candidamente, che i letterati Germani dicono, che parla con la lingua di Plauto, et di Cicerone [p. 16] et diffuse la sua dottrina per tutti gli studij di Italia, et oltre molte cose, che scrisse in verso, nel quale agguagliò gli antichi, oltra i suoi libri scritti in prosa, dei colori, et delle corone, altra molte sue pistole, et orationi, ci ha lasciato due tragedie, cioè la Danae, che è stata ristampata più volte in Alamagna, et in Francia, et l’Orpheo, che è scritto a penna appresso di noi, le quali sono così maravigliose, che per queste due sole la lingua Latina, può stare a fronte con la Greca nelle tragedie. Che di Berardino Bernaudo allievo di Giovanni Pontano nel tempo del Re Alfonso, et poi fatto segretario di Ferrandino, et di Federico, et di Consalvo Ferrando, detto il gran Capitano? Il quale non lasciò scritto nulla del suo, che io sappia, perché mentre egli servì i suoi signori nella segretaria, quei signori stettero sempre in armi, et egli si impiegò ne i servigi loro in ogni attione, et come le guerre si quietarono, egli si morì. Che di Andrea Ardoino, che fu così gran giurisconsulto? il quale essendo prima consigliere, et poi protettore del patrimonio reale nel Regno di Sicilia per spatio di quaranta anni governò così bene tutti quei popoli, che anchora non si nomina altro per tutta quella Isola. Che di Gio: Battista d’Amico, così grande astrologo, et Philosopho? il quale ne i primi anni della sua gioventù stampò un libro, dove ci discrive tutti i moti de i corpi celesti, senza usar eccentrici, epicicli, cosa degna di maraviglia, et tenta ta tante [p. 17] volte indarno dagli antichi Astrologi? se si hanno dunque i nostri doluto della perdita di tanti huomini, molto maggiormente hanno ciò a fare nella morte del Telesio, perché, oltra i suoi meriti, oltra la sua letteratura grandissima, oltra la piacevolezza de’ suoi costumi, era come padre, et maestro di tutti, talché nella sua morte ci pare di haver perduto quanto bene era in noi. Et questa perdita è tanto grande, che converrebbe, che qui fossero molti Heracliti, per piangere a bastanza un tanto danno; ma considerando poi, che egli vola glorioso per ogni parte, ci dovemo acquietare; et io vorrei essere un nuovo Antifonte, perché potessi asciugare le vostre lagrime, et temprare i vostri dolori. Costui, per poter meglio investigare i secreti della natura, per molti anni si disgiunse dalla frequenza de gli huomini, et se liberò d’ogni altro pensiero, et lasciò la patria, i parenti, gli amici, et si raccolse in un monastero di frati di San Benedetto, et ivi habitò; perché vide, che la solitudine era la porta della contemplatione, senza la quale non potea attendere a sì gloriosa fatica; et negò a se stesso ogni piacere, et ogni diletto, et abbracciò ogni travaglio, et ogni fatica, per acquistar fama, et gloria apresso gli huomini, et si ritrasse con la mente, et col pensiero, Considerando la durezza, et immobilità della terra, la sodezza de i metalli, la forza de i terremoti, la varietà [p. 18] delle herbe, de i fiori, et de’ frutti, i sentimenti de gli animali, il moto del mare, la qualità de i colori, la natura de i cieli, la sottigliezza dell’aria, la potentia de i venti, la produttione delle nevi, della brina, et roggiada, la generazione delle grandini, et delle pioggie, la diversità, et l’empito de i baleni, i varij colori dell’Iride, la sostanza del fuoco, il nascimento, et stato delle comete, il girare dei pianeti, la ragione del circolo latteo, la diversità, et quantità delle stelle, et le loro figure, e i loro moti, et finalmente penetrò, oltre il gran cerchio del cielo, alla contemplatione della prima causa. Fu oltra ciò, come sapete, gran mathematico, intendea così bene ciò, che scrissero Euclide, et Archimede, che non fu meno eccellente nella mathematica, che nella Philosophia. Havea inoltre la prattica grande nel numerare, et la ripresentatione de i numeri, il raccogliere, l’abbattere, e il moltiplicare, partire, radoppiare et nello smezzare, cavare le radici degli intieri, et de i rotti, in tal modo, che con queste, et altre ragioni sciogliea ogni dubitatione, quantunque havesse paruta indisolubile a tutti gli altri. Che dirò della Astrologia? egli havea così pronto l’Almagesto di Tolomeo, et quante opere scrisse mai quel raro huomo, che pareano più sue, che dell’istesso autore. Quanto fosse stato eccellente nella scrittura divina, il sano tutti i nostri Theologi; che dirò [p. 19] della lingua Greca? egli la parlava, et scrivea, così bene, che parea nato in Athene al tempo di Platone, o di Thucidide. Havea in memoria tutte le historie Greche, Latine, et straniere, et le ragionava così bene, et a tempo, et a luoco, che era una armonia a sentirlo. Quanto fusse stato maraviglioso poeta, et come intendesse i segreti della poesia, oltra alcune sue opere, che non sono fuori, si può comprendere da quei pochi versi Latini, che egli fece in lode di Donna Giovanna Castriota Duchessa di Nocera, dai quali si può conoscere la eccellentia della sua poesia, come dalle ugne si conosce il leone, et Pitagora dal piede di Hercole, conobbe la statura del corpo di lui. Costui ha navigato sessanta anni continui per l’Oceano delle scientie con suo divino intelletto, et con la sua dottrina ammirabile. Questa si può dire, che sia stata quella nave detta Vittoria, che girò felicemente tutta la terra; et che varcando tanti immensi mari, vide tante regioni, et tanti paesi, et che ci fece conoscere tante innumerabili maraviglie, non prima intese, né vedute. Ne si sgomentò punto, ne si ritrasse mai dal suo incominciato c amino, infino a tanto, che superò ogni difficultà, et che tornò vittorioso, et pieno di gloria alla sua patria. Et la memoria di tante maravigliose virtù, fu quel ricco patrimonio, che egli lasciò a’ suoi. Però qual mestitia, o dolore potrà accompagnare la mia lingua, che mostrar possa quanto [p. 20] questa inestimabile perdita mi affliga? Tu sapientissimo Solone, inventore delle orationi funebri, potresti forse spiegare i meriti, et le lodi di questo eccellentissimo Philosopho; Tu Pericle, che ti coronasti di oppio, quando orasti in lode di quegli huomini valorosi, che erano morti combattendo, nella guerra della Morea, orando per costui, ben ti coronaresti di palma, et d’oliva, poiché egli ha ottenuto vittoria sopra tutti i suoi avesarij, et ha posto in pace tranquilla tutte le controversie che erano fra dotti, et sapienti. Però io non so Città ma se io debbo persuaderti al pianto, postia, che qui l’habbiamo perduto; o, dissuadertene, poiché al cielo se ne è gito. Non vogliamo piangere il suo riposo, et la sua felicità, poiché Morte l’ha sottratto dalle miserie di questo mondo. Deh non mostrino le molte lagrime, che il nostro danno ci muova più, che il suo bene; perché questa humana vita non è altro, Che diserto horribile; habitatione di fiere, prato di serpi, fiume di lagrime, mare di miserie, fatica senza profitto, povera abbondanza, fame stomachevole, speranza fallace, sollecitudine perpetua, lacci coverti, hami inescati, allegrezze dolorose, navigatione senza governo, et porto dubbioso. Onde Hegesia Philosopho, mentre orando, raccontava le miserie di questa vita, et le felicità dell’altra, molti furono di quegli, che volontariamente [p. 21] si uccisero; la qual cosa mosse il Re Tolomeo a far divieto, che di tal suggetto più oltre egli non ardisse di ragionare. Ricordinsi con quanta ragione, et artificio fu fatto quel quadro, et figura della morte, che, chi quella riguardava per lo suo dritto, et con gli occhi della ragione, dicea, et così convenia dirsi, o Morte, quanto è buona la tua memoria; ma chi quella medesima riguardava con gli occhi corporali, et co’ i sensi, et con poco lume di fede, dicea, o Morte, et quanto è amara la tua memoria. Che altro è questa vita, che un theatro, dove si rappresentano i trofei della Morte, et il corpo, che altro è che un sepolcro mobile, dove sta l’anima. Et però Platone ordinò, che nella morte degli huomini valorosi, le lagrime fussero del tutto sbandite. Et Ennio morendo, richiese i suoi amici, che non lo dovessero honorare con le lagrime, stimando, che egli fusse rimaso vivo, per la bocca degli huomini. Il medesimo ordinò il Re Ciro, morendo, a’ suoi figlioli. Altrettanto habbiamo a fare del Telesio; poiché egli è morto, havendo dato compimento alle sue heroiche fatiche, et racquietate le più ostinate menti, et le più repugnanti voluntà, dei Philosophi, con una violentia dolcissima, et con chiare, et vive ragioni, et dimostrationi, et col mezzo di argomenti indissolubili, ha sciolto ogni nodo di difficultà, et tutti ha tratto nel suo giusto volere. Onde non so quale stato si possa chiamare più felice, che havere [p. 22] adempito quanto al mondo di buono ha desiderato; poiché giunse alla perfettione dell’animo humano, che è il vero sapere, et se Themistio Philosopho havesse inteso costui, non haverebbe né detto, né affermato, che quelle cose, che gli huomini sanno, sono una minima parte di quelle, che essi non sanno; perché non fu mai dubbio, per indissolubile, che havesse paruto agli altri, quantunque dotti, et sapienti, che egli non l’havesse con facilità scolito et spiegato. Et però si può dire, che morì nella più alta vittoria del mondo, et vinse la morte con la immortalità; et se hora il vedemo sotterra, e elevato al cielo, et quando sarà chiuso nel sepolcro, i suoi scritti correranno per ogni parte, et si paleseranno per tutto il mondo, et veramente saranno portati da quel Pegaso, che non senza cagione è stato finto, et imaginato da’ poeti, et quando sar à convertito in cenere, da quello, quasi nuova Phenice, forgerà l’ardentissima fiamma della sua fama; la quale, come dice Pindaro, uscendo dagli huomini valorosi, risplende più che la luce del Sole. Perciocché la sua gran virtù il riserba sempre in vita, et i licori de’ suoi divini inchiostri togliono la forza, et il taglio a quella crudelissima falce della Morte, che troncar non può il filo, et lo stame della sua gloria. Et se alcuni Philosophi non accettano queste sue inventioni, et non ricevono questa sua philosophia, quantunque la conoscono vera, ciò fanno per non privarsi di quel nome, che si hanno acquistato con tante fatiche, in rivolgere gli scritti di [p. 23] Aristotele. Ma costoro si deveno ricordare, che habbiamo più a rimirare l’honesto, che l’utile; et che gli Athenesi ricusaro il consiglio di Themistocle, quantunque utilissimo, et che passava in utilità dei loro posteri; perché non era giusto, né si potea usare honestamente. Oltra ciò, possiamo dire, che è beata, et felice quella Morte, che apre la entrata a quella eterna, et perpetua vita, la quale è libera d’attristarsi delle cose preterite, o di spaventarsi delle cose presenti, o di provedere con timore le cose di avenire. Né in questo mondo si trova alcuno sì fortunato, che talvolta non desideri il morire, perché le disaventure, e i mali, che avvengono ordinariamente agli huomini, perturbano il nostro vivere. Però la Morte è rifugio alla vita dolorosa; anzi così è fatta la conditione humana, che in terra non troviamo vera quiete; anzi vi è una continua battaglia, per la instabilità dei mondani accidenti. Et dopo la tranquillità vien la tempesta, dopo il riso, il pianto. Et essendo il mondo un viaggio pieno di spine, chi può securamente varcarlo senza timore delle sue acerbissime punture? Et in questo travagliato laberinto ogn’uno resta confuso; et perché gli esempij sogliono havere più efficacia, che le parole, li ricordo, che i Tracesi celebravano lo nascimento, col pianto, et col dolore, et la morte, et le esequie, con pompa, et allegrezza, e i Bragmani teneano, che la morte fusse stata la vera natività, perché era strada alla eterna vita, et l’una et l’altra sono così congiunte, con la humana natura, che [p. 24] l’una accettare, et l’altra non ricusare dovemo, et per questo vi torno anco a memoria quella famosa historia, che racconta Herodoto, dove dice, che celebrandosi la festa di Giunone nella città di Argo, una donna sacerdotessa del tempio, pregò quella dea, che a Cleobio, et a Bitone, suoi figliuoli, facesse quello intravenire, che agli huomini puote essere il meglio, et più felice, et havendo dopo tale oratione, fatto sacrificio, addormentati i detti suoi figliuoli, mai più non furono desti, et così finirono la lor vita, et le imagini loro, fatte dagli Argivi furono poste a Delpho nel Tempio, sì come huomini cari a Dio riputati; et Agamede, et Trifonio; havendo edificato un famosissimo Tempio, ad Apolline in Delo, hebbero da lui in premio la morte, come la miglior cosa, che possa darsi in questo mondo. Oltra ciò, sa la natura ci ha prestato questa vita, senza havere prefisso il giorno, o tempo, di havercela a ripetere, ricercandoci quello, che è suo, o tardi, o per tempo, quale giusta cagione havemo di dolerci di lei? anzi si ha da ringratiare, che potendola ripetere subito, tardamente la ha ridimmandata; perché quando l’huomo nasce, in quella istessa hora si fa debitore della vita. Onde drittamente si dice che l’huomo nasce con la morte, et l’ombra del corpo humano è somigliata alla morte, che ad ogni luoco li sta a lato. Più di questo ella è fine di ogni nostro male, et principio di ogni nostro bene; et mi rappresenta la [p. 25] Luna, la quale mentre si dimostra a noi oscura, et scema tutta lucente, et piena di lume rispende ne’ Cieli di sopra; et così avviene di questo grande huomo, Poiché, in terra morendo, in ciel rinasce, Come disse quel famoso poeta. Perché come sapete, sono due natività, o nascimenti, l’una di carne, et l’altra di spirito, l’una di terra, et l’altra di cielo, l’una di mortalità, et l’altra di immortalità, et di eternità. Et in questo mondo non vi è mai quiete, perché del bene havemo timore, et del male dolore; et ogniuno è ingannato della prosperità, et afflitto della adversità; anzi il fine dell’allegrezza è unito col principio del dolore; si che egli è un pelago di travagli; et morendo, siamo securi di non sentire, i contagi di questa vita, et le noie della vecchiezza; per la quale cosa Catone Censorino era solito dire, che se gli dei l’havessero voluto fare tornare un’altra volta giovane, che non l’haveria consentito; et certo prudentemente, perché si ricusa a ragione, fornito un corso periglioso, voler di nuovo alle prime mosse ritornare. Et senza fallo quando l’huomo muore, si diparte, come dallo allogiamento, non come dal proprio albergo; però dovemo più d’ogn’altra cosa considerare il fine della vita, così come semo ammoniti, et avertiti della ragione; acciocché non incorriamo in quello, che molti incorrono, che di tutte le loro cose tengono diligentissima cura, fuorché di loro istessi. O quanto saviamente ci ammonisce [p. 26] Marco Tullio, nel suo libro della consolatione dicendo, che ci formiamo pure un mondo a nostro modo, et che prendiamo da quello tutte quelle felicità, che si possono desiderare in questa vita, come sono ricchezze, honori, potentie, et fortezza di corpo; quali di queste saranno mai stabili, et che non patiscano continua mutatione? Ogni cosa è caduca, ogni cosa è incerta, et instabile, et non si può stabilire da forza, o consiglio humano; ma è suggetta alla leggerezza della fortuna, et alla varietà dei tempi. Et che cosa può essere più biasimevole nello huomo, che pendere dalla mutatione del tempo, et della fortuna, et ad ogni picciolo fiato di questi sollevarsi, et abbassarsi, et rallegrarsi, et gloriarsi dei successi felici, et piangere, et attristarsi degli accidenti aversi? Ma non è maraviglia, poiché la natura ci formò di corpo fragile, et infermo, et ci diede l’animo molle, a sopportare le angoscie, et le fatiche. La vita nostra dunque non è altro, che morte, et l’anima non vive mai vera vita, se non quando è disciolta da questo corpo. Ma di morte più trattar non vorrei; et ti ricordo di nuovo, che gloriar ti dei di haver avuto un sì gran cittadino del quale io non a raccontare, ma ad ombreggiare le infinite, et grandissime virtù sono qui asceso; le quali sono così innumerabili, che non si possono in così picciolo spatio annoverare. Egli fu così amico del vero, [p. 27] che per niuna passione d’animo se ne poté mai allontanare; et ciò fu conosciuto da tutti. Avenne un dì, che si doveva prendere il giuramento dal Telesio, per cosa di momento, et fu usato in persona sua quello riguardo, che usarono gli Athenesi, quando, volendo giurare Senocrate, huomo per sapientia, et santità di costumi eccellente, non sostennero, che giurasse, parendo loro, che a Senocrate per la sua bontà, gli si dovesse credere, senza il giuramento. Egli favorì sempre la pace, et la concordia et sempre preponea il publico al privato; et mentre componea le paci fra i suoi cittadini, parea, che a quel tempo fosse stata nella nostra città quella legge di Athenesi, detta Amnestia; che era legge di oblivione delle offese passate; così con la sua grande authorità, et sapere ultimava, et finia tutte le discordie, et tutti i disordini cittadineschi. Però della morte di costui far dei quel, che fe Senofonte, che udendo nuova, che il figlio era morto combattendo valorosamente, si rimise in testa quella corona, che prima si haveva levata. Coronati dunque tu città mia, et non attendere altra novella, et gioisci, poiché combattendo, et vincendo è morto; sì come ne fanno fede le opere da lui composte; nelle quali coloro, che le leggeranno, troveranno scelte semenze da produrre preciosi frutti: et non solamente in cose pertinenti a dottrina, et scientia, ma intorno a’ costumi, et bontà, sì come fanno [p. 28] di ciò piena testimonianza tutti coloro, che per seguire questa dottrina, sono comunemente Telesiani chiamati. I quali tutti modesti, tutti dotti, tutti savij, et ornati di ogni virtù si dimostrano. Et perciò all’acquisto di così ampio thesoro mettasi ogni nostro studio, et ogni nostra fatica. Poiché con questo ci arricchisce quella vera phisolophia; la quale è dei più eccellenti duoni, che alla humana natura habbia concesso Iddio. Ma chi può a pieno mostrare la grandezza di questa divinissima scientia? Pure se io non timessi di essere troppo lungo, et se per cosa certa non mi persuadessi, che voi molto meglio comprendete col pensiero tutto quello, che lascio per brevità; et che io non saprei esprimere con lunghi giri di parole, mi ingegnerei a mostrarlo al meglio, che io sapessi. Ben dico, che tu Italia, che hora hai in te questo nuovo, et dolce mare di scientia, non hai bisogno di ricorrere ai rivi delle altre Provincie, sì come facesti anticamente per alcun tempo, che andavi alla Grecia, et allo Egitto, ad apprendere le discipline; et hora richiamavi questa natione, et hora quell’altra, che ti insegnasse le dottrine. Anzi se Athene, Thebe, Sparta, Corintho, et tante altre famose città fossero in piede, tutte verriano a te, così come ricorrono hoggi per cagione dei suoi scritti, la Germania, la Francia, la Spagna, la Fiandra, et tutti gli altri regni, che sono nella Christianità. Onde tu generosa [p. 29] Città, che sai quante opere sono rimaste dalle sue da imprimersi, et le vedi nelle mani di diverse persone disperse, fa ti prego, che un thesoro così grande, et così occolto, per la tua dovuta gratitudine risorga, et sia fuori della oscurità, et delle tenebre, dove hora si trova sepolto. Dovendo imaginarti, che sì come questo gran philosopho, inventore delle cose più rimote, et occolte, sempre avanzò se stesso, così habbia anco fatto in queste sue ultime compositioni. Non dico perciò, che la scientia di costui, sia stata come le altre, che hanno avuto la pueritia, l’adolescentia, et le gioventù, perché dal principio è stata intiera, et perfetta; et cosa alcuna non le ha mancato. Ma siccome avenne de Isocrate, il quale essendo di anni novantaquattro, compose quel libro, che intitolò delle cose della città di Athene, col quale avanzò tutti gli altri suoi; et non ostante, che era invecchiato il corpo, et indebolite le forze, erano pure vigorose, et intiere quelle dell’animo; le quali sempre crescono. Così anco si de’ credere del Telesio, poiché intorno alli ottanta anni della sua vita, fe’ quelle ultime opere. Et se pure non saranno più perfette delle altre, tratteranno di nuove materie, et di cose non mai udite, infino a questo tempo. Et si come quando domandato fu il medesimo Isocrate delle compositioni di Heraclito, disse, che quelle che esso havea intese, gli pareano miracolose, et quelle, che non havea intese, credea [p. 30] che fussero simili alle altre; così si può credere, et affermare di queste ultime opere del Telesio. Nelle quali troverete una maniera, et forte di logica, che senza dubiosità, et senza sofismi ci insegna a discernere il vero dal falso, et da esse si impara la vera Astrologia, cioè di salire con la mente al cielo, et la Theologia, che ci ammaestra a conoscere, amare, reverire, et servire Iddio. Queste furono quelle altre virtù, che l’hanno formato una grandissima Piramide; apparecchiato bronzi, et marmi, et che l’hanno imbalsamato sì, che le lingue dei più facondi saranno torchi accesi, per la sua fama, et come tanti robini, smeraldi, zaffiri, et piropi, fiammeggeranno. Et se alcun bramasse sapere dove è rimasta la sua imagine scolpita, sappia, che ogniuno di questi suoi Academici l’ha scolpita nel cuore, et fu ben degna, che Apelle l’havesse dipinta, che Lisippo l’havesse scolpita, et che Pirgotele l’havesse intagliata. Et poiché la gratitudine insegnò a tante nationi, che ai loro benefattori col testimonio delle statue, rendessero le dovute gratie dei benefici j recevuti, non mancare città mia di questo tuo dovuto obligo, di farli un sepolcro tale, che sia degno di  accogliere quello honorato corpo, che per le sue infinite virtù, et duoni, che hebbe vivendo della natura, è stato meritevole del Mausoleo della Regina di Caria, et di quello di Abiatte Re di Lidia. Deh se tra gli ornamenti dello animo a noi della sapientissima natura conceduti, [p. 31] risplende più di qualunque altro la gratitudine, perciocché è più necessaria al vivere humano, non restiamo di mostraci grati verso i meriti di un tanto huomo. Perciò che quanto ella è più degna da lodare, tanto più la sua contraria è da biasimare, come quella, che alle leggiadre, et gloriose opere il suo dovuto, et merito premio dinega. Et certo di lui dire, et affermare si può, che fu regola dei nostri costumi, lume delle nostre menti, che fu guida della nostra vita, rifugio delle nostre miserie, et in somma padre, maestro, signore, et fratello di tutti noi. O morte, et di quanti beni ci hai privati; quante glorie ci hai tolte; in quanta angustia ci hai posti. Però piangete, piangete, poi che sete certi da non haver a veder mai più esequie di maggior cittadino; et che abbia fatto maggior giovamento alla patria con le sue dottrine, vivendo; et hora maggior danno con la morte. Ma dove mi trasporta la mia molta affettione? Lasciamo le doglianze; le quali lasciar non potendo, pur dirò quel, che altra volta ho detto, che non si convengono lagrime a questo grande huomo, il quale se è morto in terra, è rinato in cielo, et si ha fatta una eterna memoria con le sue alte fatiche sì che in persona di lui potemo dire quel, che disse quel gran Poeta;
Di me non pianger tu, che i miei fersi
Morendo eterni, et nel’eterno lume
Quando mostrai di chiuder gli occhi, apersi.
[p. 32] O quel, che disse il nostro dottissimo Montano in questi versi, coi quali egli ha voluto honorare la memoria del suo maestro,
Exiguum nati tumulum posuere parenti,
Exiguas tibi praebet opes sors dira Telesi;
At tibi perpetuum nomen, famamque perennem
Ingenij monumenta dabunt, caeloque micabis
Lux nova sidereo, nulloque aboleberis aevo,
Veramente, che è picciolo il sepolcro, che i figlioli hanno fatto a questo grande huomo, et picciole furono le facultà, che gli concedette la malvaggia Fortuna, ma egli col suo divino ingegno si ha fabricato una memoria eterna, la quale risplende come una nuova stella nel cielo, sì che la sua gloria non sarà mai estinta della lunghezza del tempo. Et perché la Fortuna ci toglie da poter chiudere il suo corpo in ricchi metalli, chiudiamolo almeno in marmo, et intagliamoci versi, che faccino fede dei suoi gran meriti, et della nostra affettione; et mettemolo in luoco publico, perché sia esposto agli occhi di tutti, et perché veggano i peregrini, che capiteranno in questa città, che noi siamo stati degni di haver havuto un huomo, la cui fama è volata infino alle estreme parti del mondo; et del quale tu ti puoi tenere felice, et gloriosa. Et si come si gloriò Athene di Socrate, Megara di Euclide, Agrigento di Empedocle, Abdera di Democrito, Sinope di Diogene, [p. 33] Clazomene di Anasagora, et Stagira di Aristotele, maggiormente gloriar ti dei tu del tuo Telesio, Et se si ha da argomentare anco dal nome, Telesio altro non dinota, che perfettione; et fu vero presagio, che egli havea a dare perfettione a tutta la philosophia; et fu anco perfetto in ogni maniera di virtù, et di bontà. Ma mi aveggo di nuovo essere immerso nel vastissimo mare della sua gloria, et conosco di havere occupato questo luoco, che da maggior huomo esser dovea occupato. Et certo io non haveria havuto ardire di favellare in questo tempo, et di questa materia così grande, in presentia di tanti huomini dotti, et sapienti; ma costretto da coloro, che mi poteano commandare, qui venni a fare questo officio, et per me, et per voi; et conoscendo il grandissimo suggetto, di cui ho parlato, et parlo, mi pare di non essere gionto alla millesima parte di quel, che io dovea, et di havere fatto a punto come Archimede, il quale volse racchiudere la machina del mondo, et dei cicli in uno picciolo vetro. Ma come potrò io venire a capo delle sue glorie, se egli istesso non mi impetra aiuto dal cielo; perché non so qual sia stata più grande in lui, la sapientia, o la bontà, la dottrina, o la verità, che sempre era nel suo petto, et nella sua lingua. Come fu egli giusto, grato, amorevole con tutti, come visse sempre religiosissimamente, reverentissimo a’ maggiori, benigno a’ suoi eguali, humanissimo [p. 34] a’ minori; et dalla mano di Dio egualmente riconoscea, et volentieri accettava non meno, che le prospere, le cose averse, con le quali sua divina Maestà talvolta esercita, et prova i suoi diletti. Et fu tanta la integrità sua, che niuno hebbe mai ardire di chiederli cosa men, che giusta. Et se Platone disse, che l’anima non potea ritornare al cielo senza le due ale, l’una della religione, et l’altra della giustitia, et per la religione intende le virtù intellettive, et per la giustitia le morali, il Telesio senza fallo hebbe non che queste, ma molte altre virtù Christiane, che non furono note agli antichi philosophi. Et si rallegrava, che la sua philosophia si conformasse con la divina scrittura, più, che altra philosophia, et dicea, che se non fosse tale, egli l’haverebbe bruciata. La onde il Cardinal Sirleto huomo di tanta dottrina, et bontà, il solea chiamare il philosopho pio. Fu così piacevole, et benigno con tutti, come vogliono le buone usanze, et le leggi della amicitia. Et quando egli ragionava delle scientie, et delle dottrine, parea, che gli ascoltanti, fussero stati tutti adombrati; così stavano taciti, et sospesi ad ascoltarlo. Nella sua vita non si notò mai cosa se non lodevole. Né fu veduto mai se non a parti honeste, come quegli, che essendo nodrito nel grembo delle virtù, non potea né pur girar gli occhi dove fusse sospetto di alcun male. Et non solo dalle sue scientie, ma dai suoi costumi, et parole [p. 35] si imparava dottrina. Fu tanto contenente nella sua vita, che rarissime volte si infermò; et per questo menò la sua vecchiezza verde, et vigorosa, inf ino alle estremo dei suoi ultimi anni. Costui negli assalti, che hebbe di Fortuna, non si lasciò mai abbattere, ma sempre si mostrò forte, et costante; facendosi scudo della sua incomparabile prudentia, et nei suoi affanni, sempre apparve vincitore. Ma non è maraviglia, che le forze della Fortuna non si estendono contra persone savie, et prudenti, ma solo contra huomini vulgari, et di basso intelletto. Godi dunque felice anima nella beata vita, del tuo ben fare; et se bene hora non hai bisogno della tua eloquentia, perché senza parlare se tu inteso; né della tua fortezza, perché non vi è luoco di pericolo; non della tua giustitia, perché ivi non si appetisce quello di altri; non della tua prudentia, perché non si ha da elegere il buono dal cattivo; non della tua temperantia, che desiderio alcuno non vi è. Nondimeno rallegrati, che così honorata compagnia di virtù, che ti accompagnò in terra, ti habbia anco seguito in cielo: dove mentre lodi, et benedici Iddio, et godi quella eterna beatitudine, conosci, che in questo mondo non vi può essere contento per cagione, che l’attione sua è di uno agente, che è minimo, et forse nulla; misurato, di un momento, et situato in un punto, poiché la terra equiparata al cielo, non è altro, che un punto; et il tempo [p. 36] alla eternità è un momento, l’huomo a Dio è nulla. Il perché considerando ancor noi, che non può essere cosa grande questo contento, o allegrezza mondana, Indirizziamo i nostri cuori, et le nostre voglie al cielo, et a quella eterna, et immensa pace. Quando egli ragionava di Dio, le sue parole erano quasi strali, che percoteano i cuori di ciascheduno. Ma non potendo più oltra dire delle sue lodi, li prego, che si appaghino del mio volere, così come fe Serse, che tanto aggradì l’acqua, che l’appresentò Simete nelle sue mani, che non si sdegnò di porvi la bocca, et di berne. Et passando oltre, dico se la legge ordinò, che si esaltassero coloro dopo morte, che per la loro patria combattendo morivano, et costui è morto combattendo non per una sola città, non per la sua patria solamente, ma per lo universo mondo; cioè, per lo cielo, et per la terra, per l’acqua, et per lo fuoco; dando loro le proprie attioni, operationi, et sostantie, che dagli antichi erano loro state tolte; et dopo tanti et tanti anni ha superato et vinto et Greci, Latini, et Arabi, ove sono i degni guidardoni di sì alti meriti? Ove è ordinata la dovuta sua statua? I Fiorentini, per mostrare quanto sono amatori dei loro cittadini, et delle virtù, si fecero venire il corpo di Michel Angelo da Roma, et gli alzarono un sepolcro di marmo; né può negarsi, che non sia stata opera degna della solita magnanimità di [p. 37] sì divini spiriti; perché da molti secoli in qua non è stato huomo simile a costui, nella pittura, scoltura, architettura. Et certo sempre fu quella inclita città di Fiorenza produttrice di huomini singolarissimi, et in armi, et in lettere, et in tutte le scientie. Ma quanto tu città mia hai maggior cagioe di far questo per lo tuo Telesio, perché queste cose di pittura, et scoltura, quantunque nobili, et grandi, sono nondimeno tali, che col tempo si consumano, et annullano? Ma la virtù delle lettere, col tempo si fa più illustre, et corre alla sua eternità. Ma a che vi vo’ io raccontando quel, che hanno fatto i Fiorentini per un loro cittadino? Gli Athenesi inalzarono trecento sessanta statue a Demetrio Phalareo, et tante a punto, quanto sono i giorni dell’anno. Onde che maraviglia sarà, che se ne faccia una da’ Cosentini al Telesio? il quale quanto sia più degno, et più meritevole, che Demetrio, voi istessi, che havete et letti, et esaminati gli scritti dell’uno, et dell’altro, il sapete. Né vi recate, vi prego, queste mie essortationi a nota, che come spesso si inanima a correre colui, che è innanzi a tutti, et più vicino al palio, così esorto voi, che non manchiate della usata liberalità, et gratitudine; per la quale si hanno a mostrare segni, se possibile fusse, et erni di memoria. Et se tu città mia ti glorij della tua antichità, et che fusti potentissima prima, che Roma edificata fusse, et fin da alhora, che con tuoi [p. 38] tremila arcieri ti opponesti alla armata Troiana, che non mettesse le sue genti in terra, al mar di Ponente, là dove poi fu edificata la città di Temsa, già disfatta. La quale fu nobilissima republica, et insieme con altre republiche dei Bruttij, dette alhora Terina, Mamertium, Lampetia, Uffugum, Bisediæ, Vergæ, Argentanum, Hetriculum, Sypheum, davano obedientia a te, come a loro capo; et poi acquistasti Rheggio, Locri, Petilia, et Thurio, detto prima Sibari, dove non è rimasta habitatione alcuna; et Pandosia, la quale con lo aiuto dei Cosentini, havendo fatta giornata con Alesandro Re di Epiro, et occisolo nella battaglia, per obedientia a te mandò la metà del corpo reale, et tu insieme col rimanente, che pervenne anco in poter tuo, il condonasti ad una tua donna, per ricatto del suo marito, et figlioli, e il rimandasti in Metaponto, a’ nemici; il quale poi fu portato in Epiro, a Cleopatra sua moglie; et ad Olimpia sua sorella, delle quali l’una fu sorella, et l’altra matre di Alesandro il magno. Et per questa tua degna opera, quel Re hebbe il suo dovuto sepolcro; et fu tanto grato, questo tuo lodevole officio al Magno Alesandro, nepote del predetto, che si contrasse una indissolubile amicitia tra voi; laonde quando egli fu vincitore di Dario, che sono anni intorno a’ duemila, tu mandasti i tuoi ambasciatori a rallegrarti con lei della vittoria infino a Babilonia. [p. 39] Et se in segno della tua anticha nobiltà tu annoveri trecento famiglie illustri, che lo istesso Alesandro Re di Epiro ti prese da te, et dalle tue contrade; et mandolle per ostaggi in Epiro, gloriati ancora del tuo Telesio, il quale, se fusse morto in lontanissime parti, pur doveresti procurare di haverlo, et di chiuderlo in sepoltura conforme al suo gran merito; sì come procurasti, che il tuo nemico istesso fusse riportato alla sua patria, et havesse le dovute lagrime dalla moglie, et dall’altre sue persone congiunte; et fusse inalzato in un sepolcro degno della maestà reale. Che dirò di te città mia, quando Alarico Re di Goti, essendo morto dentro le tue mura, il suo esercito, temendo degli assalti tuoi, fu costretto a sepellirlo con molta fretta, sotto il tuo fiume Basento, derivandolo con la forza di tutto lo esercito dal suo letto, et poi tornandolo nel medesimo suo corso; et insieme col corpo del Re seppellirono un thesoro inestimabile. Tu havesti tanto valore, et forza, che combattesti con quel potentissimo esercito, che condusse Abramo Re di Saraceni da Africa, il quale per divina gratia di Dio fu morto, combattendo, della saetta del Cielo. Tu fusti prima chiamata Italia, et capo d’Italia, quando il nome di Italia non si stendea più oltre, che infino al fiume Lao, che hora divide la Calabria della Basilicata. I tuoi popoli furono detti Brettij da Brettio figliuolo di Hercole, et poi corrottamente [p. 40] Brutij, et per questo prima facevi il folgore, per insegna, sì come hora fai i sette monti, perché Brettio era nepote di Giove. Tu fusti capo di quel regno, che venne in parte a Spagna, quando il Re Catholico si divise il Regno con Lodovico Re di Francia. Laonde sempre si è perseverato in chiamarsi Vicerè, il governatore di queste Provincie, il quale sempre ha fatto residentia in te. Tu non ti sgomentasti mai di tante tue roine, che sei volte hai crudelmente sostenute. La prima, sì come habbiamo detto, da Alesandro Re di Epiro; la seconda da Hamilcone capitano di Anibale, la terza da Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, perché havevi seguito le parti di Cesare, la quarta, da Alarico; la quinta sotto Cataito re de’ Saraceni, il quale ruppe i patti, et la tregua, et ti prese a tradimento, la sesta, et ultima da i due Roberti Orsino, et Sanseverino, a nome di Ferdinando Re di Napoli. Nella quale ultima perdesti da settecento mila docati; né nocque punto alla tua grandezza, et pur hoggi sei potente , et grande, poiché ti estendi tanto a torno con le tue terre, et castelli; i quali non sono altro, che parte di te stessa, poiché furono edificati dai tuoi istessi cittadini in quelli anni, che fusti occupata da Africani. La onde in un sol giorno puoi formare un ben ordinato esercito di huomini valorosissimi nelle armi. Et per tante doti, che ti ha concesso il cielo, et la natura, [p. 41] non senza cagione quel gran Romano, che ti hebbe in governo, chiamava il tuo senato, Nobilissimus ordo Cosentinus, sì come si vede in un marmo, che si conserva tra le altre anticaglie di Roma. Dunque città mia, poiché sempre hai fatti atti degni, et generosi, et poiché sempre sei stata amorevole verso i meriti dei tuoi cittadini, cava hora da questa bassa, et oscura sepoltura il tuo Telesio, et inalzalo in luoco conforme al tuo obligo, et al suo gran merito. Acciocché si vegga, che da te è uscito un tanto lume, et un tanto splendore, et ne resti memoria per molti secoli, et la nostra gioventù si accenda a seguire i vestigij di così gran philosopho. Et tu dottissima Academia ordina nuove penne, nuovi inchiostri, nuove, et non prima usate maniere di epigrammi, et di versi, et guarda che la maraviglia, che tu hai di questo grande huomo, non generi in te silentio; imaginandoti, che se le lodi di altri si esprimono scrivendo, et parlando, quelle di costui si habbiano ad esprimere, maravigliando, et tacendo; perché questo non si usava dagli Egittij fuor, che nelle cose sacre. Non odi tu costui, che così morto ancora chiama, et desta non solo i più vivaci, ma i più addormentati ingegni a favellare, et a scrivere di lui? perché quella degna memoria si aggira per la mente di tutti, et si aggirerà per lungo tempo, a similitudine di una corrente ruota, che aggirata da possente [p. 42] mano, abbandonata poi da quella, si aggira gran spatio da se stessa. Ma havendo qui io detto tutto quello, che ho potuto, et che mi è stato dettato dalla mia affettione, resto tacendo; et prego tutti voi signori Academici, che vogliate con la vostra eloquentia supplire a quello, che io ho mancato. Et se io non ho parlato con quella vivacità, che si conviene alle virtù di questo grande huomo, vogliate perdonare alla mia insofficentia. Et tu Signore, che formasti il cielo, et la terra, et che arricchisti il Telesio di tanti duoni, se egli partì da questo mondo accompagnato della tua fede, et osservò sempre i tuoi santissimi commandamenti, perdonagli ti priego, se egli per la fragilità humana, traviò mai dal tuo dritto sentiero. Né mirare, che un peccatore interceda per un altro; poiché, fra le altre innumerabili gratie, che ci hai fatte, questa ancho ci concedesti, che l’uno possa per l’altro pregare, Et come il corpo alla terra antica madre renduto, et accompagnato habbiamo, così quella benedetta anima alla beatissima patria del cielo con le nostre orationi siamo degni di accompagnare. Poiché l’huomo nasce a fine di ritrovare quella strada, che il rimeni a te, sommo et vero Iddio. Rallegratevi dunque signori Academici, che il Telesio è salito in cielo. Non vedete, come risplende? Non vedete come è fatto nuova stella, et come di là ci guida, come ci guidava di qua? Et se non credete a [p. 43] me, credete al savio, il quale dice nei suoi proverbij, Qui docti fuerint, fulgebunt quasi splendor firmamenti, et qui ad Iustitiam erudiunt multos, quasi stellae in perpetuas æternitates. Et se io mi sono tanto in ciò dilungato, et ho spiegato così bassamente le lodi d’un tanto huomo, la colpa è della mia molta affettione, che ha spinto la mia lingua a seguire così nobile impresa, senza misurare le forze del mio ingegno; sapendo, che non sarà mai per occuparsi in così degno, et glorioso suggetto.

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A GLI ACCADEMICI COSENTINI
GIO: PAOLO D’AQUINO

Poiché le SS.VV. hanno pur voluto, che io dia fuori la mia oratione, non sia lor grave di difendermi da chi havesse vaghezza di oppormi cosa alcuna. Io sono alquanto lungo in alcuni periodi, perché la lunghezza dei periodi è cagione di grandezza, et può farsi securamente, sì come dice Demetrio Phalereo, pur che i membri non siano in troppo gran numero, né molto lunghi: e i buoni oratori sono spesso lunghi nelle loro chiusure. Se io uso alcuni modi poetici, so che possono usarsi, perché fanno il dire sublime, sì come efferma Cicerone, et altri scrittori, et perché la prosa Toschana è amicissima dei modi poetici; pur che non siano di quelli, che hanno a fuggirsi da’ prosatori. Se io hor mi doglio, et hor mi consuolo, et hor ritorno una altra volta al dolore, questo è proprio di quelle persone, che sono veramente addolorate: et io in questa oratione rappresento me stesso, che sono addoloratissimo. Se può parere ad alcuno, che io mi estenda nelle lodi della patria, et che tocchi alcune historie alquanto riposte, sappia che mi pare di dire assai poco, et che io ho lasciato di raccontare molte cose della mia patria, sì per non uscire dai termini della oratione, come perché le glorie di essa sono state scritte a pieno da un nostro Academico in un suo libro intitolato Cosenza, dove sono cose veramente degne da essere lette. Che i Brutii siano così detti da Brettio figliuolo di Hercole, si scrive da [2] da Stephano nel libro delle città, et da Eustathio sopra Dionisio Afro, et da Pierio Valeriano nel libro delle figure sacre, dove dichiara le medaglie dei Brutii con le inscrittioni Greche. La historia di Alesandro Re di Epiro si racconta da Livio nella prima Deca, nel libro ottavo. Che Cosenza sia stata presa da Sesto Pompeo, ne fa fede Appiano Alessandrino. La morte del Re Alarico, et la sua sepoltura, si ha da Paolo Diacono, et da Iernandes nel libro, che scrive delle guerre di Goti, et da molti altri Scrittori. Che Abramo Re dei Saraceni sia stato morto in Cosenza, e il suo grande esercito sconfitto, et che fusse dopo molti anni presa a tradimento da Cataito pur re di Africani, si racconta dal Platina, et dal Biondo, et da una antichissima cronica scritta a penna. Che sia stata presa da i duoi Roberti, si scrive dal Pontano nelle sue historie, et dal secretario di Pio Secondo; il quale afferma, che la preda fu così grande, come si ragiona. Che i Cosentini habbiano mandato ambasciatori ad Alesandro Magno infino a Babilonia, si ha da Arriano nel settimo delle sue historie. Et se ben dice Brutii, pure habbiamo ad intendere dei Cosentini; et gli altri Brutii, quasi sempre si intende dei Cosentini; et gli altri Brutii si nominano coi loro nomi particolari, come Rhegini, Mamertini, Tempsani; et nelle medaglie di Cosenza si ha solamente questa voce, Brettion, et nelle altre, Brettion, Rheginon, et Brettion Mamertinon. Che i Cosentini si siano opposti a’ Troiani, il Cardinal Sirleto raccontava di haverlo letto in una cronica Greca, che si conserva alla libreria Vaticana; dove si legge ancho, che l’anno settecento dopo Christo in Cosenza vi fu celebrato un Conciglio di quaranta Vescovi; et che la giurisditione del nostro Arcivescovo si estendea infino a Salerno, et che questo Arcivescovato [3] è uno dei più antichi d’Italia. Ma io non ho voluto toccare niuna di queste cose, perché tosto si darà fuori un libro, dove si scrive la historia di tutti i nostri Arcivescovi, che ci darà cognitione di tutte queste cose. Che la Italia anticamente non si estendesse se non quanto è la Calabria, si ha da Aristotele nella Politica, et da Strabone, et da Antiocho. Che Cosenza sia stata la metropoli dei Brutii, si afferma dello istesso Strabone. Che Cosenza sia stata capo di quel Regno, che toccò a Spagna nel partimento, che si fece del Regno, si scrive da Pietro Gravina, et da molti altri, et si mostra per una lettera, che il Re Catolico scrisse alla città di Cosenza, che si conserva fra le scritture di essa città. Che i castelli, et terre presso a Cosenza siano parte di essa, et che siano stati edificati da’ Cosentini, quando la città fu occupata da’ Saraceni, che sono da settecento anni, si ha da Berardino Martirano segretario del Regno, il quale allega in ciò Tolomeo di Luca Arcivescovo di Cosenza; il quale scrisse le historie di Calabria. La inscrittione, dove sono queste parole, Nobilissimus ordo Cosentinus, si legge in un marmo a Roma, nel quale Giulio Agrio senator Romano fa mentione di haver governato queste Provincie; et si racconta ancho dal Barrio. Perché a tempo de’ Romani si mandava un Consolo a governare la Calabria, et uno altro a governar la Sicilia, sì come si scrive da Livio. Et qui fo’ fine, et le prego a commadarmi. Di casa il primo di Gennaio 1596.