Tommaso Campanella, Poetica, p. 342
Si vede poi, che gli antichi non si sottomettevano mai
a regole prefisse a loro, se
non da Dio, da cui sono inspirati
i buoni, e dalla natura, che si deve imitare,
perché invero queste regole pedantesche oscurano e ammorzano
lo spirito puro e
lucido del poeta, che in ogni
cosa si trasmuta facilmente e d’ogni cosa parla, imitando
l’affetto che egli esprime. Però andare su li minuzzi delle
regole delli scrittori
a senno d’altri e non di quello, che
nella natura occorrere si vede, fa sempre l’uomo
manco
ammirabile e di minor grido, che gli altri non soggetti,
come appare in
Dante e nel Petrarca; onde a questo
proposito ben disse Orazio:
...Sectantem levia nervi
deficiunt animique…,
e chi ha
paura di trasgredire li precetti è umile, basso
e vile dicitore, onde il medesimo:
Serpit humi tutus nimius timidusque procellae.
Ci erano appresso i Greci i ditirambi, versi composti
di una o due dizioni, dei quali
ne appaiono vestigia appresso
i Latini e manifestamente appresso i nostri; è
l’esempio quel di Dante:
Misericordiosissimamente,
e
dell’Ariosto
Inavvedutamente manifesta,
e de’ Latini
Conturbabantur Constantinopolitani;
ma non troviamo il loro oggetto.
Nel cantare degli amori e virtù particolari con la lira
di repente, si ritrovò il
verso lirico da Pindaro, da Saffo
e da Orazio, a’ quali molto bene risponde, se non
avanza,
come io credo, il Petrarca e appresso a lui Giovanni
della Casa; non dico
il Tasso, perché ha questo stile
troppo inasprito e inalzato e però poco conviene alla