Tommaso Campanella, Poetica, p. 400

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lo Spagnuolo astuto, vantatore, simile agli Affricani descritti
da Livio; il Todesco ostinato, fedele, artificioso
di mani ed ebrio; l’Italiano potente col consiglio, con
la penna e con la spada; ma però variarli secondo il
particolar paese, perché il Veneziano fia risparmiatore,
riguardando all’utile e alla libertà, [e] buono in mare;
il Napolitano giocatore, cavaliere, dedito alle cacce e
delizioso; l’Ascolano armigero, sedizioso e superbo; gli altri li dipinge Dante benissimo e Virgilio.

Ancora si possono introdurre alcuni a parlare in loro
linguaggio, come fa Dante Arnaldo provenzale, per esser
che egli in tal lingua poetò, e Nembrotte in lingua
né da lui né da sé udita, perché egli fu cagione della
confusione, e al Diavolo attribuisce una voce rauca,
perché sta in luogo sotterraneo, e parlar con lingua
stravagante conveniente a lui, come:

Pape Satan, pape Satan, aleppe;

e l’Ariosto nelle Satire introduce un servo spagnuolo così
parlare; Lucrezio, Giovenale e Ausonio spesso interpongono,
ma questo non sta bene a poema eroico o
grave, ma più al comico. Di più il soldato deve parlare
goffo, senza figura leggiadra, massimamente nelle risse,
onde ben disse quel dell’Ariosto:

– Lascia la cura a me – dicea Gradasso –
ch’io guarirò costui della pazzia.
– Per Dio – dicea Ruggier – non te la lasso… –;

il principe parlar poco, ma parole più savie, imperiose,
massimamente a’ suoi inferiori, ma li sarà ben lecito fare
orazioni lunghe e gravi, conformi alla materia, come Enea
fece a Didone; gli oracoli brevi e occulti; gli Ulissi e i
Sinoni lunghi e artificiosi; le donne, parole altiere e
inette; i servi, timidi, deprecatori e adulatori; i vecchi,
lunghi consigliatori, vantatori del tempo passato e della lor giovinezza; gli amanti, leggiadramente in esprimere la caldezza di tanto affetto, pieno di giuramenti e
promesse, e quelle raggioni ch’essi fanno sopra le donne
loro.

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