Tommaso Campanella, Poetica, p. 418
il numero dall’ultime desinenze, secondo che si trova
ne’ cantici de’
Longobardi, e che in quanti modi si variano
l’ultime consonanze, tante sorti di
versificare si
figurano, ché nell’epopea da uomini intendenti si usano
versi
sciolti, e nelle tragedie e commedie ancora;
alli quali poemi si frammettono madrigali
o canzoni e
ballate, secondo che fa più per la materia e modo di parlare.
Tutti
questi versi constano di undici sillabe, con
l’accento nella quarta e sesta e decima, e
serviranno secondo
l’orecchia si compiace; e rispondono – secondo me
– più tosto
al falleuco e saffico de’ Latini, che all’esametro;
e lo sdrucciolo di dodici sillabe
ha molta convenienza
con l’asclepiadeo. Pure oggidì pare che sia proprio
della
bucolica fatta in terza rima, perché il Sannazzaro
gli diede questo luogo; e sciolto
s’usa nelle commedie,
e bene; ma nella tragedia sarei di parere che i versi dovessero
consonare nell’ultime sillabe con le settime delli
seguenti versi, come quella
canzone del Petrarca:
Io non vo’ più cantar com’io solea,
ch’altri non m’intendea, – ond’ebbi scorno…,
perché mantiene una gravità e fa una
certa armonia proporzionata
alla tragedia e satire ancora. I sonetti rispondono
all’epigramma eroico, i madrigali al falleuco epigramma,
de’ quali Catullo e
Marziale sono maestri, e
le consonanze agl’inni e lode de’ lirici; le satire ed elegie
s’usano in terza rima, ma ogni cosa si potrebbe migliorare;
li versi molli di
cinque o sette o d’otto sillabe sono
più atti a versi pungenti e motteggianti, che a
cose
d’importanza, e a cose amorose, come sono li scherzi
di Catullo, avvenga
messer Sperone n’abbi di quelli fatto
una tragedia, ma non con troppa sua lode.
[XXV. L’elocuzione poetica].
Ora, perché nell’Arte versificatoria dovete essere ammaestrati
negli accenti e desinenze, che si donano a queste
cose di rime per fargli capaci
d’elocuzione poetica,
passo via ad essa elocuzione. La favella ancora è imitazione