Tommaso Campanella, Ateismo trionfato, p. 90
mascare che portiamo che sono i corpi e gl’affetti loro, habbiamo
a ricevere da Dio laude o castigo secondo chi meglio
fece e disse il suo detto et atto. Io trovo tra noi rade volte
essere sacerdote quel che è di animo pio e santo, ma spesso li
Caifa e li Iasoni; né esser re chi ha reggio animo, ma chi la
fortuna, cioè la nostra ignoranza, ha fatto re; né li buoni haver
bene, né li mali male, ma come disse Salomone: «Vidi neque
velocium esse cursum neque fortium bellum neque sapientum
panem, neque artificum gratiam, sed tempus casumque
in omnibus». Dunque siamo vestiti altri di veste sacerdotale,
altri regia, altri plebea, altri schiava, altri santa, altri empia;
ma poi quando ci spoglieremo si vedrà tutto il roverso.
Perché non è pittore chi ha pennelli e colori, et imbratta le
mura, ma chi saperia pingere, benché non habbia li strumenti;
né habito fa monaco. Dunque non è re chi ha regno, ma
chi sa regnare; né nobile chi è figlio di nobile, ma chi ha animo
nobile. Così come in tragedia non è Agamennone chi
rapresenta la sua persona, né Tersite chi di Tersite si veste, né
Hecuba chi si veste di reina vecchia e sconsolata. Dunque la
politica nostra ha forza mentre dura questa comedia, ma è
forza che si finisca, perché (sic)
Di più si vede che gl’huomini si fanno dei e gl’idoli cose
vive, et altri adorò serpi, altri il fuoco, altri le stelle. Dunque
giocamo tutti alla cieca, e sendo trascorsi a bestemie tali, era
bene che Dio n’avvisasse, e poi ci lasciò fornir la comedia. Ma
già veggio le scene votarsi, e le tende scommoversi: sarà dunque