Tommaso Campanella, Del senso delle cose, p. 131
CAPITOLO 5
Del senso della luce, del fuoco, della tenebra,
del freddo e della terra
Infelici noi veramente che non conoscemo altro senso che quello
ottuso degli animali e delle piante, tardo e smorto, aggravato e sepolto,
e non vogliamo riconoscere che ogni azione nostra e voglia
e senso e possanza e moto viene dal cielo. Ecco la luce con quanto
acutissimo senso si spande sopra la terra per moltiplicarsi, generarsi
e amplificarsi, il che con diletto grande avvenirle stimar si
deve, poiché noi per amplificar questo nostro essere abbiam tanta
voglia di regni, di possessioni, d’onori, di generare. E sentono
le piante gran piacere nel rampollare, crescere, fiorire, fruttare e
moltiplicarsi, benché la corpolenza poco le permetta; e molto più
noi negli atti di Venere, perché sentiamo la nostra natura dilatarsi,
onde dovemo pensare quanto la luce più goda; e si vede che dalle
cose negre si riflette in dietro sempre quanto può, augumentandosi,
e di un luogo in un altro raddoppiandosi, onde negli antri e
caverne pur s’intromette, dove per dritto non può il sole, ella riflettendosi
d’altri corpi e d’ogni atomo d’aria con angoli e piramidi
infinite, che non li può veder bene se non la prima sapienza, come
dice Salomone. Ma nelli corpi trasparenti, qual l’acqua e li
cristalli, si vede ella vagheggiarsi, aumentarsi e penetrare come a
cose simili, e godere e unirsi, e infocare poi le cose che non sono
bianche perché a lei sono dissimili. Ma la bianchezza è l’istessa luce
smorta e ritenuta, però non brucia la carta bianca il trapassante
lume per l’ampolla; s’unisce in globo dentro e per piramide spandesi
in fuori quasi armata in punta e, fattasi lancia, si sforza di vincere
e ardere.
Il foco, poich’è la stessa luce appicciata nella materia nemica,
con gran diletto si vede divorare, crescere, vincere e volare in alto
vittorioso con la mole vinta e spiegata, il che imitiamo noi vincendo
una guerra, dilatando regno e fama, non potendo, per il corpo