Tommaso Campanella, Del senso delle cose, p. 25
non essendo resistenza di mezzo, subito si finirebbe il moto
con la natura che fa quello con tempo essenziale.
Ma questa non è causa degna di sapiente, sì perché non risponde
a quell’odio del vacuo e amor del pieno che senso cercano,
et è ragione lontana dalla questione, come se, domandato uno
perché mangia, dicesse che se no si perderia la vivanda. Di più, la
ragione è fallacissima, come Avempace e san Tomaso mostrano,
perché non solo dona tempo al moto la resistenza del mezzano
corpo in cui si fa, ma ancora la finitate del mobile che, essendo di
finito vigore, con tempo fa l’atto suo; e più l’incompossibilità delli
termini, perché non può esser nel tetto e nel pavimento il medesimo
corpo, sendo distanti; e aggiungi la natura dello spazio
lungo e largo e profondo, che per andare da un estremo ad un altro
bisogna per mezzo passare. Resta dunque che il senso commune
abborrisca il vacuo.
Ma dico ancora potersi dare per violenza, poiché dalla medesima
clessidra piena di miele, ch’è più dell’acqua grave, cade a
basso, e ne’ schizzatoi, tirando a te lo stecco bambagiato, non
viene se serri l’estremo buco, perché non rimanga vuota la canna;
ma, tratto per forza, viene, e poi lasciato da sé ritorna con impeto.
E il mantice, otturato da ogni banda e impegolato, non si può
alzare se non con forza assai, e poi impetuoso torna ad unirsi da
ogni banda per odio del vacuo che dentro v’era. E la ventosa tira
la carne perché è vuota d’aria, e il fuoco non può empirla, perduta
la rarità. E altri esempi manifestano che le cose patiscono vacuo,
come le scissure dell’aria per le palle di bombarda e per gettate
pietre, che si va dietro serrando, e la subita apertura di legni, perché,
sì come il corpo nostro aborre la divisione per natura, e per
violenza la pate, così avviene al corpo del mondo.