Tommaso Campanella, La Città del Sole, p. 23

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vivezza e grandezza consiste la beltà appresso a loro. Però è
pena della vita imbellettarsi la faccia o portar pianelle, o vesti
con le code per coprir i piedi di legno; ma non averiano
commodità manco di far questo, perché chi ci li daria? E dicono
che questo abuso in noi viene dall’ozio delle donne, che
le fa scolorite e fiacche e piccole; e però han bisogno di colori
e alte pianelle, e di farsi belle per tenerezza, e così guastano
la propria complessione e della prole. Di più, s’uno s’innamora
di qualche donna, è lecito tra loro parlare, far versi, scherzi,
imprese di fiori e di piante. Ma se si guasta la generazione, in
nullo modo si dispensa tra loro il coito, se non quando ella è
pregna o sterile. Però non si conosce tra loro se non amor
d’amicizia per lo più, non di concupiscenza ardente. La robba non si stima, perché ognuno ha quanto li bisogna,
salvo per segno d’onore. Onde agli eroi ed eroisse la republica
fa certi doni, in tavola o in feste publiche, di ghirlande
o di vestimenta belle fregiate; benché tutti di bianco il
giorno e nella città, ma di notte e fuor della città vestono a
rosso, o di seta o di lana. Abborreno il color nero, come feccia
delle cose, e però odiano i Giapponesi, amici di quello.
La superbia è tenuta per gran peccato, e si punisce un atto di
superbia in quel modo che l’ha commesso. Onde nullo reputa
viltà servire in mensa, in cucina o altrove, ma lo chiamano
imparare; e dicono che così è onore al piede caminare, come
all’occhio guardare; onde chi è deputato a qualche offizio, lo
fa come cosa onoratissima, e non tengono schiavi, perché essi
bastano a se stessi, anzi soverchiano. Ma noi non così, perché
in Napoli son da trecento milia anime, e non faticano cinquanta

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