Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 314
Senno, il qual non tirando più nutrimento alle supreme
parti, le foglie - mancando loro il vitto - si scemano et diventano
gialle, perché il proprio e strano caldo le cuoce, et l’humido
che copriva la faccia del caldo et la faceva verde si
sface, tanto che cascano prive d'aiuto. Altre piante vivono
più anni, a venti, o a trenta, a cento, trecento,
secondo che più o manco eguali sono le parti ond'elle nascono,
et più et meno dense per resistere al troppo caldo
et al troppo freddo, alli quali son nemiche tutte le caldezze
moderate delle quali le piante avvivate stanno. Et queste
tardano più a semenzare, confidate nella propria vita: tali
sono il melo, l’arancio, la quercie, l’abeto, il cipresso
per le dette ragioni, et però non perdono le foglie che ponno
resistere all’ingiurie. Però la quercia perde le foglie, non
l’arancio, perché l’arancio ha la materia spessa et viscosa
et equale fino alle punte de i rami, et perciò il calore in
esse innestato difeso dalla sua mole non teme
il freddo et il caldo, ma rimane in essa tutto a nutricarla,
avvivando il tronco et le foglie; et per ciò non nasce
egli nel freddo settentrione, ché ci vuol calore vincente la
mole terrestre in gran copia eguale per far materia atta
a nutrirsi et vivere, il che non può fare se non molto
caldo uguale di gagliardia e d'attione, il quale nel molto
freddo paese non può trovarsi, dove et le viti per esser