Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 395
tingono di luce tinta diversamente in diverse sue parti.
Noi veggiamo le cose fuor dove elle sono, non perché
oltre da noi corra cosa alcuna, - ché né anco luce potrebbe
andare sino alle stelle da noi, e se in mezzo si fermasse
si vederiano più vicine che non sono le cose con la nostra
luce -, ma perché la luce lontana vien languida
e la vicina robusta, onde ne accorgemo della distanza.
E si veggono le cose con la luce direttamente da loro a noi
vegnente: però si s'incontra la luce d'un ago che si sta
davanti gli occhi a dare dentro il nostro cristallino et
unirsi dentro alla incavatura sua (che però è fatto a modo
di lenticchia), non si può vedere. Vedesi ancora una pittura
piana di varij colori distinta mandar la luce a noi,
di modo che pare non essere piana, ma elevata come statua:
perché da quelli colori che al nero più s'avvicinano vien
languida, e par lontana, e da quelli che al bianco (il quale
è luce morta nella grossezza) s'accostano vien più viva
e men tinta, e però appar vicina. Onde di luci vicine e
lontane una pittura conspersa appare statua. Che i colori
dalla luce e tenebra dentro la materia confuse si facciano,
s'è detto prima; e che la bianchezza sia essa luce, a cui il
giallo, a cui il rubicundo o verde, a cui il turchino, a cui
il perso, a cui il fusco seguano. Onde i mari profondi