Tommaso Campanella, Poetica, p. 324
sotto le regole del vero, e qui posso fingere a mio modo;
e quando si dà
questa licenza, ognuno potrà vantarsi
d’ogni cosa fare. Però io dico che la favola si
fa per la
mancanza del vero, o de’ schivi auditori, e del soggetto
alle volte –
altramente sarebbe più poema Amadis de
Gaula che il Tasso o il
Petrarca – e che, quando questi
non ci mancano, siamo poeti ancora al vero
figuratamente,
come il Petrarca canta li suoi amori, che furono
verissimi, né li
bisognano favolosi per allettare con favole
li auditori, sendo alle cose d’amore
ciascuno per natura
inclinato, né per timore di altri, non dicendo egli male
di
alcuno, massimamente essendo egli stato in tempo più
libero che noi.
[VI. La favola].
Delle favole e loro inventori molto si disputa, e quelle
favole deve abbracciare il
buon filosofo, di cui nasce
la vera poesia, che è quasi fiore delle scienze. Io vi do
questa regola, che, essendo le favole quelle che ammaestrano
la vita e, perché
altro si voglia dire, esortano alle
virtudi e azioni buone e distogliono da’ vizi, i
loro frutti
sono degni d’esser ricevuti, e di questi se ne hanno servito
ancora i
legislatori, che hanno scritto la genealogia
degli dèi favolosamente nella sua legge; e
Pompilio
scrisse che egli da Egeria imparava le leggi, e i Romani
volsero che si
credesse Romolo figliuolo di Marte e che
non fusse morto, ma trasferito in cielo,
perché le sue
leggi, come divine, animosamente si osservassero. Queste
favolose
credenze lauda Varrone nella repubblica e
Isocrate in Busiride,
l’apprezza come necessarie, talché
parlar delli dèi secondo la credenza pubblica fu
degno pensiero d’Omero, ma introduce quella favola,
che Giove tiene due botti di
vino: una di buono è della
voluttà, l’altra di cattivo è delle miserie, e che a
capriccio
dona questo o quello a chi li piace, e perciò è biasimato
da Platone
come pernizioso alla repubblica; e meglio fa
quando introduce Giove a lamentarsi di
noi, che l’accusiamo
come fonte delli mali nostri, de’ quali siamo noi a