Tommaso Campanella, Poetica, p. 393

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primo, per non mostrar diffidenza appresso la divinità,
onde si renda il poeta sospetto che non abbia del divino;
secondo, per non trattare la divinità ignorante, che
non sappia intender quello che si dice con l’intimo del
cuore. E seè lecito alle cose umane aggiongere l’autorità
divina, è bene osservare quel che dice Cristo: «Cum
oraveritis, nolite multum loqui
».

Dar non si devono epiteti alla divinità invocata e conosciuta,
né i titoli lunghi, perché questo è proprio a
persone umane ambiziose, ma mostrar una somma confidanza
nel parlare, come si vede nell’allegate invocazioni
d’Omero, Virgilio e Museo, e tanto più adesso che
Dio s’è imparentato con gli uomini. Parlo dell’orazione
poetica e invocazione solo, che negli altri ultimamente
si deve fare, imitando i sagri dottori e la santa Chiesa,
che quasi sempre brevissime orazioni fa, quando son
communi a lei e al popolo e nel tempio si recitano, come
appare nell’orazioni della messa: e nelle private più
a lungo conviene orare per eccitar il nostro spirito a devozione:
e perché il poeta invoca in presenza di molti,
brevemente deve e confidentemente invocare, senza titoli.
Pur, quando s’invoca divinità insolita, si può circonscrivere
con epiteti convenienti al presente poema e alle
sue virtù, come fa Lucrezio, che, cantando la sua filosofia
epicurea, invoca Venere, descrivendola per voluttà
degli dèi e degli uomini, nella quale essi posero il sommo
bene. Così [si] potrebbono ancora dar quei nomi
che hanno usato gli antichi, quando sono communi a’
nostri; onde Dante così:

... o sommo Giove,
che fosti in terra per noi crucifisso.

Ma la descrizione della divinità non deve esser oscura,
che non si conosca donde si pigli l’autorità del canto,
il che avviene, e non secondo l’usanza data dagli architetti
della teologia. Però il Tasso malamente nelle prime
stanze dice:

O Musa, tu, che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,

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