Tommaso Campanella, Poetica, p. 397

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dove molto commodamente s’uniscono queste due parti,
mostrandosi che, quello che s’have a dire nel poema,
s’impari nell’invocata divinità. Coloro poi, i quali hanno
cominciata la proposizione, la fan precedere, per compir,
all’invocazione, da cui si piglia virtù per dispiegarla
nelle sue parti. Virgilio, da quella parola:

Arma virumque cano...

sin che arriva:

... atque alta moenia Romae,

propone in parole gravi e schiette tutta l’azione in compendio:
però si deve fuggir l’ornamento colorato in tal
principio per non farsi sospetto. Accenna altresì Orazio,
che non sia bene comminciare troppo altamente, percioché
si riempirebbono l’orecchie dell’auditore di grande
aspettazione, onde poi ciò che dicesse parrebbe poco:
però egli biasma colui, che comminciò sì alto:

Fortunam Priami cantabo et nobile bellum…

, e loda Omero, che bassamente parla in principio:

Dic mihi, Musa, virum… ecc.,

e poi s’inalza in materie tanto maravigliose di Scille, di
Polifemi [e] Protei. Non però deve essere languido il
parlare, perché, quando l’autore parla, deve usare più
gravità e dottrina che tutti gli altri interlocutori; per
questo io non approvo quel verso:

Canto l’arme pietose e ’l capitano,

sì per la languidezza dell’ultima dizione quattrisillaba,
sì ancora per[ché] la pietà mai non conviene all’armi, o almeno
si dubbita se loro convenga, per il che fa intoppare
il lettore alla prima parola, a cui ancora subbito verrà in
mente quella autorità d’Aristotile: «Si in foribus quis
delinquens, ad interiora procedens quomodo non errabit?
»
Lascio molte ragioni, che riprovano quella proposizione.

Deve ancora la proposizione dare l’unità al poema,

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