Tommaso Campanella, Poetica, p. 402
e imita in quello, che in questo, il che dimostra
l’affetto che egli
induce, perché quivi [più] spaventa,
che là rallegra, avvenga che per natura il
Paradiso reale
ecceda infinitamente di bellezza l’Inferno.
[XXI. La tragedia].
Parimente nella tragedia le persone introdotte imitare
si devono, però non starò a
dir altro intorno all’imitazione,
ma trattarò le parti della tragedia solamente e la
sua
materia. Mi giova dire che ella ebbe origine da’ sacrifici
de’ Gentili, fatti
in morte d’alcuno eroe, dove spesso si
rappresentava la vita felice [e] il fine loro
miserabile; e
poi è stata introdotta da’ sacerdoti e poeti al popolo per
rappresentare le miserie umane, acciò imparasse ognuno
a non fidarsi della fortuna
propria; e il coro, che si usava
nelle tragedie, simile alle nostre processioni fatte
attorno
le chiese, ciò dimostra. E per metter meglio
avanti gli occhi di tutti –
particolarmente de’ grandi, a
cui non si può dire questa verità senza disgusto recare e
ricevere – hanno osservato e si deve osservare d’introdurre
per soggetto
principale uomini possenti, noti al
mondo, di molta stima e riputazione, che sono
incorsi
in atrocissima e non pensata morte nel fine delle loro felicità,
perché,
introducendo persone communi, non muovono
le menti de’ prìncipi a considerar la loro
fortuna
e miseria, sendo che ogni cosa si contempla nel simile e
quelli sono
dissimili a loro, onde mai principe si spaventa
per morte di plebeo. Similmente muovono
il popolo
ancora a considerare le miserie umane e compatire
più la morte de’
grandi, che de’ bassi, perché vuol
considerare che le miserie, [se] puonno ne’
maggiori,
molto più potranno ne’ minori; onde si vede che, morendo
un principe di
valore, ciascuno ne compatisce,
tuttoché fusse stato tiranno, come si legge che molti
Padovani compativano nella morte di Ezzelino, loro crudelissimo
tiranno, a cui da’
nemici stessi fu data onesta
sepoltura. Finalmente le miserie de’ signori fanno venir
voglia di non voler esser possente, come essi sono, e