Tommaso Campanella, Del senso delle cose, p. 107
e nel giglio si odora soavità. Ma il gusto, tritando il cibo e
dentro ammettendolo, non solo il freddo del vino e dell’acqua
sente, ma anco il calor nativo, e così la dolcezza stitica della garobba
per la parte secca annegrita, e del giglio l’amarezza della
grossa mole, non solo la soavità della sua esalazione sottile, come
il naso fa, sente. Dunque sapere è certamente conoscere, et evidentemente.
Ora io trovo che li sensi son certi più che ogni altra conoscenza
nostra, tanto d’intelletto, come di discorso, come di memoria,
poiché ogni lor notizia dal senso nasce, e quando sono incerte
queste conoscenze, col senso s’accertano e correggonsi, et esse
non sono altro che senso indebolito o lontano o strano. Quel ch’io
appresi col senso mi resta in memoria, e quando mi sono scordato
o fatto incerto, torno a sentirlo con l’udito o con la vista e me
’l ricordo.
Similmente, quel che discorrendo conosco, mai non posso dire
che sia vero se non con l’esperienza del senso. Sant’Agostino
negò gli antipodi, e così Lattanzio e altri per alcuni discorsi loro,
e mo il senso di Cristoforo Colombo emendò tutte quelle ragioni
e le mostrò vane. E quanti discorsi fanno i filosofi sopra le
cose che non hanno sentito, son corretti poi da ogni uomo grosso
che le vede. E il discorso non è altro che procedere alla conoscenza
di cosa ignota per un’altra simile a quella propria e nota al
senso; ma spesso s’inganna, perché tutte le similitudini non sono
propinque et essenziali, ma remote. Così Aristotile argomentò che
il sole non sia caldo benché scaldi, poiché le pietre battute fan
calore, e s’ingannò perché non vide che le pietre hanno in sé calore
che per il moto si manifesta. Disse che l’acqua sia fredda per
consulta del tatto, e non consultò il gusto più certo e l’operazioni,
bianchezza e moto proprii del suo calore. Talché molte esperienze
di sentimenti fanno scienza, e non un senso solo da quello
argomentando, perché pure il senso s’inganna, et egli stesso si corregge
con altre sensazioni.
Da poi l’uomo non discorre né argomenta delle cose certe, ma
dell’incerte, e sopra le certe fonda il discorso, e quelle dice certe