Tommaso Campanella, Del senso delle cose, p. 67

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che poi sente, e li par sentirlo fuori perché non può sentir se non
per dritto, donde il lume si riflette, e per tutta la distanza si moltiplica,
e così la lontananza si misura per l’uso, e li par vedere la
cosa dove sta, e per la velocità del globo dell’occhio li par vedere
un gran monte tutto ad un tempo, il qual non vedesi se non movendo
per tutto gli occhi. La stessa velocità del visibile acceso
stecco e girato fa vedere un giro di fuoco quel ch’è solo in un poco
di spazio sempre, e il medesimo avviene movendo la vista o il
visibile. Talché la sentenza nostra sodisfa a tutti, come in Filosofia
mostrai, e quella d’Aristotile è la più stolta, che non sa chi
porti l’oggetto e li spogli, e chi poi informi la potenza inerte e la
tiri fuor dell’organo a ricevere la specie.
Maggiore fallacia si scorge in dire che il senso sia forma dell’organo,
e poi vuole che sia pura potenza materiale. Ma se è per
sé forma e potenza rispetto alla sensibile, dunque non ripugna che
sia ente in atto passibile di natura; e così diciamo noi che ogni senziente
sente in quanto pate, e in quanto pate non è quella cosa
ch’ei sente, ma ben è un’altra cosa che non sente di fuori così per
accidente, ma per essenza, perché ogni cosa conosce se stessa essere,
e ripugna al non essere e ama se stessa. Dunque se stessa per
se stessa conosce, e l’altre cose non per sé, ma in quanto ella si fa
simile a quelle, talché sente quelle in quanto sente sé mutata e fatta
quelle che essa non è.
Quinci si scuopre il secreto ignoto ad Aristotile, che Dio, per essenza
essendo ogni cosa, non riceve il sapere dalle cose, ma per sé
le sente, e però non s’avvilisce a mirar le cose mortali, com’ei pensa,
perché non le mira se non mirando se stesso, causa in cui quelle
rilucono e donde pendono. Se stesso conosce lo spirito senza passione,
naturalmente, perché ei da sé non può patire, sendo a sé similissimo;
ma poi, per le passioni d’altre cose, par ch’egli ignori se
stesso e poi si riconosca dalle proprie operazioni e d’altrui, riflettendo
in sé per discorso la conoscenza passiva estrinseca.
Or, per tornare al proposito, doveva Aristotile mirar la luce, che
pur è cosa in atto esistente e si tinge pur d’ogni colore e figura, e l’aria,
che pur è ente sottile, caldo e mobile, ma, sendo spirito, riceve
ogni altro moto e caldezza e freddezza strana. Così dunque non ripugna

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