Tommaso Campanella, Del senso delle cose, p. 79

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CAPITOLO 21
La medesima anima senziente e memorativa
esser l’imaginativa e discursiva

Che l’imaginativa sia pur l’istessa memorativa e sensitiva si vede,
perché quelli sono atti ad imaginare assai cose, che assai ne sentono
e tengono in mente; e di quelle poi accoppiano e dividono i
moti, e non si move alcuno ad imaginarsi se non per qualche similitudine
e da qualche similitudine, com’è la memoria e il sentire.
Però sognamo le cose sentite per il più, e il re di governi, il
nocchiero di navi, il dottore di dispute e ognuno dell’arte sua, e
delle cose che ama, o teme, o usa; e imaginare non è altro che sentire
un’altra cosa sopra la sentita cosa.
Si stupisce Platone come, pensando una cosa, ce ne sovvengano
tante altre che paiono volar nella fantasia come augelli; e questo
avviene perché l’imaginare è moversi, e, una cosa imaginando,
tutti li simili a quella si svegliano e tutte le passioni simili a quella
si rinovano nel sottilissimo spirito; e li vapori e li affetti della carne
e ogni cosa è atta a destar qualche imagine in noi desideranti o
timenti o irati. E tutte l’invenzioni in questa imaginativa non depravata
hanno luogo; così le bombarde dal tuono s’impararono,
la serra dalli denti, le navi dagli augelli. Si perde l’imaginativa,
e resta il senso e la memoria spesso; non per questo è altra, ma ciò
avviene da qualche passione grande della quale sola s’infà tanto lo
spirito che ogni altra cosa con quella misura. Così sono i pazzi per
amore o per dolore, che sempre di quella cosa temono o si dogliono,
e ogni cosa loro par quella; e si vede che un ammalato, per
la debolezza dello spirito, mirando nel muro, ogni picciola somiglianza
di uomo gli fa pensar che sia uomo, e così d’ogni altra cosa,
perché troppo facilmente patisce lo spirito debole.
Dunque mai non si perde l’imaginativa, ma ben si deprava per
passion grande, come il senso; e spesso al cerebro ascendono fumi
e fuligini meschiate con lo spirito del sangue, e fanno vedere
orribilità, e impediscono il giudizio dell’imagini vere, guastando i
moti certi dello spirito. Né doveva dare a questo Aristotile offizio

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