Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 315

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di mole spongiosa generate non diffendono il calor natio
né vivono. Ma le quercie, anchorché habbino gran materia
dura atta a resistere a i circondanti mali, nondimeno viscosa
et tenace non l’hanno ugualmente, ma l’estremità de i loro
rami son teneri; et perciò sempre crescono in sù le quercie,
ché la spongiosa tenerezza ha i meati più aperti,
onde si nutrica ampiamente. I quali al cedro et all’arancio
non sono. Et però perdono le foglie che stanno nell’estremo
attaccate, d'onde fugge il caldo al tronco denso
sopravegnendo il freddo; et il molto caldo, quando s'aprono,
ne trahe il nativo et fallo scemo. Il che non avviene
all’ulivo, bench'egli più sia frale della quercia, perché ha
le parti grosse et ventose et viscose, e caldo dunque per
tutto sparso in abondanza, che non teme. Come né ancho
l’arancio né lo scino, i quali però non crescono quanto la
quercia, ché lor viene da lo strano scemato: come a gli
huomini ancho accade, che i meridionali sono neri et piccioli
perché il caldo loro natio essala eccitato dal
sole, et i Boreali sono grandi et bianchi perché quello resta
dentro adunato dal freddo esterno, onde l’imbianchisce et
l’augumenta. l’abete e 'l cipresso crescono in sù, perché
hanno i meati dritti et son pieni di ragia che li condensa
et non perdono mai foglia; né fanno mai rami a torno,
perché facilmente la loro materia gommosa si condensa

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