Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 393

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le cose - volgendo li occhi l’animale - si scompigliarìano, né
potrebbono capir dentro a lui, né si ponno spogliare della
forma loro e del colore per mandarli a gli occhi, né ci è
che convenientemente possa fare questo ufficio, né le cose
si ponno moltiplicare per dare l’effetto. «Dunque meglio
è, disse, che la luce sia oggetto degl’occhi, e che nessuna
cosa si vegga si non lei, perché vedendosi lei tutto si vede,
peroché ella è mobilissima incorporea e di sé moltiplicativa,
sendo l’istesso caldo apparente principio
diffusivo, e dovunque s'abbatte si riflette in infinite linee
imaginarie». Perché realmente si effonde in ogni banda
con lume, non con raggi, come pare mentre la veggiamo
penetrare una bucca, estendersi in fila, e mentre chiudiamo
alquanto le palpebre e con li peli di quelle la distinguiamo
in raggi; e riflettendosi si porta seco l’apparenza e quantità
delle cose visibili per lei, perché è schiettissima et
atta a tingersi d'ogni volto e colore, come nelle fiamme e
nelle nuvole si mostra. E però, quando noi siamo nella
luce, non veggiamo un altro huomo che è nell’oscuro, perché
da lui a noi luce non si reflette colorata di lui; ma egli
vede noi, perché da noi a lui corre luce per tutto, come
negli occhi suoi un altro mirando può vedere. E se la
faccia nostra sta nell’oscuro e lo specchio nella luce, non la

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